Il commercialista, o altro professionista abilitato, che rilascia un mendace visto di conformità, risulta esposto alle sanzioni penali in ragione dell'espressa previsione di cui all'art. 39 D.Lgs. n. 241 del 1997 e del meccanismo del concorso nel reato di cui all'art. 110 c.p. in quanto crea un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria.
Lo ha ribadito la Cassazione con la sentenza n. 30329 depositata il 1° agosto 2022 , confermando la condanna di una commercialista per il reato di cui all'art. 2 del D. Lgs. n. 74/2000 (dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti).
Ai fini della configurazione del reato, precisa la Corte, la condotta può riguardare non solo il visto pesante (o certificazione tributaria), ma anche il visto “leggero” di cui all’art. 35 del D.Lgs. n. 241 del 1997.
Il visto leggero, infatti, non si esaurisce in verifica di una natura esclusivamente formale, ma al contrario, essa impone la verifica della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e agli altri documenti, altrimenti induce in errore l'amministrazione finanziaria.
Il professionista che rilascia un mendace visto di conformità, leggero o pesante, o un'infedele asseverazione dei dati, ai fini degli studi di settore, risulta esposto anche a sanzioni penali in ragione dell'espressa previsione di cui all'art. 39 D.Lgs. n. 241 del 1997 e del meccanismo del concorso nel reato di cui all'art. 110 c.p. in quanto crea un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.
Corte di Cassazione, sez. VI Penale, Sentenza n.30329 del 21/06/2022 (dep. 01/08/2022)
RITENUTO IN FATTO
1. Con la sentenza sopra indicata la Corte di appello di Roma confermava la pronuncia con la quale il Tribunale di Latina, con rito abbreviato, aveva condannato, insieme ad altri, N.S. quale partecipe di un'associazione a delinquere finalizzata alla commissione di una serie indeterminata di reati tributari attraverso la creazione di apposite cooperative e per i reati-fine (D.Lgs. n. 74 del 2000 artt. 2 e 10-quater) e S.C. per condotte di corruzione e rivelazione di segreto di ufficio.
In estrema sintesi i giudici di merito hanno ritenuto che il consorzio criminoso era nato per costituire e gestire diverse cooperative, con conti all'estero, che secondo uno schema ripetuto e collaudato, emettevano fatture relative ad operazioni inesistenti con successiva indebita compensazione dei crediti Iva, previa apposizione del visto di conformità da parte di professionisti come N., utilizzando anche pubblici ufficiali come S.C. che, dietro compensi in denaro o regalie, informavano gli associati tempestivamente delle attività di indagine o delle eventuali verifiche fiscali.
2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso N.S. e S.C., per il tramite dei loro rispettivi difensori, articolando diversi motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..
3. N.S. ha dedotto tre motivi, ciascuno con ulteriori articolazioni. 3.1. Violazione di legge e vizio di motivazione, per mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità.
3.1.1. Il ricorso censura la sentenza impugnata per avere fondato il giudizio di responsabilità adeguandosi alle ipotesi investigative con conclusioni slegate dalle reali risultanze documentali. In particolare, sebbene l'ordinanza cautelare avesse collocato temporalmente le condotte di N. sino al 29 marzo 2013, data della presentazione della dichiarazione d'imposta 2012, la Corte di appello aveva esteso erroneamente a tutto il 2013 il periodo di punibilità dei reati fine, mentre aveva assolto la N. dai fatti commessi nel 2014 facendo riferimento ai dichiarativi e non agli anni di imposta.
3.1.2. Il ricorso censura la sentenza con riferimento all'attribuzione a N. dei reati di cui agli D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 416 c.p., 10-quater e art. 2.
3.1.2.1. Circa il reato associativo l'impugnazione contesta la declaratoria di prescrizione sia sotto il profilo temporale, in quanto la partecipazione di N. al più arrivava sino all'anno 2013; sia nel merito, in quanto la sua responsabilità era stata fondata sull'essere la moglie di C. (ritenuto capo dell'associazione a delinquere) con cui aveva condiviso lo studio professionale. Inoltre, la sentenza, senza distinguere tra partecipazione ad un'associazione per delinquere e concorso di persone, aveva travisato i fatti per avere attribuito all'imputata il ruolo di partecipe in base alla sola predisposizione delle buste paga e dell'invio dei dichiarativi con attestazione di conformità, cioè condotte lecite e del tutto avulse dall'attività dell'associazione a delinquere.
3.1.2.2. Circa il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 10-quater, il ricorso censura la conferma della condanna di N. per una condotta prodromica alla illecita compensazione operata da altri, di cui la ricorrente non aveva alcuna consapevolezza, per avere apposto il visto di conformità. La N., peraltro, aveva inviato gli F24 sino all'anno d'imposta 2012, con scadenza ed invio il 29 marzo 2013, cosicché erroneamente la sentenza le aveva addebitato condotte relative ad attestazioni con visto dei dichiarativi riguardanti il periodo successivo ed operate da Antinozzi.
3.1.2.3. Circa il reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 2, il cui capo O) era stato erroneamente collocato tra le contestazioni del D.Lgs. n. 74 del 2000 art. 10-quater, il ricorso contesta la sentenza impugnata per non avere tenuto conto che il cd visto leggero, fosse un mero riscontro formale, correttamente apposto, come confermato dalla consulenza tecnica di parte, non presa in considerazione, e non garantisse l'effettiva esistenza del credito, come peraltro risultante dalla circolare n. 12 del 12 marzo 2010 dell'Agenzia delle entrate.
