Corte di Cassazione, sez. V Civile, Ordinanza n.729 del 12/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHINDEMI Domenico – Presidente –

Dott. DE MASI Oronzo – Consigliere –

Dott. STALLA Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. MONDINI Antonio – Consigliere –

Dott. MARTORELLI Raffaele – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 8210/2016 proposto da:

Agenzia Delle Entrate, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma Via Dei Portoghesi 12, presso l’Avvocatura Generale Dello Stato che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Bicos Srl in Liquidazione;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1876/2015 della COMM. TRIB. REG. EMILIA ROMAGNA, depositata il 28/09/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/09/2021 dal consigliere Dott. MARTORELLI RAFFAELE.

FATTO E DIRITTO

Boldrin spa impugnava l’avviso di liquidazione dell’imposta di registro n. ***** relativo alla compravendita di azioni o quote societarie nonché alle società Coop Edil-strade e Parcor srl in qualità di debitori solidali. La vicenda riguardava due distinti atti notarili, ossia un atto di conferimento del 28 maggio 2008 con cui la società Parcor aveva conferito alla società Parma Logistic il ramo d’azienda costituito da una area edificabile e un atto di cessione di quote del 5 dicembre 2008 con cui la società Parcor aveva ceduto l’intero pacchetto di quote di Parma Logistic alle società Boldrin spa e Cesi scarl.

Con l’atto impugnato, l’Ufficio finanziario aveva considerato unitariamente le due operazioni, nel senso che andava individuata un’unica cessione di azienda con conseguente applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale e non fissa.

La C.T.P di Bologna accoglieva il ricorso, ritenendo la autonomia degli atti sopra indicati e ritenendo l’intera operazione non elusiva di imposta.

Sull’appello l’Ufficio, la CTR di Bologna, con sentenza n. 1876/20/2015 (che lamentava la violazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20) confermava la decisione impugnata. Secondo la CTR nel caso di specie le distinte operazioni trovavano la loro ragione nella necessità di distinguere due diversi progetti l’uno volto alla realizzazione e vendita di nuove costruzioni su area edificabile, l’altra volta alla realizzazione e gestione di un parco commerciale. In ragione della diversità dei due progetti la società aveva correttamente operato separando i due interventi, attribuendo agli stessi gestioni separate ed autonome.

Proponeva ricorso l’Agenzia delle Entrate contro la Bicos srl in liquidazione (già Boldrin spa) deducendo:

– Violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 20, del D.P.R. n. 131 del 1986, art. 40, nonché del D.P.R. n. 131 del 1986, Tariffa, prima parte, artt. 9 e 11, in relazione ai principi discendenti dalla sesta direttiva, art. 5, par. 8 (ora Dir. n. 112 del 2006), in ordine all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

A sostegno del ricorso l’Ufficio ribadiva che con l’atto di conferimento (28.5.2008) e l’atto di cessione di quote (5/12/2008) andassero individuati i presupposti per una riqualificazione dell’operazione come cessione di azienda, così come motivato nell’avviso di liquidazione.

L’intimata non si costituiva.

La Corte osserva che la questione qui esaminata è stata sottoposta in due distinte occasioni al vaglio della Corte Costituzionale che con due decisioni (sentenza n. 158/2020 e sentenza n. 39 del 9.2.2021) ha ritenuto infondate le questioni sottoposte.

Precisamente, con sentenza n. 39 del 9.2.2021, la Corte Costituzionale, dichiarava manifestamente infondate le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131, art. 20 (Approvazione del testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), come modificato dalla L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), nn. 1) e 2), (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna con l’ordinanza del 13 novembre 2019.

Con la definitiva indicata pronuncia, sussistono i presupposti per il rigetto del proposto ricorso.

Va rilevato, infatti, che la disposizione di legge, di cui si discute, è stata fatta oggetto – nel corso del presente giudizio – di modificazioni di diretta e fondamentale incidenza sul caso in esame. La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), (cd. legge di bilancio 2018) ne ha infatti modificato la previgente formulazione (“L’imposta è applicata secondo l’intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”), la quale trova oggi una più circoscritta definizione normativa.

Ribadito il principio basilare di prevalenza della sostanza sulla forma, l’intervento legislativo di riforma – superando un opposto orientamento applicativo di legittimità – ha ristretto l’oggetto dell’interpretazione al solo atto presentato alla registrazione ed agli elementi soltanto da quest’ultimo desumibili. Non rilevano quindi più, come espressamente indicato dal legislatore, gli elementi evincibili da atti eventualmente ad esso collegati, così come quelli riferibili ad indici esterni o fonti extratestuali: “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”.

Successivamente a questa prima modificazione – ed anche in tal caso a seguito di un diverso avviso di legittimità – il legislatore è nuovamente intervenuto per affermare la natura interpretativa autentica, e dunque retroattiva, della nuova formulazione dell’art. 20, così come risultante dopo la cit. L. n. 205 del 2017.

