LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 11212/2019 R.G. proposto da:
S.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Attilio Sebastio, con domicilio eletto in Roma, Via Germanico, n. 109, presso lo studio dell’Avv. Giovanna Sebastio;
– ricorrente –
contro
SO.G.E.T. S.p.a., rappresentata e difesa dall’Avv. Sergio Della Rocca, con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, Via Emilio de’ Cavalieri, n. 11;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, n. 412/2018, depositata il 15 ottobre 2018.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 16 novembre 2021 dal Consigliere Emilio Iannello.
FATTI DI CAUSA
1. L’Avv. S.G. convenne in giudizio avanti il Tribunale di Taranto la SO.G.E.T. S.p.a. chiedendone la condanna, ex art. 2041 c.c., al pagamento della somma di Euro 841.015,61 a titolo di indennizzo per ingiustificato arricchimento in relazione all’attività professionale svolta in favore della stessa tra il 1987 e il 2000, concretatasi nella proposizione di numerosi ricorsi per insinuazione tardiva in procedure fallimentari.
Espose a fondamento che:
– la domanda in precedenza proposta per il conseguimento, su base contrattuale, dei compensi professionali spettanti, era stata rigettata dal medesimo tribunale in ragione del convincimento che il credito fosse stato estinto con il pagamento quietanzato di Euro 103.291,40, ritenuto espressivo non di un mero acconto ma di un accordo transattivo globale;
– il gravame allora interposto era stato rigettato dalla corte d’appello con sentenza n. 91 del 2008 sul rilievo che la produzione dei n. 1218 fascicoli di parte non era avvenuta tempestivamente;
– la descritta attività era rimasta per tal motivo non retribuita e sussistevano pertanto gli estremi dell’azione generale di arricchimento senza causa ex art. 2041 c.c..
2. Con sentenza n. 2557/2014 il tribunale rigettò la domanda ritenendo che il giudicato formatosi sulla detta precedente pronuncia precludesse la proponibilità anche della nuova domanda e che, comunque, difettava il requisito della sussidiarietà ex art. 2042 c.c..
3. Con sentenza n. 412/2018, depositata il 15 ottobre 2018, la Corte d’appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, ha confermato tale decisione rilevando (in risposta ai tre motivi di gravame del S.) che:
– era corretto il convincimento espresso dal primo giudice da intendersi nel senso che era ormai coperta da giudicato l’affermazione secondo cui difettava la prova dello svolgimento dell’attività per cui erano stati reclamati i compensi e che tale giudicato “finiva per coprire anche la possibilità di proporre una nuova domanda”;
– era altresì corretta l’ulteriore affermazione secondo cui la domanda ex art. 2041 c.c., era comunque inammissibile per difetto del presupposto della sussidiarietà, “attesa la sussistenza per il S. della possibilità di esperire azione tipica contrattuale, invero diligentemente attuata, pur se con esito negativo”.
4. Avverso tale decisione l’Avv. S.G. propone ricorso per cassazione con tre mezzi, cui resiste la SO.G.E.T. S.p.a., depositando controricorso.
5. Essendo state ritenute sussistenti le condizioni per la trattazione del ricorso ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., il relatore designato ha redatto proposta, che è stata notificata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza della Corte.
Entrambe le parti hanno depositato memorie.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, “violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 111 Cost., per mancanza assoluta (ovvero, per mera apparenza) della motivazione; stante l’inettitudine della parte motiva, nella sentenza gravata, a “reggere” la decisione, che si risolve in una pura contradition che nol consente”.
Afferma che la corte d’appello, con la prima sentenza resa inter partes (passata in giudicato), non aveva affatto dubitato della circostanza che il deducente avesse materialmente prestato la sua attività, ma anzi lo aveva accertato, rigettando la domanda per la ritenuta insussistenza del titolo negoziale in quella sede dedotto e ciò perché non risultava “per ciascun procedimento, il conferimento della procura ad litem”.
Ciò premesso, lamenta che al riguardo la sentenza impugnata esprime “due opinioni in irriducibile contrasto fa loro”, là dove, da un lato, afferma che il tribunale non avrebbe affatto negato che l’attività per cui è causa fosse stata prestata e, dall’altro, però, subito dopo, opina che il difetto di prova rilevato dalla corte d’appello nel pregresso giudizio sarebbe caduto sul fatto che l’attività fosse stata prestata, traendone la conclusione che tale formula di rigetto impedirebbe tout court e in ogni caso la proponibilità dell’azione di arricchimento.
2. Con il secondo motivo il ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2041 e 2042 c.c., e dell’art. 83 c.p.c..
Ribadito che, nel precedente giudizio, il rigetto della domanda su base negoziale è stato motivato dalla mancata dimostrazione delle procure ad lites, afferma che per ciò stesso era integrato il presupposto della sussidiaria azione di ingiustificato arricchimento, dal momento che il difetto di prova “cadeva” proprio sull’esistenza del titolo posto a fondamento dell’azione contrattuale.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, infine, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., e art. 324 c.p.c., per avere la corte d’appello “affermato cosa diametralmente opposta a quella già accertata irretrattabilmente inter partes con la pregressa sentenza d’appello” (così testualmente nell’intestazione).