3.1.3. Il ricorso censura la Corte di appello per avere rappresentato che N., quale commercialista autorizzata, avesse presentato dichiarazioni fiscali fraudolente per 12 cooperative, ponendo per alcune di esse anche il visto di conformità, così fuoriuscendo dai limiti del capo di imputazione, relativo a 4 cooperative, e aveva sostenuto che avesse operato operato quasi esclusivamente per le società coinvolte, mentre queste avevano inciso sul suo reddito solo nella misura dell'8,56%.
3.1.4. Con specifico riferimento al capo DD dell'imputazione (art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000), il ricorso censura la mancata distinzione, da parte della Corte di appello, tra inesistenza oggettiva e soggettiva delle fatture utilizzate per la contestata evasione delle imposte dirette e dell'Iva non tenendo conto che N. avesse siglato un accertamento con adesione con l'Agenzia delle entrate per definire la contestazione di intermediazione pagandone l'importo. Questo avrebbe consentito di assolvere l'imputata dal punto 1 del capo DD) e per il punto 2 di mitigare la pena. Inoltre, il ricorso censura il fatto che, pur in assenza di un potere di integrazione o suppletivo del giudice di secondo grado, questi aveva motivato ex novo rispetto ad un reato del quale il Tribunale di Latina aveva omesso analisi e trattazione.
4. Violazione di legge in relazione agli artt. 157 e 158 cod. pen con riferimento agli D.Lgs. n. 74 del 2000 artt. 17 e 10-quater in quanto per il punto 1 delle imputazioni H) 3) N) O) Q), limitatamente ai fatti commessi nel 2013, alla data della pronuncia della sentenza di appello erano già decorsi i termini massimi di prescrizione, pari a sette anni e sei mesi dalla commissione del fatto, anche considerando la sospensione stabilita dalla legge speciale per l'emergenza Covid 19.
5. Violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento al trattamento sanzionatorio irrogato in misura superiore al minimo edittale, negando le attenuanti generiche e non limitando l'aumento per la continuazione, senza rinviare ai criteri di cui all'art. 133 c.p., nonostante l'incensuratezza dell'imputata e la data risalente dei fatti.
6. S.C., con atto sottoscritto dal suo difensore, ha dedotto i seguenti motivi di ricorso.
6.1. Vizio di motivazione per omissione in quanto la sentenza impugnata non aveva valutato la censura difensiva, contenuta nelle pagine 11 e seguenti dell'atto di appello, relativa al contenuto integrale della trascrizione della conversazione del 13 settembre 2015 nella quale F.E. parlando con S.C. di S.C. lo qualificava come colui che non voleva niente e che ce l'aveva con C., limitandosi a riprodurre l'intercettazione riportata dai verbalizzanti in modo più ridotto e privo di detta decisiva parte.
6.2. Vizio di motivazione per omissione in quanto la sentenza impugnata non aveva valutato la censura difensiva secondo la quale non vi fosse alcuna prova che V.G. avesse consegnato somme di denaro al finanziere S.C. per corromperlo, non risultando né dalle sue ammissioni, né dalle intercettazioni telefoniche, né dai servizi di osservazione, né dalle dichiarazioni di F. e S..
6.3. Vizio di motivazione per omissione in quanto la sentenza impugnata non aveva valutato la censura difensiva secondo la quale non vi fosse alcuna prova diretta, ma solo indiziaria e priva di riscontri estrinseci, che il ricorrente, Maresciallo della Tenenza di Aprilia, fornisse informazioni sulle attività di indagine a C. e F., non bastando il riferimento all'incontro avvenuto tra V. e S. il 9 dicembre 2015 visto che dal foglio di servizio risultava che ne era conseguita un'informativa di reato per i reati di cui agli artt. 348,482,640, comma 2, c.p..
6.4. Vizio di motivazione per omissione in quanto la sentenza impugnata non aveva valutato le censure difensive riguardanti la credibilità di V.G., informatore accreditato della (OMISSIS) dal 2011, e le sue dichiarazioni etero accusatorie. In particolare, non sì era tenuto conto dell'assenza di riscontri alle consegne di denaro e della circostanza che V., oltre ad avere inscenato tre incontri con il luogotenente Laudando per convincere C. della corruzione del pubblico ufficiale mentre teneva per sé i soldi, aveva reso dichiarazioni discordanti sulle buste contenenti il prezzo della corruzione. Inoltre, su 315 conversazioni tra V. e C. non vi era alcuna citazione di S. e non risultavano movimenti sul conto corrente di questi.
6.5. Vizio di motivazione per omissione sulle informazioni coperte da segreto d'ufficio in relazione all'intero filmato audio-video del RIT 723-15 da cui si evinceva una situazione diametralmente opposta rispetto a quella riportata nella sentenza di primo grado ovverosia che la consegna dei fogli, contenenti genericamente notizie di ufficio, era avvenuta dal Maresciallo S. a S. e per di più sempre alla presenza del vice brigadiere C.. Inoltre, il ricorso sottolinea che tra V. e S. risultavano solo due intercettazioni trascritte prive di qualsiasi riferimento a notizie riservate. In relazione al capo 2 censura la sentenza che ritiene pacifici i fatti contestati a S. per l'avvenuto concordato in appello ex art. 599-bis c.p.p. dei coimputati e non in base ad altri elementi di prova giusto il rinvio contenuto nell'art. 238-bis c.p.p. all'art. 192, comma 3, c.p.p..
