LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. BERTUZZI Mario – rel. est. Consigliere –
Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
P.S., in proprio e quale legale rappresentante della s.n.c.
Pa.Si. di P.S. & C., con sede in *****, rappresentato e difeso per procura alle liti in calce al ricorso dall’Avvocato Giuseppe Berellini, elettivamente domiciliato presso il suo studio in perugia, via M. Angeloni n. 80/A.
– ricorrente –
contro
Comunità Montana Alta Umbria, in persona del legale rappresentante ing. S.M., rappresentata e difesa per procura alle liti in calce al controricorso dall’Avvocato Andrea Senese, elettivamente domiciliata presso il suo studio in Pisa, lungarno Bruno Buozzi n. 13.
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 713 della Corte di appello di Perugia, depositata il 9 novembre 2017.
FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE
Con sentenza n. 713 del 9.11.2017 la Corte di appello di Perugia, in accoglimento dell’appello avanzato dalla Comunità Montana Alta Umbria, rigettò l’opposizione proposta da P.S. avverso l’ordinanza ingiunzione n. 1 del 30.4.2014, che, sulla base del verbale di accertamento del 17.10.2008, gli aveva applicato una sanzione amministrativa per avere effettuato lavori di sbancamento in totale difformità dall’autorizzazione alla esecuzione delle opere di bonifica. La Corte territoriale motivò tale conclusione dichiarando infondata l’eccezione di prescrizione sollevata dall’opponente, che era stata accolta dal giudice di primo grado, per essere stato il relativo termine quinquennale interrotto dal provvedimento notificato il 7.3.2011 con cui l’amministrazione, in parziale accoglimento delle ragioni dell’interessato, aveva rideterminato l’ammontare della sanzione ed altresì perché, trattandosi di infrazione a carattere permanente, il dies a quo ai fini della prescrizione decorre dalla riduzione in pristino dello stato dei luoghi, il cui momento non era stato indicato, come era suo onere, dall’opponente; affermò quindi, sulla base del verbale di accertamento del Corpo forestale dello Stato, sussistente la violazione contestata, non avendo trovato alcun elemento di riscontro probatorio la giustificazione del P. secondo cui l’asportazione del terreno, in misura di molto superiore all’autorizzazione, sarebbe stata conseguenza di una frana accidentale provocata dalle avverse condizioni metereologiche.
Per la cassazione di questa decisione, con atto notificato l’8.1.2018, ricorre P.S., sulla base di quattro motivi.
Resiste con controricorso la Comunità Montana Alta Umbria.
La causa è stata avviata in decisione in adunanza camerale non partecipata. Parte ricorrente ha depositato memoria.
Il primo motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 324,325,327 e 345 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per non avere esaminato l’eccezione sollevata con la comparsa di costituzione in appello di inammissibilità dell’impugnazione dell’amministrazione per essere stato, proposta non con atto di citazione ma mediante ricorso, notificato solo il 31.8.2016, oltre il termine di sei mesi dal deposito della sentenza di primo grado, avvenuto il 16.1.2016.
Il secondo motivo di ricorso denunzia nullità della sentenza per omessa motivazione in violazione degli artt. 112,113 c.p.c., art. 132 c.p.c., n. 4, art. 276 c.p.c., comma 5, lamentando che la Corte di appello non abbia motivato sulla eccezione preliminare di tardività della proposizione dell’appello.
Il terzo motivo di ricorso denunzia omessa ed insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e mancata pronuncia sull’eccezione preliminare sollevata dall’appellato di inammissibilità dell’atto di appello per tardività.
I motivi, che vanno trattati congiuntamente in ragione della loro connessione oggettiva, sono infondati.
Ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, “Le controversie previste dalla L. 24 novembre 1981, n. 689, art. 22, sono regolate dal rito del lavoro, ove non diversamente stabilito dalle disposizioni del presente articolo”. L’art. 2 del medesimo decreto dispone, al comma 1, che nelle controversie disciplinate dal Capo II, rubricato “Delle controversie regolate dal rito del lavoro”, non si applicano, salvo che siano espressamente richiamati, gli artt. 413,415,417,417-bis, 420-bis c.p.c., art. 421 c.p.c., comma 3, artt. 425,426,427 c.p.c., art. 429 c.p.c., comma 3, artt. 431,433 c.p.c., art. 438 c.p.c., comma 2 e art. 439 c.p.c.; ne discende che alle medesime controversie siano invece applicabili le disposizioni del codice di rito concernenti la disciplina dell’appello, ad eccezione dell’art. 433, concernente la individuazione del “giudice d’appello”, dell’art. 438, comma 2, contenente il rinvio all’art. 431, in tema di esecutorietà della sentenza, e dell’art. 439, concernente il cambiamento del rito in appello. In particolare consegue, per quanto qui interessa, l’applicabilità dell’art. 434 c.p.c., che, sotto la rubrica “Deposito del ricorso in appello”, individua nel ricorso la forma dell’atto introduttivo del giudizio di appello. Nel giudizio di cui al D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, l’appello deve essere pertanto proposto non con atto di citazione, come sostiene il ricorrente, ma con ricorso, con le modalità e nei termini previsti dall’art. 434 c.p.c. (Cass. S.U. n. 2907 del 29014; Cass. n. 1020 del 2017).