Rileva che la sentenza d’appello resa nel precedente giudizio aveva affermato che le prestazioni in questione non erano state fatte oggetto di transazione, con ciò implicitamente dando atto che le stesse erano state effettivamente eseguite.
Deduce che, pertanto, con la sentenza qui impugnata, la corte d’appello ha reso sul punto un’affermazione non solo inesatta, ma altresì in irriducibile contrasto col giudicato già formatosi.
4. Il primo motivo è inammissibile.
4.1. Il vizio di motivazione apparente, causa di nullità della sentenza per violazione dei doveri decisori, e dunque per error in procedendo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, è configurabile (solo) quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. ex multis Cass. Sez. U. 03/11/2016, n. 22232; Cass. 23/05/2019, n. 13977).
Invero, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo affermato che sia la motivazione apparente che quella non comprensibile costituiscono ipotesi tra loro sostanzialmente omogenee, nelle quali la motivazione “pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talché essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice” e che l’anomalia motivazionale implicante una violazione di legge costituzionalmente rilevante integra un error in procedendo e, in quanto tale, comporta la nullità della sentenza impugnata per cassazione”, purché però il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Nella specie la doglianza non è svolta secondo detto paradigma.
Si assume in ricorso che le affermazioni inconciliabili siano da vedere, da un lato, nella motivazione con la quale la corte ha rigettato il primo motivo d’appello e, dall’altro, in quella posta a base del rigetto del secondo motivo. Secondo il ricorrente con la prima la Corte avrebbe affermato che il primo giudice non aveva affatto negato che con la pregressa sentenza d’appello fosse stato riconosciuto lo svolgimento dell’attività per cui era causa, con la seconda avrebbe invece affermato che il tribunale aveva ritenuto mancarne la prova.
Tale prospettazione e’, però, frutto di una lettura soggettiva dei due passaggi motivazionali, i quali non vengono riportati testualmente: lettura, peraltro, in certa misura implicante anche il riferimento a dati esterni alla sentenza (primo motivo di appello, contenuto di precedente sentenza).
4.2. Il testo della sentenza non offre comunque alcun riscontro alla doglianza.
Nella motivazione non è infatti leggibile alcun riconoscimento, sia pure indiretto, dello svolgimento dell’attività per cui è causa.
Il ricorrente sembra voler trarre tale significato dal fatto che la corte territoriale ha rigettato il primo motivo di gravame, con il quale, secondo quanto è dato leggere dalla stessa sentenza, l’appellante si era doluto di una “”inadeguata esposizione delle ragioni di fatto…” per non essersi evidenziato dal tribunale che la corte d’appello, con la sentenza del 2008, aveva riconosciuto il diritto di esso deducente alla liquidazione delle competenze spettanti per l’attività professionale posta a fondamento della domanda del 2010".
Ebbene, con riferimento a detto motivo la corte d’appello si è limitata ad osservarne la “non condivisibilità”, sul rilievo che “il tribunale (ha) esattamente evidenziato solo la circostanza che l’appello, conclusosi con la pronuncia del 2008, era stato rigettato per mancata tempestiva produzione di documentazione a fondamento della domanda di pagamento”.
Quel che dunque tale parte della motivazione consente di ritenere è che la corte d’appello ha ritenuto infondata la doglianza di inesatta lettura della sentenza resa nel pregresso giudizio, per averne il tribunale correttamente riportato il contenuto, ma non anche l’affermazione che tale contenuto consistesse nel riconoscimento dell’effettivo svolgimento dell’attività de qua.
5. Per analoghe ragioni è altresì inammissibile il terzo motivo di ricorso, strettamente connesso al primo e di rilievo logico preliminare rispetto al secondo.
5.1. L’allegazione di un giudicato esterno, asseritamente violato dalla sentenza impugnata, si appalesa invero inosservante dell’onere di specifica indicazione imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte nel giudizio di legittimità, il principio della rilevabilità del giudicato esterno deve essere coordinato con l’onere di autosufficienza del ricorso, per cui la parte ricorrente che deduca il suddetto giudicato deve, a pena d’inammissibilità del ricorso, riprodurre in quest’ultimo il testo della sentenza che si assume essere passata in giudicato, non essendo a tal fine sufficiente il riassunto sintetico della stessa né il richiamo a stralci della motivazione (v. ex multis Cass. 25/07/2019, n. 20093; 31/05/2018, n. 13988; 23/06/2017, n. 15737; 11/02/2015, n. 2617).