6.6. Vizio di motivazione per omissione sulle censure in ordine alla prova costitutiva del reato di corruzione di cui al capo KK) in quanto: la società (OMISSIS) SrI, che operava le regalie, non era sottoposta a verifica della Guardia di Finanza di Aprilia; il ragioniere della menzionata società, M., nel corso dell'interrogatorio di garanzia aveva escluso di avere ricevuto informazioni dal maresciallo S.; dalle intercettazioni non risultava che dette regalie (un iPhone 7 e buoni benzina) fossero avvenute e comunque S.D. aveva dichiarato di essere lui il destinatario dei buoni benzina.
6.7. Vizio di motivazione per omissione per l'eccessivo trattamento sanzionatorio la cui pena base, per il reato più grave, era prossima al massimo della sanzione stabilita dalla L. 27 maggio 2015, n. 69 per un reato consumato, con la promessa, nel maggio 2015; inoltre l'aumento per la continuazione non era stato motivato e l'entità delle utilità consentiva l'applicazione dell'attenuante di cui all'art. 323-bis c.p. e del minimo contributo causale.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Prima di esaminare i ricorsi va evidenziato che la sentenza di appello ha confermato quella di primo grado così che il controllo sulla motivazione deve essere condotto tenendo conto della reciproca integrazione delle due decisioni.
2. Il ricorso presentato nell'interesse di N.S. va accolto, sia pure nei limiti e con gli effetti di seguito precisati.
2.1. Il primo motivo, articolato in diverse censure, è in parte infondato, in parte inammissibile.
2.1.1. Diversamente da quanto contestato, la motivazione della Corte di appello di Roma, a pagina 39, esamina i singoli capi di imputazione proprio con riferimento alla censura relativa ai dato temporale, al fine di stabilire lo spartiacque delle condotte riferibili a N. o ad altri soggetti, specificando che: a) per i reati-fine di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000 la consumazione del reato coincide con la presentazione della dichiarazione fraudolenta effettuata da N. il 29 marzo 2013 (per l'anno di imposta 2012); b) per i reati-fine di cui all'art. 10-quater D.Lgs. n. 74 del 2000 la consumazione del reato coincide con la scadenza del termine stabilito dalla legge per l'adempimento del versamento coincidente con l'apposizione del "visto di conformità sulla dichiarazione Iva effettuata" che risulta apposto da N. il 29 marzo 2013 (per l'anno di imposta 2012); c) per la partecipazione al reato associativo si richiamano le medesime date dei reati-fine tributari.
2.1.2. Il motivo di ricorso, sul ruolo di partecipe della ricorrente al sodalizio di cui all'art. 416 c.p., è inammissibile.
Premesso che la Corte di appello ha dichiarato prescritto il reato con riferimento alla posizione della N., la doglianza è meramente reiterativa delle censure articolate con l'atto di appello, riprodotte in assenza di confronto argomentativo con le puntuali osservazioni sviluppate dalla sentenza impugnata che, oltre a rappresentare il dato non contestato che la ricorrente condividesse il proprio studio professionale con il marito ( C.F.), capo dell'associazione, ricostruisce dettagliatamente numerosi altri elementi, risultanti dall'attività investigativa compiuta, dimostrativi dell'essere N. organicamente intranea alla compagine criminale in quanto commercialista, richiamando: i rapporti continuativi, costanti ed esclusivi con le cooperative oggetto di indagine; il ritrovamento della documentazione contabile di queste presso il suo domicilio professionale; la totale interdipendenza e sostituibilità di N. e C. nella relazione con i dipendenti e nella gestione dello studio; il fattivo ruolo di intermediazione svolto; la partecipazione non estemporanea ai reati-fine. Quindi, la sentenza impugnata motiva in modo completo e congruo come N. non avesse affatto un ruolo compilativo di buste paga ed invii telematici, come da lei sostenuto, ma, al contrario, anche in ragione dell'essere una professionista con la qualità di intermediaria autorizzata, condivideva in modo fattivo e sostanziale la gestione dello studio da commercialista che si occupava degli aspetti contabili delle cooperative, da un lato predisponendo fatture per operazioni inesistenti, da cui erano generati i crediti di imposta fittizi, utilizzati successivamente per la compensazione delle imposte, e dall'altro redigendo le dichiarazioni fiscali fraudolente.
2.1.3. La censura relativa alla condanna di N. ex art. 10-quater D.Lgs. n. 74 del 2000, per una condotta prodromica rispetto alla illecita compensazione operata da altri, è infondata.
La fattispecie penale contestata alla ricorrente sanziona il mancato versamento delle somme dovute attraverso l'utilizzazione in compensazione ai sensi dell'art. 17 D.Lgs. n. 241 del 1997, di "crediti non spettanti o inesistenti".
