Corte di Cassazione, sez. V Civile, Sentenza n.541 del 11/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI IASI Camilla – Presidente –

Dott. STALLA Giacomo Maria – rel. Consigliere –

Dott. FASANO Anna Maria – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. MENE Maria Elena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 4993/2014 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Dei Portoghesi 12 presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

***** Srl, In Liquidazione nella qualità di incorporante di Idea hotel srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma Via Postumia 1 presso lo studio dell’avvocato Scarafile Pietro che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 164/2013 della COMM.TRIB.REG., LOMBARDIA, depositata il 05/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/11/2021 dal Consigliere Dott. STALLA GIACOMO MARIA;

lette le conclusioni del P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE TOMMASO che ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI RILEVANTI E RAGIONI DELLA DECISIONE p. 1. L’agenzia delle entrate propone due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 164/2/13 del 5 dicembre 2013, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, a conferma della prima decisione, ha ritenuto illegittimo l’avviso di liquidazione notificato alla ***** srl per imposta proporzionale di registro, ipotecaria e catastale sulla seguente operazione, dalla stessa agenzia delle entrate riqualificata, D.P.R. n. 131 del 1986, ex art. 20 in termini sostanziali di cessione aziendale:

– 9 dicembre 2008, costituzione, da parte della BRE Alliance Hospitality Italy srl, della BRE Alliance Hospitality Nove srl (poi Idea Hotel srl) a socio unico;

– 30 dicembre 2008, conferimento da parte della BRE Alliance Hospitality Italy srl nella neocostituita società di un ramo d’azienda con componente immobiliare, costituito da nove alberghi di proprietà della conferente, con conseguente attribuzione a quest’ultima della corrispondente partecipazione sociale rinveniente da aumento di capitale sociale con sovrapprezzo deliberato il 16 dicembre 2008;

– 6 maggio 2009, trasferimento da parte della BRE Alliance Hospitality Italy srl a favore della ***** srl dell’intera suddetta partecipazione così acquisita nella BRE Alliance Hospitality Nove srl.

La commissione tributaria regionale, in particolare, ha ritenuto che l’avviso di liquidazione in oggetto non potesse fondarsi sul D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 dal momento che:

– l’imposta di registro era ‘imposta d’attò e, conseguentemente, non poteva riferirsi ad elementi extratestuali, ovvero ad atti diversi da quello presentato per la registrazione; – la disposizione in esame ammetteva la riqualificazione solo in forza degli effetti giuridici dell’atto, non anche di quelli economici; là dove la cessione della partecipazione sociale doveva ritenersi, quanto ad effetti giuridici, cosa diversa dalla diretta cessione di ramo aziendale;

– neppure, poteva ravvisarsi nella specie un abuso del diritto, dal momento che quest’ultimo non era stato contestato dall’amministrazione finanziaria con il dovuto contraddittorio preventivo in sede amministrativa e che, in ogni caso, si verteva di libera scelta imprenditoriale comportante un non illecito risparmio di imposta.

Resiste con controricorso e memorie la ***** srl, medio tempore dichiarata fallita.

Con ordinanza in udienza 9.10.2019 questa Corte disponeva rinvio a nuovo ruolo in attesa della decisione della Corte Costituzionale sui sollevati dubbi di legittimità del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 così come risultante dalle modifiche normative sopravvenute.

All’esito di tale decisione la causa è stata quindi riassegnata alla decisione che segue.

Il ricorso è stato trattato con rito camerale, non avendo nessuna delle parti fatto istanza di discussione in udienza pubblica D.L. n. 137 del 2020, ex art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione L. n. 176 del 2020.

p. 2.1 Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate lamenta – ex art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 dal momento che la riqualificazione giuridica sulla base di atti collegati rispondeva all’esigenza di far emergere la causa concreta dell’atto, sicché il richiamo agli effetti “giuridici” di quest’ultimo non poteva precludere l’individuazione della intrinseca natura e della sostanza economica dell’operazione voluta dalle parti, rilevante ex art. 53 Cost..

Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, medesimo art. 20 in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, comma 4 e D.P.R. n. 131 del 1986, art. 53 bis dal momento che la riqualificazione giuridica dell’atto non richiedeva l’intento elusivo, con conseguente irrilevanza della mancanza di contraddittorio preventivo e delle altre tutele previste, per le sole imposte dirette, dall’art. 37 bis cit.; neppure, un obbligo generale di contraddittorio preventivo poteva desumersi dalla disciplina UE, trattandosi nella specie di tributo non armonizzato.

p. 2.2 I due motivi di ricorso, suscettibili di trattazione unitaria, sono infondati.

La disposizione di cui al D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20 è stata fatta oggetto – nel corso del presente giudizio – di modificazioni di diretta e fondamentale incidenza sul caso in esame.