Il 1 gennaio 2019, infatti, è entrato in vigore la L. 30 dicembre 2018, n. 145, art. 1, comma 1084, (bilancio di previsione per l’anno 2019), secondo cui: “La L. 27 dicembre 2017, n. 205, art. 1, comma 87, lett. a), costituisce interpretazione autentica dell’art. 20, comma 1, del testo unico di cui al D.P.R. 26 aprile 1986, n. 131”. Dal che si evince come la riformulazione in esame (nel senso della esclusione, dal processo di qualificazione dell’atto, degli elementi extratestuali e di collegamento negoziale) si renda applicabile – fermi i rapporti di registrazione ormai esauriti o coperti dal giudicato – anche agli atti negoziali posti in essere, come quello qui dedotto, prima del 1 gennaio 2018.

A completare la ricostruzione del travagliato quadro interpretativo, va detto che questa Corte di legittimità, con la già citata ordinanza n. 23549/19, ha ritenuto rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale, in rapporto agli artt. 53 e 3 Cost., dell’art. 20 così come risultante dagli interventi apportati dalla L. n. 205 del 2017, cit. art. 1, comma 87, (L. di bilancio 2018) e dalla L. n. 145 del 2018, art. 1, comma 1084, (L. di bilancio 2019), “nella parte in cui dispone che, nell’applicare l’imposta di registro secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, si debbano prendere in considerazione unicamente gli elementi desumibili dall’atto stesso, “prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi””.

Richiamato il pregresso consolidato orientamento di legittimità sulla rilevanza qualificatoria della causa concreta del contratto e del collegamento negoziale, ed assodato che anche in base alla riforma del 2017 l’interpretazione dell’atto deve rispondere (indipendentemente da finalità antielusive) a criteri di sostanza e non puramente formali e nominali, si è in sintesi ritenuto che l’esclusione, dall’attività di qualificazione, degli elementi extra-testuali e di collegamento negoziale potesse fondatamente incidere sia sul principio di capacità contributiva (art. 53 Cost.), impedendo di cogliere il reale sostrato economico risultante dall’atto presentato alla registrazione (inteso non come documento ma quale complesso negoziale con causa unitaria); sia sul principio di uguaglianza e ragionevolezza (art. 3 Cost.), sottraendo ad imposizione di registro manifestazioni di forza economica non razionalmente e coerentemente differenziabili sulla base del solo fatto esteriore che le parti abbiano stabilito di attuare il proprio assetto di interessi con un unico atto negoziale piuttosto che con più atti tra loro collegati.

Con la citata, sentenza n. 158/2020 (GU 22/7/2020), la Corte Costituzionale ha tuttavia ritenuto non fondati i dubbi così sollevati, osservando che:

– ferma restando l’insindacabilità da parte del giudice delle leggi della interpretazione evolutiva attribuita dalla Corte di Cassazione, in funzione nomofilattica, all’art. 20 in parola, siccome riferita alla causa concreta dell’atto ed alla rilevanza del collegamento negoziale, non può dirsi, diversamente da quanto affermato dal giudice remittente, che tale interpretazione sia l’unica costituzionalmente necessitata, essendo infatti compatibili con la Costituzione anche nozioni diverse di “atto presentato alla registrazione” e di “effetti giuridici” in relazione alle quali considerare la capacità contributiva espressa;

– la scelta del legislatore del 2017 di discrezionalmente escludere ogni rilevanza agli elementi extra-testuali ed ai negozi collegati (salvo che negli specifici casi desumibili da diverse disposizioni dello stesso TU Registro) deve ritenersi non arbitraria, ed anzi coerente con i principi ispiratori dell’imposta di registro e, in particolare, sia con la sua natura, storicamente riconosciuta, di “imposta d’atto”, sia con la tipizzazione tariffaria e per effetti giuridici, non economici, degli atti imponibili;

– la tesi dell’interpretazione dell’atto incentrata sulla nozione di causa reale non appare coerente con la sopravvenuta introduzione nell’ordinamento della L. n. 212 del 2000, art. 10 bis, poiché “consentirebbe all’amministrazione finanziaria, da un lato, di operare in funzione antielusiva senza applicare la garanzia del contraddittorio endoprocedimentale stabilita a favore del contribuente e, dall’altro, di svincolarsi da ogni riscontro di “indebiti” vantaggi fiscali e di operazioni “prive di sostanza economica, precludendo di fatto al medesimo contribuente ogni legittima pianificazione fiscale (invece pacificamente ammessa nell’ordinamento tributario nazionale e dell’Unione Europea)”.

La stessa questione di legittimità costituzionale già esaminata da C.Cost. 158/20 è stata sollevata, con ordinanza di rimessione 13 novembre 2019, anche dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bologna la quale ha altresì sottoposto al vaglio del giudice delle leggi, in via subordinata, la diversa ed ulteriore questione della legittimità costituzionale della L. 30 dicembre 2018, n. 145, cit. art. 1, comma 1084, in forza del quale la L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 87, lettera a), “costituisce interpretazione autentica” del D.P.R. n. 131 del 1986, censurato art. 20.