La giurisprudenza di questa Corte ha chiarito che il delitto di indebita compensazione appresta tutela all'interesse al versamento dei tributi, pregiudicato dalla violazione della procedura di compensazione, anticipando così il momento di rilevanza penale alla mera violazione di detta procedura che, per sua natura, implica un elevato grado di affidamento nella correttezza del protagonista del versamento perché si consente al contribuente di effettuare il versamento unitario delle imposte e, contestualmente, di compensare le somme a debito con quelle di accredito relative a tali imposte, compilando l'apposito modello F24. L'eventuale indebita compensazione non e', però, immediatamente percepibile dall'amministrazione finanziaria perché emerge solo quando gli organi accertatori appurino l'insussistenza o la non spettanza del credito portato in compensazione. Questa la ragione per la quale, secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, il delitto si consuma al momento della presentazione del modello F24 relativo all'anno interessato e non in quello della successiva dichiarazione dei redditi, in quanto, con l'utilizzo del modello indicato, si perfeziona la condotta decettiva del contribuente, realizzandosi il mancato versamento per effetto dell'indebita compensazione di crediti in realtà non spettanti in base alla normativa fiscale (Sez. 3, n. 34966 del 16/10/2020, Capoccia, Rv. 280428; Sez. 3, n. 4958 dell'11/10/2018, Cappello, Rv. 274854). Nei capi di imputazione contestati a N. risulta che è stata lei a presentare i modelli F24, tanto da risponderne, come correttamente ritenuto dalla Corte di appello.
2.1.4. Il motivo di ricorso relativo alla errata attribuzione di responsabilità alla N. per i reati di cui all'art. 2 D.Lgs. n. 74 del 2000 è infondato.
Le conclusioni cui pervengono i giudici di primo e secondo grado non meritano alcuna censura avendo correttamente argomentato gli elementi a sostegno della configurabilità del delitto, previa illustrazione della natura del visto di conformità alle dichiarazion Iva, definito "leggero", ed avendo rilevato che questo avesse ostacolato l'accertamento fiscale con induzione in errore dell'amministrazione finanziaria, che aveva presupposto la positiva verifica, da parte della commercialista, della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e all'attestazione della congruità dei ricavi o dei compensi dichiarati rispetto a quelli determinabili in base agli studi di settore.
Alla luce di detti argomenti, il provvedimento impugnato non merita alcuna censura anche perché ha correttamente collocato gli elementi a sostegno della configurazione del reato nella complessiva valutazione dei fatti, avvenuti in un lungo contesto temporale, attraverso un ripetuto schema di operazioni illecite e in forza di precisi ruoli svolti da ciascuno in segmenti non parcellizzabili.
Il ricorso, invece, tende a frazionare le singole condotte contestate a N. nei differenti capi di imputazione, tanto da ridimensionarne la portata in una lettura meramente formalistica di condotte che apparentemente potrebbero così sembrare non significative e meramente esecutive.
In questa chiave va esaminata la questione, già correttamente risolta dalla Corte di appello di Roma, circa la natura del visto di conformità apposto da N. sulle dichiarazioni Iva on il superamento delle soglie quantitative e qualitative per la configurazione del delitto.
Il visto di conformità è un controllo attribuito dal legislatore a soggetti estranei all'amministrazione finanziaria - professionisti abilitati iscritti negli appositi Albi -per la corretta applicazione delle norme tributarie. E' disciplinato dal D.Lgs. n. 241 del 1997, che distingue il visto leggero, previsto dall'art. 35, e il visto pesante (o certificazione tributaria), previsto dall'art. 36.
Nel caso che ci occupa si esamina la natura giuridica del primo, apposto dalla ricorrente, e gli obblighi, in termini di responsabilità, che esso determina.
Ai sensi dell'art. 2 del decreto ministeriale n. 164 del 1999 l'apposizione del visto di conformità implica che il professionista riscontri la corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze della relativa documentazione e alle disposizioni che disciplinano gli oneri deducibili e detraibili, le detrazioni e i crediti di imposta, lo scomputo delle ritenute d'acconto, i versamenti.
I controlli sono finalizzati ad evitare errori materiali e di calcolo nella determinazione degli imponibili, delle imposte e delle ritenute e nel riporto delle eccedenze risultanti dalle precedenti dichiarazioni.
Tali controlli implicano la verifica: della regolare tenuta della contabilità (ai fini delle imposte sui redditi e ai fini Iva); della corrispondenza dei dati esposti in dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e alla relativa documentazione; della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alla documentazione prodotta dal contribuente nel caso del modello 730. L'apposizione di detto visto è obbligatoria per una serie di operazioni come la compensazione dei crediti relativi a Iva, imposte dirette, Irap e ritenute di importo superiore a Euro 5000 annui; la presentazione delle istanze di rimborsi dei crediti Iva, annuale trimestrale, di ammontare superiore a Euro 30.000; la presentazione delle dichiarazioni modello 730.
In conclusione, il professionista che rilascia un mendace visto di conformità, leggero o pesante, o un' infedele asseverazione dei dati, ai fini degli studi di settore, risulta esposto anche a sanzioni penali in ragione dell'espressa previsione di cui all'art. 39 D.Lgs. n. 241 del 1997 e del meccanismo del concorso nel reato di cui all'art. 110 c.p. in quanto crea un mezzo fraudolento idoneo ad ostacolare l'accertamento e ad indurre in errore l'amministrazione finanziaria, indicando in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi (Sez. 3, n. 19672 del 13/03/2019, Cartechini, Rv. 275998).
La censura della ricorrente, per come articolata nei motivi di appello e poi nel ricorso per cassazione, è errata nella parte in cui sottolinea la natura esclusivamente formale della verifica, in quanto, al contrario, essa impone la verifica della corrispondenza dei dati esposti nella dichiarazione alle risultanze delle scritture contabili e agli altri documenti, altrimenti, come correttamente sostenuto nella sentenza impugnata, induce in errore l'amministrazione finanziaria.
