LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –
Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –
Dott. PAOLITTO Liberato – Consigliere –
Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –
Dott. MONDINI Antonio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 23377/2013 proposto da:
I.B., elettivamente domiciliato presso la cancelleria della Corte di cassazione, Piazza Cavour n. 2, rappresentato e difeso dall’avvocato Maria Izzo;
– ricorrente –
contro
Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
e contro
Società Equitalia Sud s.p.a, in persona del L.R.;
– intimata –
Ministero dell’Economia e finanze;
– intimata –
avverso la sentenza n. 208/02/13 della COMM. TRIB. REG., Campania depositata il 18.07.2013.
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 17/11/2021 dal Consigliere Dott. BALSAMO MILENA.
FATTI DI CAUSA
1. I.B. – chiede sulla base di sei motivi – la cassazione della sentenza n. 208/02/13 con la quale la Commissione tributaria regionale della Campania ha respinto l’appello, rilevando che l’estinzione del giudizio per inattività delle parti – a seguito di rinvio al giudice d’appello dopo la cassazione della sentenza – determina la definitività dell’atto impositivo originariamente impugnato.
2. In particolare i giudici di appello negavano sia la prescrizione della pretesa tributaria, il cui termine decorre dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere ai sensi dell’art. 2935 c.c., sia la decadenza dal potere impositivo esercitato nel termine biennale previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 25; ed, infine, non accoglievano le altre eccezioni sollevate dal contribuente aderendo alle motivazioni del giudice di primo grado.
Si costituisce l’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Con atto del 22 novembre 2018, il contribuente presentava istanza di sospensione del giudizio D.L. n. 119 del 2018, ex art. 6, cui non faceva seguito il deposito della domanda di definizione agevolata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
2. Con il primo motivo, si denuncia omessa pronuncia ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4), e violazione dell’art. 112 c.c.p., per avere i giudici territoriali omesso di statuire sull’eccezione di giudicato sollevata nel giudizio di merito, secondo la quale, benché l’estinzione del giudizio “fa salvo l’originario atto impositivo impugnato”, le sentenze di merito non possono ritenersi travolte dall’estinzione, allorquando siano già passate in giudicato al momento della proposizione del ricorso per cassazione, notificato al ricorrente oltre il termine lungo per impugnare.
3. Con il secondo mezzo, si lamenta la violazione dell’art. 2909 c.c., e dell’art. 234 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3) e 5), per omesso esame dell’eccezione di giudicato sollevata dal contribuente e per l’omessa valutazione delle eccezioni di prescrizioni e decadenza, dei motivi concernenti l’erroneo calcolo degli interessi e l’omesso invio dell’avviso bonario, sulle quali il decidente si è pronunciato aderendo alla decisione di primo grado.
4. Con il terzo motivo si lamenta l’erronea interpretazione dell’art. 2935 c.c., in combinato disposto con l’art. 2909 c.c., e dell’art. 304 c.p.c., per avere la Regionale applicato le norme sull’interruzione sulla sospensione all’istituto della decadenza, senza considerare che la S.C. ha escluso l’effetto permanente dell’interruzione, decorrendo il dies a quo dell’effetto interruttivo dalla domanda ovvero dalla notifica dell’avviso di accertamento.
5. Con il quarto motivo, il contribuente lamenta l’omessa motivazione in ordine alla violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17, nonché del D.L. n. 106 del 2005, e dell’art. 3 Cost., ex art. 360 c.p.c., n. 3), per avere i giudici territoriali applicato il termine biennale di decadenza di cui all’art. 25 cit., anziché il disposto del D.P.R. cit., art. 17, il quale prescrive il temine annuale per la notifica delle cartelle, come affermato dalla S.C. con sentenza n. 21498 del 2004, la quale ha statuito che per il periodo antecedente al primo gennaio 1999 la notifica della cartella doveva essere effettuata entro un anno.