La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), (cd. legge di bilancio 2018) ne ha infatti modificato la previgente formulazione (“L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”), la quale trova oggi una più circoscritta definizione normativa.

Ribadito il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l’intervento legislativo di riforma – superando un opposto orientamento applicativo di legittimità – ha ristretto l’oggetto dell’interpretazione al solo atto presentato alla registrazione, ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili. Non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Successivamente a questa prima modificazione – ed anche in tal caso a seguito di un diverso avviso di legittimità – il legislatore è nuovamente intervenuto per affermare la natura interpretativa autentica, e dunque retroattiva, della nuova formulazione dell’art. 20, così come risultante dopo la cit. L. n. 205 del 2017.

Il 1 gennaio 2019, infatti, è entrato in vigore della L. 30 dicembre 2018, n. 145, l’art. 1, comma 1084 (bilancio di previsione per l’anno 2019), secondo cui: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, costituisce interpretazione autentica del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20, comma 1”.

Dal che si evince come la riformulazione in esame (nel senso della esclusione, dal processo di qualificazione dell’atto, degli elementi extratestuali e di collegamento negoziale) si renda applicabile – fermi i rapporti di registrazione ormai esauriti o coperti dal giudicato – anche agli atti negoziali posti in essere, come quello qui dedotto, prima del 1 gennaio 2018.

A completare la ricostruzione del travagliato quadro interpretativo, va detto che questa Corte di legittimità, con l’ordinanza n. 23549/19, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., dell’art. 20 così come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 2017, citati art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018) e L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (L. di bilancio 2019), “nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi””.

Richiamato il pregresso consolidato orientamento di legittimità sulla rilevanza qualificatoria della causa concreta del contratto e del collegamento negoziale, ed assodato che anche in base alla riforma del 2017 l’interpretazione dell’atto deve rispondere (indipendentemente da finalità antielusive) a criteri di sostanza e non puramente formali e nominali, si è in sintesi ritenuto che l’esclusione, dall’attività di qualificazione, degli elementi extra-testuali e di collegamento negoziale potesse fondatamente incidere sia sul principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), impedendo di cogliere il reale sostrato economico risultante dall’atto presentato alla registrazione (inteso non come documento ma quale complesso negoziale con causa unitaria); sia sul principio di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), sottraendo ad imposizione di registro manifestazioni di forza economica non razionalmente e coerentemente differenziabili sulla base del solo fatto esteriore che le parti abbiano stabilito di attuare il proprio assetto di interessi con un unico atto negoziale piuttosto che con più atti tra loro collegati.

Con la sentenza n. 158/2020 (GU 22/7/2020) la Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto non fondati i dubbi così sollevati, osservando che:

ferma restando l’insindacabilità da parte del giudice delle leggi della interpretazione evolutiva attribuita dalla Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica, all’art. 20 in parola, siccome riferita alla causa concreta dell’atto ed alla rilevanza del collegamento negoziale, non può dirsi, diversamente da quanto affermato dal giudice remittente, che tale interpretazione sia l’unica costituzionalmente necessitata, essendo infatti compatibili con la Costituzione anche nozioni diverse di “atto presentato alla registrazione” e di “effetti giuridici” in relazione alle quali considerare la capacità contributiva espressa;

– la scelta del legislatore del 2017 di discrezionalmente escludere ogni rilevanza agli elementi extra-testuali ed ai negozi collegati (salvo che negli specifici casi desumibili da diverse disposizioni dello stesso TU Registro) deve ritenersi non arbitraria, ed anzi coerente con i principi ispiratori dell’imposta di registro e, in particolare, sia con la sua natura, storicamente riconosciuta, di “imposta d’atto”, sia con la tipizzazione tariffaria e per effetti giuridici, non economici, degli atti imponibili;

la tesi dell’interpretazione dell’atto incentrata sulla nozione di causa reale non appare coerente con la sopravvenuta introduzione nell’ordinamento della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis poiché “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea)”.

La stessa questione di legittimità costituzionale già esaminata da C.Cost. 158/20 è stata sollevata, con ordinanza di rimessione 13 novembre 2019, anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna la quale ha altresì sottoposto al vaglio del giudice delle leggi, in via subordinata, la diversa ed ulteriore questione della legittimità costituzionale della L. 30 dicembre 2018, n. 145, cit. art. 1, comma 1084, in forza del quale la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lett. a), “costituisce interpretazione autentica” del D.P.R. n. 131 del 1986, censurato art. 20.