D'altra parte, N. era la commercialista delle cooperative e aveva il compito di verificare la rispondenza al vero delle loro dichiarazioni prima di apporre il visto della corrispondenza tra ammontare delle componenti positive e negative relative all'attività esercitata e rilevante ai fini dell'Iva.
La sentenza, al riguardo,it la circolare n. 57 del 23 dicembre 2009 dell'Agenzia delle Entrate e specificamente il paragrafo 7.2. ("nel caso in cui il credito d'imposta destinato dal contribuente all'utilizzo in compensazione sia pari o superiore al volume d'affari, tenuto conto che trattasi di una fattispecie in cui la genesi del credito di Iva non appare direttamente giustificata dall'attività economica esercitata dal soggetto nel periodo d'imposta cui si riferisce la dichiarazione, deve essere effettuata l'integrale verifica della corrispondenza tra la documentazione e i dati esposti nelle scritture"), che conferma la natura del visto leggero.
Non assume alcuna valenza dirimente il richiamo contenuto nel ricorso alla circolare n. 12 del 12 marzo 2010 punto 1.2 nella parte in cui chiarisce che "tale verifica non comporta valutazioni di merito, ma il solo riscontro formale della corrispondenza in ordine all'ammontare delle componenti positive negative relative all'attività esercitata è rilevante ai fini dell'Iva".
Infatti, nella specie non era richiesto a N. di operare "valutazione di merito", ma avendo il ruolo di partecipe dell'associazione a delinquere proprio in quanto commercialista delle cooperative e di intermediaria nella presentazione delle dichiarazioni dei redditi doveva essere pienamente consapevole della fittizietà delle operazioni indicate nelle fatture passive dalle quali erano scaturiti i crediti Iva certificati e il suo visto di conformità costituiva lo strumento prodromico necessario per impedire gli accertamenti dell'amministrazione finanziaria, come correttamente argomentato a pagina 35 della sentenza impugnata.
Inoltre, anche dall'analisi solo formale dei dati indicati nei documenti contabili e fiscali delle società coinvolte si evincevano chiaramente delle rilevanti anomalie, con particolare riguardo agli ingenti acquisti che generavano i crediti Iva certificati, privi di correlazioni con le rispettive vendite (si veda pagina 37 della sentenza impugnata che richiama le tabelle 6 e 7 dell'informativa del 31 marzo 2015, Torno I). Su questi dati di fatto il ricorso non ha offerto alcuna critica argomentata.
2.1.5. La censura secondo cui la Corte di appello ha superato i limiti di valutazione fissati dal capo di imputazione è manifestamente infondata in quanto il riferimento al fatto che la ricorrente avesse intrattenuto rapporti economici con 14 cooperative risultava dall'informativa della Guardia di Finanza di Aprilia del 2 febbraio 2016 ed era un dato oggettivo. Del tutto irrilevante la circostanza, proposta in termini generici nel ricorso, che l'attività professionale di N. con le cooperative oggetto delle contestazioni avesse inciso sul suo reddito nella misura dell'8,56%, anziché nei termini indicati nella sentenza.
2.1.6. Con riguardo poi al riferimento a pag. 39 della sentenza al gruppo di contestazioni relative al reato di cui all'art. 10-quater D.Lgs. n. 74 del 2000 anziché all'art. 2 costituisce un mero errore materiale che non risulta avere in alcun modo influito né sulla responsabilità né sulla sanzione applicata.
2.1.7. Il motivo di ricorso relativo all'imputazione DD) è inammissibile per manifesta infondatezza.
Il provvedimento impugnato viene censurato per non avere operato la distinzione tra inesistenza oggettiva ed inesistenza soggettiva delle fatture utilizzate per l'evasione delle imposte dirette e dell'Iva oggetto della contestazione sub DD) concernente le attività di segreteria svolte da alcune impiegate presso lo studio della ricorrente, ma fatturate dalle rispettive cooperative.
Si tratta di una distinzione che non risulta dagli atti in quanto né l'imputazione, né la sentenza di primo grado che accerta la natura delle operazioni, fanno riferimento a queste come soggettivamente inesistenti per interposizione fittizia lavorativa. Al contrario, risulta trattarsi di operazioni oggettivamente inesistenti, in quanto N. non ha mai documentato, né compiutamente prospettato, di avere ricevuto i servizi amministrativi commissionati alle 4 cooperative indicate nell'imputazione, ma al contrario ha simulato di averli ottenuti, ragione per la quale le fatture sono state correttamente contestate nei termini indicati nell'imputazione prima e nelle sentenze poi, così mancando il denunciato travisamento della prova.
Da ciò consegue che il provvedimento impugnato correttamente non ha tenuto conto dell'accertamento siglato da N. con l'Agenzia delle Entrate in quanto questo riguardava l'intermediazione di manodopera, cioè una condotta non contestata nel capo DD).
Infine, è manifestamente infondata anche l'asserita omessa valutazione di detta imputazione nella sentenza di primo grado. Aldilà dell'essere questo un motivo che non ha formato oggetto di appello dove, al contrario, a pag. 32 ci si duole che "la sentenza di primo grado ha recepito la ricostruzione accusatoria..." (poi contraddetta a pag. 37), l'imputazione risulta valutata dal GUP di Latina a pag. 532 della sentenza dove il fatto è attribuito alla N. proprio alla luce delle dichiarazioni dei dipendenti dello studio.