6. La quinta censura deduce la nullità della cartella e la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 4), per omessa pronuncia; sostiene al riguardo che l’atto impositivo trascrive solo la cifra globale degli interessi e non anche le singole aliquote, sostenendo che già nel ricorso originario aveva dedotto che “la somma richiesta è eccessiva, che la concessionaria ha erroneamente applicato interessi di mora e sanzioni pecuniarie alla somma di cui all’avviso di accertamento provvedendo a triplicare l’importo originariamente preteso”.
Deduce al riguardo di aver lamentato anche il difetto della indicazione del responsabile del ruolo, affermando che nella cartella era indicato l’ufficio di ***** poi soppresso, con conseguente nullità della cartella.
7. Con il sesto motivo, si lamenta l’inesistenza della cartella per carenza di potere per violazione degli artt. 474 e 479 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3), in quanto l’Ufficio che ha emesso il ruolo era stato soppresso, con conseguente indeterminatezza e illiquidità del credito.
8. Va preliminarmente dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze, sia in quanto il suddetto intimato non è stato parte del giudizio di appello (Cass., Sez. V; 18 febbraio 2021, n. 4329; Cass., Sez. II, 16 gennaio 2012, n. 520), sia in quanto la legittimazione in tema di contenzioso tributario spetta esclusivamente all’Agenzia delle Entrate per i procedimenti introdotti successivamente al 1 gennaio 2001 (Cass., Sez. V, 6 dicembre 2017, n. 29183).
9. Il primo e il secondo motivo (quest’ultimo relativo all’omessa pronuncia sulla eccezione di giudicato), che – attinenti a questioni intimamente connesse -possono essere esaminate congiuntamente, sono prive di pregio.
L’inammissibilità del ricorso per cassazione con conseguente passaggio in giudicato della sentenza di appello avrebbe dovuto essere proposta nell’ambito di quel giudizio ovvero avrebbe dovuto essere sottoposto alla S.C. in sede di revocazione.
In mancanza di impugnazione, la sentenza della Corte Suprema che ha deciso cassando la prima sentenza della CTR e rinviando al secondo giudice, è divenuta definitiva, non potendo più essere ribaltata da eccezioni orami tardive; trovando applicazione le norme sull’estinzione del giudizio non riassunto.
10. I1 terzo motivo è infondato.
Alla luce della giurisprudenza di questa Corte, in tema di contenzioso tributario, “l’estinzione del processo all’esito della cassazione con rinvio della sentenza di merito e dell’omessa riassunzione del giudizio è rilevata anche d’ufficio del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 45, comma 3, e art. 63, e si estende non soltanto al grado in cui viene pronunziata, ma all’intero giudizio, con il conseguente effetto di consolidamento dell’atto impositivo” (Cass. n. 23922/2016); “la pronuncia di estinzione del giudizio comporta, ex art. 393 c.p.c., e D.Lgs. n. 516 del 1992, art. 63, comma 2, il venir meno dell’intero processo ed, in forza dei principi in materia di impugnazione dell’atto tributario, la definitività dell’avviso di accertamento” (Cass. n. 23922/2016, n. 21143/2015, n. 16689/2013, n. 5044/2012, n. 3040/2008); inoltre, è stato precisato che, “in ipotesi di estinzione del processo, per omessa riassunzione, il termine di prescrizione (come di quello di decadenza) va ancorato, a prescindere dalla previsione di cui all’art. 2945 c.c., comma 3, alla data di scadenza del termine utile per la (non attuata) riassunzione della causa davanti al giudice di rinvio, posto che solo da tale data, per effetto dell’acquisita definitività dell’atto impositivo, l’Amministrazione può, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68,D.P.R. n. 602 del 1973, artt. 14 e 15, far valere in modo definitivo e compiuto il proprio credito, attivando la relativa procedura di riscossione” (Cass. n. 556/2016, n. 9521/2017 e n. 9215/18); in alcune decisioni (Cass. 16689/2013; Cass. 5044/2012; Cass. 3040/2008) rese in fattispecie di estinzione del giudizio conseguente alla cassazione con rinvio di altra sentenza, la Corte ha altresì osservato “che la pretesa tributaria vive di forza propria, in virtù dell’atto impositivo in cui è stata formalizzata, e che l’estinzione del processo travolge la sentenza impugnata, ma non l’atto amministrativo, che non è atto processuale bensì l’oggetto dell’impugnazione”, e che “la riassunzione della causa in sede di rinvio può essere fatta da una qualunque delle parti; tuttavia, dominando, anche in questa fase, il principio dell’interesse (art. 100 c.p.c.), la riassunzione verrà operata da quella delle parti che ha interesse ad ottenere una pronuncia conclusiva, non certo da quella per la quale l’estinzione dell’intero processo possa essere di vantaggio” (Cass. n. 1252/1968 e n. 23922/2016 citata).
