Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.900 del 13/01/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22621-2020 proposto da:

I.M., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avvocato GIUSEPPE TRISCHITTA;

– ricorrente –

contro

COMUNE di MESSINA;

– intimato –

avverso la sentenza n. 374/2019 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 15/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 16/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CHIARA GRAZIOSI.

RILEVATO

che:

Con atto di citazione del *****, I.M. conveniva davanti al Tribunale di Messina il Comune di Messina per ottenere il risarcimento dei danni derivatile da una caduta avvenuta il *****, alle *****, a *****, la quale sarebbe stata cagionata dalla presenza di mattonelle “traballanti” nella pavimentazione del marciapiede. Il Comune si costituiva resistendo.

Il Tribunale rigettava la domanda con sentenza del 16 settembre 2015.

I.M. proponeva appello, cui controparte resisteva e che la Corte d’appello di Messina rigettava con sentenza del 15 maggio 2019.

T.M. ha proposto ricorso, articolato in due motivi, da cui non si difende l’intimato Comune.

La ricorrente ha depositato un’ampia memoria, con cui ha pure censurato la proposta di inammissibilità del relatore.

CONSIDERATO

che:

1.1 Il motivo presentato sub A denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2051 e 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., per non avere il Comune fornito prova liberatoria in relazione alla propria responsabilità ex art. 2051 c.c.. La corte territoriale avrebbe erroneamente applicato l’art. 2043 c.c., ritenendo prevedibile e visibile l’insidia.

1.2 Questo primo motivo è ictu oculi volto ad una critica direttamente fattuale in ordine alla ricostruzione appunto dei fatti compiuta nella impugnata sentenza.

Meramente ad abundantiam, quindi, si osserva altresì che la motivazione della sentenza dimostra con inequivoca chiarezza che il giudice di merito ha ritenuto sussistente la fattispecie dell’art. 2051 c.c., e non quella generale di cui all’art. 2043 c.c..

Invero, il giudice d’appello manifesta inequivocamente la sua condivisione con l’accertamento del giudice di prime cure, descritto come frutto di un “ragionamento immune da censure, posto che in tema di danno causato da cose in custodia il caso fortuito idoneo ad interrompere il nesso causale e ad escludere, congiuntamente, la responsabilità del custode ex art. 2051 c.c., può essere costituito costituito anche dalla condotta della vittima; “conseguentemente secondo la C.A. la sentenza impugnata” non erra nel ritenere che nel caso de quo la caduta dell’odierno appellante sia ascrivibile in via esclusiva ad una sua disattenzione” (così a pagina 6 della sentenza impugnata; segue la ricostruzione dei fatti, sempre espressamente aderente a quanto descritto al riguardo dal primo giudice).

2.1 Il motivo presentato sub B denuncia, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., della L. 21 dicembre 2012, n. 247, e del D.M. 10 marzo 2014, n. 55, per avere la corte territoriale condannato la ricorrente a rifondere le spese nella misura di Euro 7642, affermando di avere applicato appunto il D.M. n. 55 del 2014. Di quest’ultimo la corte avrebbe dovuto però applicare lo scaglione 5200,01-26.000, che avrebbe dato come massimo l’importo di Euro 6798; e anche per lo scaglione 26.000,01-52.000 la tariffa media sarebbe stata inferiore, ovvero Euro 6615.

2.2 Questo motivo censura la determinazione dello scaglione in modo generico, non indicando in particolare le ragioni per cui il giudice d’appello avrebbe poi scelto quello scaglione per cui – e ciò è dirimente nel senso della incomprensibilità/illogicità del motivo, che si traduce proprio in una sua genericità radicale – la stessa ricorrente riconosce che non è stato superato il massimo, bensì lamenta la non applicazione della tariffa media.

3. In conclusione, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, non essendovi luogo a pronuncia sulle spese processuali dal momento che l’intimato non si è difeso.

Seguendo l’insegnamento di S.U. 20 febbraio 2020 n. 4315 si dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2012, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e non luogo a provvedere sulle spese processuali.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 16 novembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2022

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