Tale onere nella specie non è stato in alcuna misura assolto, essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla motivazione della sentenza d’appello resa nel pregresso giudizio; ciò ha fatto, da un lato, rappresentando una sua soggettiva deduzione di un contenuto asseritamente implicito di tale motivazione (la quale, nell’escludere che le prestazioni in questione fossero state oggetto di transazione, avrebbe secondo il ricorrente per ciò stesso implicitamente affermato che quelle prestazioni erano state effettivamente rese), dall’altro trascrivendo alcune righe della motivazione, intervallate da numerosi puntini di sospensione, dalle quali un siffatto riconoscimento dovrebbe desumersi con certezza (v. ricorso, pag. 10).
5.2. Varrà comunque rilevare anche l’intrinseca inconsistenza della tesi censoria che pretende di ricavare l’esistenza di un accertamento, avente forza di giudicato, relativo all’effettivo svolgimento delle prestazioni cui è riferita la pretesa indennitaria, da alcune affermazioni contenute nella motivazione della sentenza d’appello resa nel precedente giudizio, che però non ha avuto alcun conferente sviluppo o conseguenza sulla statuizione finale di quella medesima sentenza, che ha infatti comunque rigettato la domanda in quella sede proposta (tanto che da essa la sentenza qui impugnata ricava anzi l’opposto giudicato circa il mancato svolgimento dell’attività).
Va al riguardo rammentato che il giudicato non può formarsi su passaggio motivazionale che non trovi alcuna refluenza, esplicita o implicita, nella statuizione performativa, ma richiede una statuizione minima della sentenza, costituita dalla sequenza fatto, norma ed effetto, suscettibile di acquisire autonoma efficacia decisoria nell’ambito della controversia (cfr. Cass. 16/05/2017, n. 12202).
6. Resta conseguentemente assorbito il secondo motivo di ricorso.
La sentenza impugnata è infatti fondata su due autonome rationes decidendi rappresentate:
a) da un lato, dal rilievo dell’effetto preclusivo derivante, anche rispetto alla proposizione di domanda di indennizzo ex art. 2041 c.c., dal giudicato formatosi all’esito del precedente giudizio, “concernente la mancanza di prova dello svolgimento dell’attività per la quale si invocava corresponsione di compensi e dunque carenza di dimostrazione dell’esistenza stessa del fatto costitutivo “fondamentale” della pretesa del S.”;
b) dall’altro, dal difetto del presupposto della sussidiarietà di cui all’art. 2042 c.c..
La prima ratio, per le ragioni dette, risulta attinta da censure inammissibili e rimane pertanto comunque idonea a giustificare la sentenza impugnata, indipendentemente dall’esito dello scrutinio del secondo motivo, che investe la seconda.
7. Può comunque ad abundantiam evidenziarsi anche l’inammissibilità di tale motivo.
Correttamente la corte d’appello ha escluso la sussistenza dei presupposti per l’azione di ingiustificato arricchimento, in presenza di azione contrattuale tipica (quella volta alla corresponsione degli onorari d’avvocato) che, di fatto esperita, non ha avuto esito favorevole per essere stata giudicata infondata.
Secondo principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità, la proponibilità dell’azione generale di arricchimento, la cui esperibilità va valutata in astratto, deve essere negata tutte le volte che il depauperato abbia a disposizione altra azione utile per farsi indennizzare del pregiudizio subito, a nulla rilevando che sia decaduto da essa o sia rimasto soccombente in giudizio per ragioni di rito o di merito, purché queste ragioni non attengano proprio all’originaria esercitabilità dell’azione, come nel caso in cui la pretesa basata su un contratto sia stata respinta per nullità del negozio stesso dovuta a difetto di forma o ad altra causa relativa alla carenza originaria dell’azione per difetto del titolo posto a suo fondamento (Cass. Sez. U. Sez.U. n. 28042 del 25/11/2008; n. 9441 del 28/04/2011; Cass. n. 7285 del 08/08/1996; n. 20747 del 03/10/2007; n. 29988 del 20/11/2018).
Il ricorrente sostiene che tale ultima condizione sussisterebbe nella fattispecie per essere stata l’azione tipica rigettata perché non risultavano conferite le procure ad lites inerenti ai ricorsi per insinuazione fallimentare.
Tale allegazione rende però la censura inammissibile, per aspecificità, in quanto postulante un accertamento fattuale non emergente dalla sentenza ed anzi contrastante con quello da essa desumibile secondo cui l’azione tipica era stata rigettata per “mancata tempestiva produzione di documentazione a fondamento della domanda di pagamento” (v. sentenza, pag. 5, prime tre righe) e, dunque, per “mancanza di prova dello svolgimento dell’attività per la quale si invocava corresponsione di compensi…” (v. sentenza, pag. 5, in fine): rigetto dunque per ragioni di merito, in concreto, non per mancanza di titolo, in astratto.
8. Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente alla rifusione delle spese in favore della controricorrente, liquidate come da dispositivo.
Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.
PQM
dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 13.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, art. 1-bis.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022
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