Per il processo tributario, del tutto armonicamente, il D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 63, stabilisce che quando la Corte di cassazione rinvia la causa alla commissione tributaria provinciale o regionale, le parti sono tenute a riassumere la causa “nel termine perentorio di un anno dalla pubblicazione della sentenza”. Qualora la riassunzione non avvenga entro tale termine, o si avveri successivamente ad essa una causa di estinzione del giudizio di rinvio, “l’intero processo si estingue”. La natura impugnatoria del processo tributario comporta poi che l’estinzione del processo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 63, comma 2, per omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, comporta la definitività dell’avviso di accertamento impugnato, e della pretesa tributaria in esso incorporata, atteso che detto avviso non è un atto processuale, ma l’oggetto del giudizio (Cass. n. 2837/2016; n. 21143 del 2015, n. 16689 del 2013, n. 5044 del 2012, n. 3040 del 2008).
Ciò posto, considerata la specifica natura della pretesa tributaria, in quanto necessariamente incorporata in un atto impositivo, nell’ipotesi di estinzione del processo per omessa riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio – estinzione per la quale non è prescritto un particolare provvedimento del giudice -, il dies a quo del termine di prescrizione come del termine di decadenza va ancorato alla data di scadenza del termine utile per la non attuata riassunzione della causa davanti al giudice del rinvio, atteso che solo da tale data, per effetto dell’acquisita definitività dell’atto impositivo, l’amministrazione può, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 68, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 14, lett. b), art. 15 e art. 17, lett. c), far valere in modo definitivo e compiuto il proprio credito, attivando la relativa procedura di riscossione (cfr. Cass. n. 556 del 2016).
Il problema del rapporto tra decorrenza della prescrizione e pendenza del giudizio ordinario ha trovato soluzione nella giurisprudenza di legittimità, nel senso che: – la domanda giudiziale comporta sia un effetto interruttivo istantaneo (art. 2943 c.c., comma 1, e art. 2945 c.c., comma 1), sia un effetto sospensivo (o “interruttivo permanente”), con la conseguenza che “la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio” (art. 2945, comma 2); – la ratio legis è finalizzata ad evitare che il tempo necessario all’accertamento giurisdizionale del diritto possa produrre effetto estintivo in pregiudizio della parte alla quale il diritto sia infine riconosciuto con sentenza passata in giudicato; – nel caso di estinzione del giudizio, resta fermo l’effetto interruttivo istantaneo della prescrizione (per cui, dalla data della domanda si inizia un nuovo periodo di prescrizione), non anche quello sospensivo in pendenza di causa; giacché in tanto la suddetta ratio legis è meritevole di attuazione, in quanto la parte che essa vorrebbe tutelare dimostri di avere concreto interesse all’accertamento giurisdizionale, coltivando con diligenza il processo; – al contrario, qualora il giudizio si estingua per inerzia della parte, non vi è ragione di preservare quest’ultima dagli effetti estintivi riconducibili alla durata della lite, sicché si mantiene il solo effetto interruttivo istantaneo; con la conseguenza che la prescrizione decorre non già dalla data di estinzione del giudizio, ma dall’originario atto interruttivo, vale a dire dalla domanda giudiziale (art. 2945, comma 3).