Alla luce di tali considerazioni vanno altresì disattese le censure di omessa motivazione e di omessa pronuncia sulla eccezione preliminare svolta dall’appellato.
Questa Corte ha avuto più volte occasione di precisare che, alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111 Cost., comma 2, nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di appello, la Corte di Cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con il suddetto motivo risulti infondata e la sua risoluzione non richieda ulteriori accertamenti di fatto, di modo che la pronuncia da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello, determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito (Cass. S.U. n. 2731 del 2017; Cass. n. 21968 del 2015; Cass. n. 2313 del 2010).
Essendo tale la situazione che si rinviene nel caso di specie, in cui il giudice a quo non si è pronunciato sull’eccezione preliminare, i motivi di ricorso vanno respinti, risultando l’eccezione, per le considerazioni sopra enunciate, del tutto infondata, essendo stato il procedimento di secondo grado correttamente introdotto con ricorso.
Il quarto motivo di ricorso denunzia violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 6, in relazione alla L. n. 689 del 1981, artt. 23 e 28 e agli artt. 2934 e 2943 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che l’atto di rideterminazione della sanzione pecuniaria notificato dall’amministrazione il 7.3.2011 fosse idoneo ad interrompere la prescrizione quinquennale prevista dalla L. n. 689 del 1981, art. 28, in contrasto con il carattere del tutto atipico del provvedimento e con il principio che attribuisce efficacia interruttiva della prescrizione soltanto agli atti tipici del procedimento sanzionatorio. Sotto altro profilo il mezzo assume l’erroneità della decisione laddove ha escluso il verificarsi della prescrizione della pretesa punitiva in ragione della natura della condotta integrante la violazione, considerata permanente fino al momento della riduzione in pristino dello stato dei luoghi, considerando irrilevante il provvedimento di sequestro dell’area. Ad avviso del ricorrente l’illecito era invece cessato proprio a seguito di tale provvedimento, adottato il 18.8.2008, stante l’impossibilità per l’opponente di provvedere alla riduzione in pristino.
Il motivo va respinto, essendo la prima censura non fondata e la seconda, di conseguenza, da ritenersi assorbita.
Con riferimento alla prima doglianza, il capo della decisione impugnata che ha riconosciuto efficacia interruttiva della prescrizione al provvedimento, notificato il 7.3.2011, con cui l’Amministrazione, in parziale accoglimento delle ragioni dell’interessato, aveva rideterminato l’ammontare della sanzione, non si pone invero in contrasto con l’orientamento della giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, in materia di sanzione amministrativa, solo gli atti tipici del procedimento sono idonei ad interrompere la prescrizione. Tale indirizzo trova chiaro fondamento nel rilievo che con tali atti l’Amministrazione esprime la propria volontà di dar corso al procedimento sanzionatorio e, quindi, di proseguire nell’azione punitiva.
Sulla base di tale premessa, il provvedimento con cui l’Amministrazione ridetermina, sulla base dei rilievi difensivi dell’interessato, l’ammontare della sanzione, nella specie riducendolo, possiede a tutti gli effetti natura di atto del procedimento sanzionatorio, che, per di più, manifesta direttamente, diversamente da quanto ad esempio può ritenersi per altri atti procedimentali, quali ad esempio l’audizione dell’interessato, cui l’orientamento richiamato dal ricorrente riconosce effetto interruttivo della prescrizione (Cass. n. 28328 del 2028; Cass. n. 1081 del 2007), la volontà di dar corso alla applicazione della sanzione. Come osservato dalla Amministrazione resistente, infatti, la rideterminazione dell’ammontare della sanzione costituisce esercizio di un potere discrezionale che manifesta la pretesa punitiva, esprimendo l’intenzione dell’ente di riscuotere la sanzione amministrativa.
Il rigetto della prima parte del motivo comporta che la seconda censura, che ha affermato l’irrilevanza del sequestro dell’area ai fini della cessazione dell’illecito, atteso il suo carattere permanente, debba ritenersi assorbita, in quanto il suo accoglimento, essendo il sequestro penale intervenuto nell’agosto del 2008, non determinerebbe comunque il maturarsi del termine prescrizionale di cinque anni, che è stato validamente interrotto con la comunicazione del provvedimento del 7.3.2011.
Il ricorso va pertanto respinto.
Le spese di giudizio, comprensive di quelle del procedimento attivato dal ricorrente dinanzi alla Corte di appello per la sospensione della sentenza impugnata, conclusosi con il rigetto della richiesta, di cui alla nota depositata dalla controricorrente, sono liquidate in dispositivo e seguono la soccombenza.
Si dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
PQM
rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di giudizio, che liquida in Euro 5.100,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali.
Dà atto che sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.
Così deciso in Roma, il 6 luglio 2021.
Depositato in Cancelleria il 12 gennaio 2022
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