3. La censura contenuta nel secondo motivo di ricorso, relativa alla prescrizione dei reati di cui all'art. 10-quater del D.Lgs. n. 74 del 2000, è fondata.
Il termine di prescrizione, infatti, per l'indebita compensazione resta quello della disciplina generale prevista dagli artt. 157 e 161 c.p. di 7 anni e 6 mesi decorrenti dalla data di presentazione del modello F 24 avvenuto per il capo H) il 22 luglio 2013, per il capo J) il 16 maggio 2013, per i capi N) e Q) il 16 aprile 2013.
Quindi i reati sono estinti per intervenuta prescrizione rispettivamente il 22 gennaio 2021 (Capo H); 16 novembre 2020 (Capo i) 6 ottobre 2020 (Capi N e Q) cioè prima della sentenza di secondo grado del 25 ottobre 2021.
Ne discende l'obbligo di immediata declaratoria di estinzione del reato ai sensi dell'art. 129, comma 1, c.p.p., non emergendo dagli atti in termini di "evidenza" elementi per pervenire ad una pronuncia assolutoria ai sensi dell'art. 129, comma 2, c.p.p..
E' principio consolidato che la formula di proscioglimento nel merito prevale sulla dichiarazione di improcedibilità per intervenuta prescrizione soltanto nel caso in cui sia rilevabile, con una mera attività ricognitiva, l'assoluta assenza della prova di colpevolezza a carico dell'imputato ovvero la prova positiva della sua innocenza, e non anche nel caso di mera contraddittorietà che richiede un apprezzamento ponderato tra opposte risultanze, come nel caso di specie, proprio alla luce delle censure che contestano la consapevolezza della ricorrente circa le condotte prodromiche all'illecita compensazione operata da altri.
La rilevata causa di estinzione del reato comporta, pertanto, l'annullamento con rinvio della sentenza ai fini della rideterminazione della pena in quanto il calcolo operato dalla Corte di appello non consente di detrarre l'aumento per i capi contenenti i reati estinti per intervenuta prescrizione.
4. Il terzo motivo di ricorso, sul trattamento sanzionatorio, è inammissibile per genericità poiché si risolve in una critica al potere discrezionale del giudice nella determinazione della pena.
Secondo la costante giurisprudenza di legittimità, il giudice di merito non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, come nella specie, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549). E' altresì, consolidato il principio secondo il quale nel giudizio di cassazione è comunque, inammissibile la censura che miri ad una nuova valutazione della congruità della pena, la cui determinazione- come nel caso di specie- non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 3, n. 29968 del 22/02/2019, Del Papa, Rv. 276288, in motivazione).
5. La sentenza emessa nei confronti di N.S. va dunque annullata senza rinvio limitatamente ai reati di cui ai capi H), 3), N) e Q) perché estinti per prescrizione e rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Roma per la rideterminazione delle pene, con rigetto del ricorso nel resto.
6. il ricorso presentato nell'interesse di S.C. è infondato nei termini di seguito indicati.
6.1. Il primo, il terzo, il quinto e il sesto motivo di impugnazione sono inammissibili perché presentati per fare valere ragioni diverse da quelle consentite dalla legge.
I quattro motivi sono esaminabili congiuntamente in quanto tutti volti a contestare il significato fornito dalla Corte di appello di Roma al contenuto delle emergenze acquisite durante le indagini e pienamente utilizzabili per l'instaurato rito abbreviato. Il ricorso, anziché proporre un travisamento delle prove, cioè una incompatibilità tra l'apparato motivazionale del provvedimento impugnato e il contenuto degli atti del procedimento, tale da disarticolare la coerenza logica dell'intera motivazione, ha denunciato una inammissibile rivalutazione dell'intero materiale di indagine da un lato riproponendo rilievi in tutto sovrapponibili a quelli già sottoposti all'attenzione della Corte territoriale e su cui questa ha puntualmente risposto; dall'altro lato fornendo una spiegazione alternativa alla semantica adottata dalla sentenza impugnata, peraltro parcellizzandone la lettura.
La motivazione censurata ricostruisce in fatto la vicenda con argomenti esaustivi e immuni da vizi logici oltre che pienamente ancorati al tenore delle conversazioni intercettate, del filmato audiovideo (Rit. 723-15) e complessivamente agli esiti delle ulteriori attività investigative svolte, incluse le dichiarazioni rese dai coimputati nel corso degli interrogatori attraverso una coerente declinazione dei principi posti a fondamento dell'art. 192, comma 3, c.p.p..
6.1.1. Le pronunce di merito hanno qualificato S.C., appartenente alla Tenenza della Guardia di Finanza di Aprilia, come colui che, dietro corresponsione di denaro e regali, rivelava le attività di indagine svolte dal suo ufficio nei confronti di cooperative riconducibili al gruppo criminale sopra citato, tramite l'intermediazione del suo conoscente ed informatore V.G..