Viceversa, le ragioni che giustificano, nel processo tributario, la deviazione dalla regola generale di cui all’art. 2945, comma 3, (così come su interpretato dalla S.C.) vanno individuate nei seguenti elementi di specialità: – la natura impugnatoria del medesimo e, in particolare, la natura amministrativa, e non processuale, rivestita dall’atto impositivo, il quale costituisce non atto di impulso del processo, ma il suo oggetto (Cass. 21143/15; 16689/13; 5044/12); la conseguente definitività che deriva all’atto impositivo dall’estinzione del giudizio di impugnazione contro di esso proposto dal contribuente; – l’irrazionalità di una soluzione che, ritenendo applicabile anche al processo tributario il disposto generale di cui all’art. 2945, comma 3, verrebbe a far decorrere la prescrizione, a carico dell’amministrazione finanziaria, da una data (l’introduzione del giudizio) antecedente alla definitività dell’atto impositivo che realizza (“incorpora”) la pretesa tributaria medesima; con la conseguenza paradossale che il titolo dell’imposizione potrebbe risultare ineseguibile (perché estinto per prescrizione) ancor prima di essere divenuto definitivo; l’insussistenza, nel processo tributario, della ratio ispiratrice l’art. 2945, comma 3, dal momento che, proprio per la sua natura impugnatoria e per la definitività che l’atto impositivo assume per effetto dell’estinzione del giudizio in caso di mancata riassunzione, è il solo contribuente ad avere interesse alla riassunzione sicché, diversamente argomentando sulla base della regola generale, l’eliminazione dell’effetto sospensivo della prescrizione in pendenza di un giudizio tributario che poi si estingua per mancata riassunzione opererebbe a favore proprio della parte processuale (il contribuente) che, mostrando disinteresse per la coltivazione del giudizio, ha consentito che l’atto impugnato divenisse definitivo; – il regime della riscossione frazionata in pendenza di giudizio, D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 68, non è dirimente in senso contrario alla soluzione qui accolta, posto che: se è ammessa, e nei limiti in cui lo è (sentenze intermedie favorevoli all’amministrazione finanziaria), la riscossione frazionata non realizza in via definitiva la pretesa tributaria (sussistendo, in caso di diverso esito finale del giudizio, l’obbligo di restituzione al contribuente delle somme da questi medio tempore pagate), ma opera sul piano meramente anticipatorio ed interinale degli effetti di un accertamento giudiziale ancora in itinere; se, al contrario, la riscossione frazionata non è ex lege ammessa (sentenze intermedie favorevoli al contribuente), sussiste un impedimento di diritto alla realizzazione della pretesa, con conseguente mancato decorso, per regola generale, del termine prescrizionale.
11. Il quarto motivo è infondato.
La questione relativa alla mancanza di un termine di decadenza per la notificazione delle cartelle di pagamento approdava avanti alla Corte costituzionale, che, con sentenza 7.7.2005 n. 280, dichiarava l’illegittimità costituzionale del D.P.R. n. 602, art. 25, – nel testo modificato dal D.Lgs. n. 193 del 2001 -, nella parte in cui non prevedeva alcun termine a pena di decadenza entro il quale si doveva notificare al contribuente la cartella di pagamento (la Corte dava altresì atto della inefficacia del termine di decadenza stabilito dalla modifica del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, disposta dalla L. 30 dicembre 2004, n. 311, art. 1 comma 417, – norma peraltro non investita dalla questione di costituzionalità – in quanto la decorrenza di tale termine era collegata alla consegna dei ruoli al concessionario, attività per la quale non era previsto alcun termine, venendo in tal modo ad essere resa praticamente inefficace la stessa funzione del termine di decadenza).