A detta della CTP (che ha sollevato la questione ex artt. 3,81,97,101,102,108 e 24 Cost.) l’attribuzione testuale di carattere interpretativo autentico alla norma innovativa (escludente il collegamento negoziale dall’attività di qualificazione dell’atto ex art. 20) sarebbe unicamente finalizzata a sancire la retroattività della novella (effetto tipico, appunto, delle norme di interpretazione autentica), e ciò in presenza di tre profili di irragionevolezza:

– la mancanza di un preesistente contrasto interpretativo, stante il consolidato orientamento di legittimità (poc’anzi riportato) secondo cui, al contrario, l’atto da registrare andrebbe qualificato anche in virtù del suo collegamento causale con atti ed elementi esterni;

– la non prevedibilità da parte degli operatori della innovazione apportata, costituente una sorta di “forzatura” del legislatore rispetto ad un quadro interpretativo che, sebbene in senso opposto, doveva ritenersi del tutto certo e non necessitante di chiarimenti;

– l’insussistenza di “motivi imperativi di interesse generale” giustificanti l’adozione eccezionale di una norma retroattiva, come tale destinata ad interferire anche sui procedimenti in corso e sulla “parità delle armi” tra i contendenti (art. 6 CEDU).

Ulteriori dubbi di legittimità sono poi stati dedotti sotto il profilo della menomazione delle ragioni di bilancio, della indebita ingerenza del legislatore nella sfera di autonomia del potere giudiziario, della violazione del diritto di difesa dell’amministrazione finanziaria nei giudizi da questa già radicati sulla base della precedente lettura dell’art. 20.

Orbene, la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 39/21 (GU 17/3/21), ha richiamato – quanto alla legittimità in sé del nuovo testo dell’art. 20 – il convincimento di infondatezza della questione così come già emerso con la menzionata sentenza n. 158/20; ha quindi dichiarato inammissibili (ex artt. 24,81,97,101,102 e 108 Cost.), ovvero infondati (ex art. 3 Cost.), gli ulteriori dubbi di legittimità costituzionale sulla retroattività “per interpretazione autentica” della nuova disciplina.

In ordine a quest’ultimo profilo, ha osservato la Corte che:

-non è irragionevole attribuire efficacia retroattiva ad un intervento che abbia carattere di sistema come quello inciso, posto che il legislatore ha in tal modo “certamente fissato uno dei contenuti normativi riconducibili, più che all’ambito semantico di una singola disposizione, a quello dell’intero “impianto sistematico della disciplina sostanziale e procedimentale dell’imposta di registro”, dove la sua origine storica di “imposta d’atto” “non risulta superata dal legislatore positivo” (sentenza n. 158 del 2020)”; nemmeno, l’intervento può dirsi irragionevole quando esso sia determinato “dall’intento di rimediare a un’opzione interpretativa consolidata nella giurisprudenza (anche di legittimità) che si è sviluppata in senso divergente dalla linea di politica del diritto giudicata più opportuna dal legislatore (sentenza n. 402 del 1993)”, fermo restando che l’interpretazione di legittimità dell’art. 20 non risultava comunque del tutto monolitica, trovando anche forte dissenso nella dottrina;

– non può dirsi che la modificazione legislativa fosse a tal punto “imprevedibile” da palesarsi irragionevole (neppure nella sua attribuita efficacia retroattiva), ponendosi invece essa su un piano di rispettata “coerenza interna della struttura dell’imposta con il suo presupposto economico”, secondo quanto già osservato con la sentenza 158/20;

– quanto alla asserita violazione del principio di uguaglianza, valgono i principi già evidenziati in quest’ultima pronuncia sul fatto che la disciplina del 2017 non leda l’art. 3 (e neppure l’art. 53 Cost.), dovendosi qui aggiungere (per quanto concerne lo specifico aspetto della retroattività) che “nella giurisprudenza sovranazionale si riconosce che le norme della CEDU sono volte a tutelare i diritti della persona “contro il potere dello Stato e della Pubblica Amministrazione” e non viceversa”.

All’esito del complesso iter normativo e giurisprudenziale così riassunto, la conclusione, da trarre nel caso in esame, è nel senso che la prospettazione fornita all’Agenzia non può trovare accoglimento e che, come ritenuto dai giudici di merito, con motivazione correttamente assunta nella valutazione delle situazioni di fatto, la sequenza dei diversi atti stipulati in realtà non perseguiva un intento diverso da quello rappresentato dai singoli negozi, né si profila la realizzazione di un indebito fiscale.

Il ricorso va pertanto rigettato. Il complesso iter interpretativo, culminato con le citate decisioni della Corte Costituzionale, impone la compensazione delle spese.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e compensa le spese.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio da remoto, il 22 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022

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