Per pervenire a detta conclusione le sentenze hanno valorizzato il contenuto delle numerose intercettazioni (telefoniche e ambientali) spesso chiare, ed in alcuni casi persino univoche, intercorse proprio tra soggetti con un ruolo nell'ambito dell'associazione per delinquere che avevano specificamente nominato S.. Si pensi, in particolare, alle intercettazioni: del 19 maggio 2015 tra A.A. e S.C. - entrambi partecipi dell'associazione con il ruolo di gestori dei profili commerciali delle società cooperative - in cui il primo indica S. come quello che aveva ricevuto Euro 30.000 insieme a D.M. (Rit. 357/15, n. 38); del 9 settembre 2015 (Rit. 357/15 n. 3306) tra S.C. e F.E. - il secondo capo e organizzatore dell'associazione - in cui nell'indicare il sottufficiale della Guardia di Finanza "quello che si prende i soldi da noi, il maresciallo" avevano fatto riferimento specificamente al nome di S.; del 30 ottobre 2015 (Rit. 357/15 n. 5356) in cui, in ambientale, gli stessi interlocutori riferiscono che S. (insieme a S. e D.M., altri finanzieri) prendono Euro 4000 al mese per la loro condizione di asservimento corruttivo ("mangiano S.... S., D.M. e S.... con Euro 4000 al mese per un anno, ancora per un anno o giù di lì"); del 22 maggio 2016 tra S. e V. nell'ufficio di quest'ultimo, in ambientale, in cui dopo avere parlato di C. - capo e organizzatore dell'associazione - e N. - partecipe dell'associazione quale commercialista - il ricorrente aveva pronunciato la seguente inequivoca frase "purtroppo lo vivo di stipendio... di stipendio nostro (risata).... A me basta un nonnulla".
La fondatezza dell'ipotesi accusatoria era stata ulteriormente corroborata dalle dichiarazioni rese dai coimputati S. e V. - questi come partecipe dell'associazione con il ruolo di tenere i rapporti con i pubblici ufficiali utili a fornire informazioni - nel corso dei loro rispettivi interrogatori e V. in particolare, proprio con riferimento all'intercettazione ambientale del 22 maggio 2016, aveva meglio chiarito che con il ricorrente stava parlando del supplemento in denaro, che lui stesso gli consegnava con regolarità, per avere informazioni sulle verifiche fiscali sulle società cooperative oggetto del presente procedimento, così inserendo "lo stipendio" come controprestazione delle rivelazioni.
La coerenza di tutti i menzionati elementi a carico di S. era stata ulteriormente suffragata dai giudici di merito dagli accertamenti sul suo conto corrente bancario da cui era emerso che questi, diversamente da quanto avveniva prima dell'inizio delle attività di verifica fiscale in cui si registravano uscite per oltre 30.000 Euro, nel periodo compreso tra il febbraio e il novembre 2015 (epoca delle verifiche fiscali sulle cooperative) non aveva più prelievi in contanti e l'utilizzo di carta bancomat era limitatissimo.
In tale ricco e convergente contesto probatorio, in cui con corretto ragionamento i giudici hanno collegato tutti gli elementi a supporto dei fatti delittuosi ascritti al finanziere, il motivo di ricorso volto a cercare nel prosieguo della conversazione del 9 settembre 2015, tra S. e F., la prova dell'estraneità di S. risulta non solo inconferente ma anche irrilevante.
La lettura alternativa del singolo brano della conversazione intercettata, la cui trascrizione completa è stata riportata nel ricorso e interpretata nel senso che S., dopo essere stato descritto come quello che "prende i soldi da noi", relativamente ad una verifica fiscale in corso, invece non volesse niente e avesse cattivi rapporti con C., non è ammissibile in sede di legittimità perché tende a coinvolgere la Corte di cassazione, chiamata a giudicare solo su vizi della sentenza, in un'opera di rivisitazione del materiale probatorio (tra le altre Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715), peraltro offrendo una valutazione parcellizzata di singole parole che non scalfisce affatto gli argomenti e le prove descritte dalle sentenze di primo e secondo grado.
6.1.2. Negli stessi termini si deve concludere con riferimento alla censurata assenza di riscontri per il reato di violazione del segreto di ufficio e alla diversa lettura fornita sia alle immagini dell'audio video di cui al Rit. 273/15, sia all'incontro avvenuto tra V. e S. il 9 dicembre 2015.
Infatti, alle pagine 47 e 48 della sentenza impugnata si dà atto che la Corte di appello ha visionato in camera di consiglio l'intero filmato che il 30 novembre 2015 registra S. all'interno dell'ufficio mentre prende dalla scrivania di S. dei fogli e, dopo averli letti, chiede chiarimenti a cui il collega risponde aprendo una cartellina rossa (Rit. 723/15 n. 1436) e argomenta le ragioni per cui conferma l'interpretazione fornita dal primo giudice, e non anche la lettura alternativa della difesa, richiamando l'informativa della Guardia di Finanza da cui risultava che nella cartellina rossa vi fossero atti inerenti le verifiche in corso nei confronti delle cooperative oggetto del processo.
D'altra parte, che S. fornisse informazioni a V., per i vertici dell'associazione criminale, sulle loro cooperative emerge in modo inequivoco dagli esiti delle intercettazioni avvenute il 22 maggio 2016 presso l'ufficio di V. e rivelano che il ricorrente disvela le indagine in corso su C., su N., sul pericolo che corre lo stesso interlocutore per l'installazione di microspie da parte del Nucleo di polizia tributaria di Latina.
Anche in questo caso, la censura difensiva non è tale da inficiare in alcun modo la ricostruzione operata dalla sentenza impugnata in quanto il fatto che S. avesse consegnato i documenti a S. (e non viceversa) o che tutto fosse accaduto alla presenza di un vice brigadiere non disarticola il ragionamento della sentenza impugnata in quanto ciò che rileva è che il ricorrente avesse mostrato interessamento e avesse preso visione di atti riguardanti le cooperative oggetto dell'indagine proprio alla luce delle rivelazioni risultanti dalle intercettazioni ambientali con V. e sopra indicate.