Il Legislatore ha, quindi, inteso conformarsi alla pronuncia del Giudice delle Leggi adottando il decreto L. 17 giugno 2005, n. 106, convertito con modificazioni nella L. 31 luglio 2005, n. 156, ridisciplinando l’intera materia dei termini di decadenza sia per l’attività di accertamento che per la notificazione delle cartelle.
Ciò in base ai principi affermati dalla Cassazione a Sezioni Unite nella sentenza del 30 novembre 2005, secondo cui i nuovi termini previsti dal citato art. 25, hanno efficacia retroattiva, salvo il particolare regime transitorio previsto per le somme che risultano dovute a seguito dell’attività di liquidazione prevista dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36 bis.
Tuttavia, la L. n. 156 del 2005, pubblicata sulla G.U. del 9 agosto 2005 ed entrata in vigore il giorno successivo ha stabilito che “art. 1 ((5-bis. Al fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione dei crediti tributari, la notifica delle relative cartelle di pagamento è effettuata, a pena di decadenza:….b) entro il 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione, con riferimento alle dichiarazioni presentate negli anni 2002 e 2003” contemporaneamente abrogando l’art. 17 cit. (comma 5-ter); entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione relativamente alle dichiarazioni presentate entro il 31.12.2001; entro 31 dicembre del secondo anno successivo a quello in cui l’accertamento è divenuto definitivo.
La norma, di carattere transitorio, trova applicazione non solo alle situazioni tributarie, anteriori alla sua entrata in vigore, pendenti presso l’ente impositore, ma anche a quelle ancora “sub iudice”(Cass. nn. 14449 e 29845 del 2017).
A sua volta il richiamo alla decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17, comma 3, su cui il ricorrente insiste, non è pertinente. A parte l’erroneità del riferimento ratione temporis, essendo stata la cartella notificata a seguito della estinzione del giudizio, quando cioè l’art. 17, era stato già modificato dal D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 6, sicché il medesimo constava, pro tempore, di un solo comma suddiviso in tre lettere, deve osservarsi che la Disp. citata – tanto nel testo vigente al momento e dal cit. art. 25, nel vecchio comma 3, quanto nella successiva lett. c), – era riferita alle somme dovute in base all’attività di liquidazione ex art. 36 bis cit..
Solo le somme a essi conseguenti dovevano essere iscritte in ruoli resi esecutivi a pena di decadenza entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello in cui l’accertamento fosse divenuto definitivo. E solo in questo limitato senso la norma dovevasi considerare operante per tutti i tributi, diretti o indiretti.
La cartella di pagamento, notificata in data 14.12.2009, costituisce atto esecutivo conseguenziale ad avviso di accertamento divenuto definitivo con la scadenza del termine per la riassunzione del giudizio dinanzi alla CTR e, dunque, a seguito di estinzione del giudizio, con la conseguenza che, da un lato, non trova applicazione la disciplina transitoria con efficacia retroattiva di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 36, comma 2, (come modificato dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1 comma 5 ter, lett. b), n. 2)), né la disciplina dettata in via generale dal D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5 bis, in quanto concernente esclusivamente le liquidazioni d’imposta effettuate a seguito di “controlli automatizzati” delle dichiarazioni; dall’altro, ma trova applicazione la disciplina “a regime” del nuovo D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, applicabile a tutte le cartelle – anche a quelle emesse in seguito a procedura ordinaria di accertamento- notificate successivamente al 2005.
Il termine per emettere la cartella scadeva dunque il 31.12.2009 ed il dies a quo della decorrenza va individuato nella data della scadenza del termine per la riassunzione. Detto termine cadeva il 15 settembre 2007, tenuto conto della pubblicazione della sentenza di questa Corte in data 9 agosto 2006 e del periodo di sospensione dei termini feriali; con la conseguente tempestività della notifica della cartella avvenuta entro il 31 dicembre del secondo anno successivo all’epoca in cui l’accertamento è divenuto definitivo, vale a dire il 15.09.2007.