A detta della CTP (che ha sollevato la questione ex artt. 3,81,97,101,102,108 e 24 Cost.) l’attribuzione testuale di carattere interpretativo autentico alla norma innovativa (escludente il collegamento negoziale dall’attività di qualificazione dell’atto ex art. 20) sarebbe unicamente finalizzata a sancire la retroattività della novella (effetto tipico, appunto, delle norme di interpretazione autentica), e ciò in presenza di tre profili di irragionevolezza:

– la mancanza di un preesistente contrasto interpretativo, stante il consolidato orientamento di legittimità (poc’anzi riportato) secondo cui, al contrario, l’atto da registrare andrebbe qualificato anche in virtù del suo collegamento causale con atti ed elementi esterni;

– la non prevedibilità da parte degli operatori della innovazione apportata, costituente una sorta di “forzatura” del legislatore rispetto ad un quadro interpretativo che, sebbene in senso opposto, doveva ritenersi del tutto certo e non necessitante di chiarimenti;

l’insussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” giustificanti l’adozione eccezionale di una norma retroattiva, come tale destinata ad interferire anche sui procedimenti in corso e sulla “parità delle armi” tra i contendenti (art. 6 CEDU).

Ulteriori dubbi di legittimità sono poi stati dedotti sotto il profilo della menomazione delle ragioni di bilancio, della indebita ingerenza del legislatore nella sfera di autonomia del potere giudiziario, della violazione del diritto di difesa dell’amministrazione finanziaria nei giudizi da questa già radicati sulla base della precedente lettura dell’art. 20.

Orbene, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 39/21 (GU 17/3/21), ha richiamato – quanto alla legittimità in sé del nuovo testo dell’art. 20 – il convincimento di infondatezza della questione così come già emerso con la menzionata sentenza n. 158/20; ha quindi dichiarato inammissibili (ex artt. 24,81,97,101,102 e 108 Cost.), ovvero infondati (ex art. 3 Cost.), gli ulteriori dubbi di legittimità costituzionale sulla retroattività “per interpretazione autentica” della nuova disciplina. In ordine a quest’ultimo profilo, ha osservato la Corte che: non è irragionevole attribuire efficacia retroattiva ad un intervento che abbia carattere di sistema come quello inciso, posto che il legislatore ha in tal modo “certamente fissato uno dei contenuti normativi riconducibili, più che all’ambito semantico di una singola disposizione, a quello dell’intero “impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro”, dove la sua origine storica di “imposta d’atto” “non risulta superata dal legislatore positivo” (sentenza n. 158 del 2020)”; nemmeno, l’intervento può dirsi irragionevole quando esso sia determinato “dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche di legittimità) che si è sviluppata in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore (sentenza n. 402 del 1993)”, fermo restando che l’interpretazione di legittimità dell’art. 20 non risultava comunque del tutto monolitica, trovando anche forte dissenso nella dottrina;

– non può dirsi che la modificazione legislativa fosse a tal punto “imprevedibile” da palesarsi irragionevole (neppure nella sua attribuita efficacia retroattiva), ponendosi invece essa su un piano di rispettata “coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”, secondo quanto già osservato con la sentenza 158/20;

– quanto alla asserita violazione del principio di uguaglianza, valgono i principi già evidenziati in quest’ultima pronuncia sul fatto che la disciplina del 2017 non leda l’art. 3 (e neppure l’art. 53 Cost.), dovendosi qui aggiungere (per quanto concerne lo specifico aspetto della retroattività) che “nella giurisprudenza sovranazionale si riconosce che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona “contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione” e non viceversa”.

p. 3.2 All’esito del complesso iter normativo e giurisprudenziale così riassunto, la sentenza della commissione tributaria regionale qui impugnata deve dunque trovare condivisione, perché confermativa della illegittimità di un avviso di liquidazione basato proprio su un’attività di riqualificazione “per estrinseco”; cioè fondata su elementi interpretativi extratestuali rispetto all’atto presentato alla registrazione e, segnatamente, riconducibili ad un’ipotesi tipica di finalizzazione mediante collegamento negoziai (costituzione societaria; conferimento di ramo aziendale; aumento capitale sociale; trasferimento della partecipazione così rinveniente).

La riqualificazione in termini sostanziali ed unitari di cessione di ramo aziendale non può quindi trovare sostegno normativo. Ne’ la maggior pretesa fiscale potrebbe essere recuperata in chiave di repressione di un fenomeno elusivo e di abuso del diritto, ostandovi sia il fatto che una tale causa creditoria non venne (dichiaratamente) mai dedotta dall’amministrazione a fondamento dell’avviso di liquidazione in esame, sia il fatto che una tale impostazione presupporrebbe comunque tutta una serie di garanzie sostanziali e processuali per il contribuente (L. n. 212 del 2000, art. 10 bis qui non applicabile ratione temporis) nella specie inosservate.

La complessità dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale in materia depone per la compensazione delle spese di lite.

P.Q.M.

La Corte:

– rigetta il ricorso;

– compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della quinta sezione civile, il 4 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

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