LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –
Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –
Dott. SPENA Francesca – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 18597-2016 proposto da:
A.P., P.G., A.V., L.E.L., tutti domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall’avvocato VINCENZO RICCARDI;
– ricorrenti –
contro
COMUNE SAN GIORGIO A CREMANO, in persona del Sindaco pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ACIREALE 19/B, presso lo studio dell’avvocato MICHELA PALUMBO, rappresentato e difeso dagli avvocati ADELE CARLINO, LUCIA CICATIELLO;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 5698/2015 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 28/07/2015, R.G.N. 8479/2011;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 12/10/2021 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA.
RILEVATO
che:
1. con sentenza n. 5698/2015 la Corte di appello di Napoli confermava la decisione del locale Tribunale che aveva rigettato le domande proposte da A.P., A.V., L.L., P.G., tutti vigili urbani in servizio presso il Comando di Polizia Municipale del Comune di *****, per l’accertamento del loro diritto alla fornitura dei capi di vestiario da indossare in servizio e per la condanna del Comune, rimasto inadempiente, al pagamento dell’indennità sostitutiva, parametrata al valore di acquisto dei capi di vestiario non forniti, oltre che al risarcimento dei danni all’immagine ed alla dignità personale e professionale;
2. la Corte di appello premetteva che il Comune aveva provveduto alla fornitura delle uniformi, sia pure in ritardo rispetto a quanto previsto (e precisamente la massa vestiaria invernale del biennio 2004/2005 nel novembre 2005 e la massa vestiaria estiva del biennio 2006/2007 nel giugno 2008);
osservava che l’onere del Comune di fornire le divise ai vigili urbani trovava precisi riferimenti normativi nella L. n. 65 del 1986, artt. 4 e 6, e che l’indennità di vestiario si configurava come un “quid” forfetario, attribuito ai vigili urbani solo per compensare i dipendenti della spesa sostenuta per dotarsi del vestiario;
aggiungeva che l’indennità in questione non era prevista né dalla legge né dalla contrattazione collettiva né da atti dell’ente datore di lavoro e che non costituiva remunerazione per l’attività lavorativa prestata in quanto svincolata dal carattere della corrispettività;
rilevava, infatti, che le delibere comunali del 1998 e del 2006 citate dai vigili urbani in ricorso non contenevano la corresponsione di una specifica indennità nel caso di mancata ovvero ritardata fornitura della massa vestiaria ivi prevista e che del tutto inconferente era la sentenza del TAR citata dai ricorrenti;
precisava che, in ogni caso, pur riconoscendo un obbligo al Comune di fornire la massa vestiaria, non poteva dirsi sussistente un automatico diritto alla indennità di vestiario in caso di mancata fornitura;
rilevava che non era stata allegata e provata alcuna spesa dei ricorrenti sull’acquisto di vestiario sostitutivo e che non poteva sostenersi nemmeno una domanda di indebito arricchimento della PA in quanto, ad ogni modo, tale azione presuppone un riconoscimento, esplicito o implicito, dell’utilità dell’opera o della prestazione che nel caso di specie non era stato né dedotto né provato;
riteneva che la domanda risarcitoria non patrimoniale non poteva trovare accoglimento per difetto di allegazione e prova sull’effettivo nocumento subito dai ricorrenti;
3. ricorrono per la cassazione della sentenza i vigili urbani sulla base di quattro motivi di ricorso;
4. il Comune ha opposto difese con controricorso.