12. La quinta censura con cui si lamenta l’omessa motivazione in ordine all’eccezione relativa all’erroneo calcolo degli interessi è fondata.
Sul punto, la CTR si è limitata a condividere la decisione di primo grado.
In tema di processo tributario è nulla, per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 36 e 61, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente priva dell’illustrazione delle censure mosse dall’appellante alla decisione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, poiché, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento della decisione e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame. (In applicazione del principio, la S.C. ha annullato la sentenza impugnata che aveva confermato la decisione di primo grado attraverso il mero rimando al contenuto di tale pronuncia ed a quello agli scritti difensivi di una delle parti, in modo del tutto generico e senza esplicitare il percorso logico giuridico seguito per pervenire alle proprie conclusioni: Cass. nn 15884/2017; 24452/2018).
Nel caso di specie, il mero rimando al contenuto della sentenza di primo grado, come quello agli scritti difensivi di una delle parti, è talmente generico e privo di ogni segno di adesione a quanto ivi indicato, da renderlo privo di effetto (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 7402 del 23/03/2017) al fine di soddisfare quel contenuto minimo che la motivazione deve avere per risultare accettabile; intende qui la Corte invero confermare che è nulla per mancanza. In altri termini, la mera adesione a quanto ritenuto in primo grado, di per sé, risulta del tutto insufficiente a far ritenere che si sia assolto l’onere di motivazione; è necessario che da tal adesione, sia pur sinteticamente, si ricavi (Cass. n. 28113 del 16/12/2013) l’indicazione dell’effettiva disamina dei mezzi di gravame; in tema di processo tributario, è quindi nulla, per violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 61, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della commissione tributaria regionale completamente carente dell’illustrazione delle critiche mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame.
13. L’ultima censura è inammissibile, in quanto presuppone la proposizione delle relative questioni già nella fase di merito, in primis, nel giudizio di prime cure.
Al contrario, né dalla sentenza né dal ricorso risulta l’avvenuta proposizione delle eccezioni relative alla nullità della cartella esattoriale.
Il ricorrente che proponga una questione ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione nel giudizio di appello ed anche di indicare in quale atto processuale del giudizio precedente, in modo da consentire alla corte l’accertamento ex actis della veridicità di tale asserzioneprima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. n. 16502/2017, in motiv; n. 9138/2016).
Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, difatti, i motivi del ricorso per cassazione devono investire, a pena d’inammissibilità, questioni che siano già comprese nel tema del decidere del giudizio d’appello, non essendo prospettabili per la prima volta in sede di legittimità questioni nuove o nuovi temi di contestazione non trattati nella fase di merito, tranne che non si tratti di questioni rilevabili d’ufficio (v. Cass. Sez. 3, 09/01/2002 n. 194; più di recente, v. Cass. Sez. 6 – 1, 09/07/2013 n. 17041; n. 25319/2017; n. 907/2018).
Nel caso di specie non risulta che le nullità, qui prospettate dalla parte ricorrente, siano stata eccepite quale motivo di ricorso avverso la cartella di pagamento, sicché ogni indagine sulle stesse è oggi preclusa (Cass. n. 22810/2015).
14. L’accoglimento del quinto motivo di ricorso, per le ragioni sopra indicate, determina la cassazione della sentenza impugnata con rinvio al secondo giudice, che dovrà riesaminare la questione relativa all’eccezione del calcolo di interessi già sottopostagli.
P.Q.M.
accoglie il quinto motivo di ricorso; rigetta i restanti motivi di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla CTR della Campania in altra composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente grado del giudizio.
Così deciso in Roma, nell’adunanza camerale della quinta sezione della Corte di Cassazione, il 17 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022
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