CONSIDERATO
che:
1. con il primo motivo, formulato ex art. 360 c.p.c., n. 4, i ricorrenti deducono che la sentenza impugnata sarebbe affetta da nullità conseguente alla violazione dell’art. 112 c.p.c., ed addebitano alla Corte territoriale di avere pronunciato su una domanda diversa da quella proposta perché, stante l’inadempimento del Comune, erano stati richiesti il pagamento dell’indennità sostitutiva della fornitura dei capi di vestiario ed il risarcimento del danno, non già il rimborso delle spese di acquisto delle uniformi;
sostengono che la Corte è incorsa nel vizio di ultrapetizione, interferendo nel contraddittorio delle parti;
2. con il secondo motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1173,1218 e 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
sostengono che il Comune è responsabile della mancata fornitura dei capi di vestiario (responsabilità per inadempimento), integrante un illecito, e che per tal motivo deve essere riconosciuto loro il risarcimento del danno emergente, danno da parametrare al valore di mercato della divisa non tempestivamente sostituita;
a parere dei ricorrenti, inoltre, il Comune deve risarcire anche il danno all’immagine e alla dignità personale perché lo svolgimento del servizio in abiti civili ha comportato un evidente imbarazzo nel contatto con il pubblico;
3. il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione dell’art. 2697 c.c., ed addebita alla Corte territoriale di avere ritenuto non provato il danno che, al contrario, poteva essere liquidato con valutazione equitativa, assumendo come parametro la spesa che gli agenti avrebbero dovuto sostenere per l’acquisto;
aggiungono che l’inadempimento del Comune li aveva costretti ad indossare una divisa “già vecchia” e, pertanto, il danno non patrimoniale era da ritenersi in re ipsa, senza necessitare di alcuna specifica allegazione;
4. con il quarto motivo i ricorrenti lamentano la violazione o falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3;
censurano la sentenza impugnata sostenendo che, in ragione della fondatezza della domanda, il Comune avrebbe dovuto sopportare integralmente le spese di lite;
5. il ricorso deve essere rigettato per le ragioni già indicate da questa Corte con l’ordinanza n. 21986/2018 pronunciata in fattispecie esattamente sovrapponibile a quella che oggi viene in rilievo (si vedano anche le successive conformi Cass. n. 183/2021; Cass. n. 184/2021; Cass. 437/2021);
6. il primo motivo è inammissibile perché non coglie la ratio decidendi della sentenza gravata che, come evidenziato nello storico di lite, ha inteso la domanda proprio nei termini indicati nel ricorso, ed ha poi svolto considerazioni sull’infondatezza della stessa, argomentando sia sulla natura non retributiva dell’indennità rivendicata, sa sull’insussistenza, in concreto, di un danno risarcibile;
il rigetto dell’appello non si riferisce, come sostengono i ricorrenti, ad una domanda di rimborso mai formulata, sicché non si ravvisa alcuna violazione dell’art. 112 c.p.c., perché il richiamo alla spesa mai sostenuta attiene alle ragioni per le quali la pretesa risarcitoria è stata ritenuta non meritevole di accoglimento;
7. il secondo ed il terzo motivo, da trattare congiuntamente in ragione della loro connessione logica e giuridica, sono infondati alla luce della giurisprudenza di questa Corte, richiamata anche dagli stessi ricorrenti, che ha ravvisato nella mancata fornitura della massa vestiaria un inadempimento contrattuale che legittima l’azione risarcitoria, ma a condizione che il lavoratore alleghi e dimostri di avere subito un pregiudizio economico, qual è l’usura di abiti propri (Cass. n. 4100/1995), o di avere dovuto sopportare un costo per l’acquisto dei beni non forniti dal datore (Cass. n. 23897/2008);
7.1. alla mancata prova del danno non può sopperire la valutazione equitativa, perché l’esercizio del potere discrezionale conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone che sia dimostrata l’esistenza di danni risarcibili ma risulti obiettivamente impossibile o particolarmente difficile provare il danno nel suo preciso ammontare, sicché resta fermo l’onere della parte di dimostrare l’an debeatur del risarcimento (Cass. n. 20889/2016) onere che la Corte territoriale, con accertamento di fatto non censurabile in questa sede, ha ritenuto non assolto nella fattispecie;
7.2. il danno all’immagine per la mancata tempestiva sostituzione delle divise non può essere ritenuto in re ipsa perché, al contrario, al pari di ogni altra voce di danno, deve essere allegato e provato da chi ne pretende il risarcimento, in quanto non coincide con l’inadempimento ma è una conseguenza dello stesso (Cass. n. 31537/2018);
8. il quarto motivo è inammissibile perché il giudice del merito ha correttamente liquidato le spese in ragione della soccombenza e la censura formulata, seppure riferita al capo della decisione relativo al regolamento delle spese, denuncia un vizio della sentenza che non attiene al capo impugnato, bensì alle statuizioni sulla fondatezza della domanda;
9. il ricorso, in via conclusiva, deve essere rigettato ed alla soccombenza segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;
10. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma-1 quater.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma-1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 12 ottobre 2021.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2022
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