Inoltre, l'assenza di contatti telefonici tra V. e S. si spiega non solo con il fatto che i due si incontrassero spesso (vedi le ambientali nell'ufficio di V.) ma anche per la conoscenza del collocamento di microspie e di indagini in corso da parte del secondo che aveva avuto cura di informarne gli interlocutori.
Lo stesso è a dirsi con riguardo all'incontro del 9 dicembre 2015 tra V. e S. la cui ricostruzione e valenza è stata argomentata dai giudici di merito grazie ai servizi di osservazione che davano atto che entrambi caricavano pacchi all'interno del portabagagli dell'autovettura del ricorrente, e dalle successive intercettazioni da cui risultava che S. rivelava a M. che nell'autovettura e nell'ufficio di V. erano state posizionate microspie ("gli hanno messo qualcosa nel... Quelli gliela mettono dappertutto, in macchina, in casa"), tanto da avere dovuto assumere precauzioni, fino a non avere più contatti telefonici.
Anche in questo caso, diversamente da quanto sostenuto nel ricorso, non è dirimente la redazione di un'informativa di reato a firma di S., a seguito del menzionato incontro con V., per diverso procedimento, estraneo ai soggetti appartenenti all'associazione e alle loro società, stante la qualità di informatore della (OMISSIS) del coimputato.
6.1.3. Con specifico riferimento alle regalie di M., che agiva per conto di C., a favore di S., il contenuto inequivoco delle intercettazioni audiovideo avvenute il 3 agosto 2016 presso l'ufficio del ragioniere, ulteriormente riscontrate da tutti gli elementi indicati a pagina 60 della sentenza impugnata, hanno consentito ai giudici di merito di affermare, con motivazione completa e logica, la responsabilità del ricorrente in relazione al delitto addebitatogli al capo KK). E' stato in sostanza provato che S. che aveva già informato M. del rischio di indagini e di intercettazioni nella telefonata del 18 marzo 2016 aveva ricevuto da questi un iPhone 7 e buoni benzina per 500 Euro, consegnati senza spirito di liberalità come dimostra la registrazione audio video del 7 ottobre 2016 presso lo studio di M., riportata a pag. 69 della sentenza, in cui questi preleva banconote dalla scrivania e le consegna al finanziere facendo riferimento al fatto di non potergli regalare un altro telefono. D'altra parte il motivo per cui S. ricevesse detti "doni" non è risultato avesse letture alternative rispetto a quelle contestate, aldilà del contenuto delle dichiarazioni rese da S.D. che al più comprovano il motivo per cui S. pretendeva 500 Euro di buoni benzina, ma non idonee ad incidere in alcun modo sul delitto accertato.
Del tutto irrilevante la circostanza, sottolineata nel ricorso, che una delle società di cui M. era ragioniere (società (OMISSIS) Srl) non fosse stata sottoposta a verifica dalla Guardia di Finanza di Aprilia, visto che le informazioni che venivano rivelate da S. riguardavano non una ma diverse società facenti capo ai vari associati tramite l'intermediazione di M..
Il fatto che questi avesse escluso di avere ricevuto dati investigativi dal ricorrente è del tutto irrilevante proprio alla luce del contenuto delle intercettazioni del 3 agosto 2016 (Rit 132/2016, n. 910) e di una mancata ipotesi alternativa logica e comprovata.
7. Il secondo e il quarto motivo di ricorso sono infondati.
Le sentenze di primo e secondo grado hanno correttamente vagliato, secondo i principi fissati dall'art. 192, commi 3 e 4, c.p.p., le dichiarazioni confessorie ed etero-accusatorie del coimputato V.G., intraneo all'associazione criminale, che aveva lo specifico ruolo di tenere i rapporti con i pubblici ufficiali in grado di fornire informazioni sulle attività di indagine e sulle verifiche fiscali riguardanti le società corporative. Questi nell'interrogatorio reso dinnanzi al Pubblico ministero il 16 marzo del 2018 aveva riferito di conoscere il coimputato da circa 15 anni, essendo un informatore della Guardia di Finanza, e di avergli consegnato in otto occasioni somme di denaro in cambio di informazioni sulle imprese che lo interessavano, elemento confermato dall'intercettazione ambientale del 22 maggio 2016 in cui S. aveva detto a V. di vivere grazie "allo stipendio nostro". Anche C., a capo dell'associazione, era rimasto soddisfatto del "lavoro" di S..
La credibilità del dichiarante è stata puntualmente accertata e riscontrata dalla sentenza di secondo grado che, nelle pagine 58 e 59, ha fatto riferimento sia alla verosimiglianza, alla precisione e alla completezza della narrazione dei fatti relativi all'attività corruttiva di S. e all'assenza di ragioni di risentimento nei confronti di questi; sia al copioso materiale probatorio costituito dalle intercettazioni, dai servizi di appostamento oltreché dal concordato in appello dei coimputati F., C., S., A.A. e A.A., M. ex art. 599-bis c.p.p. Riguardo a detto ultimo argomento, pur ritenendo corretto, come sostenuto nel ricorso, che non costituisca un elemento di riscontro, non è però contrastante con il quadro complessivo specie a fronte dell'assenza di una tesi alternativa proposta da S..
Non è accoglibile neanche la doglianza relativa alla mancata conferma delle dichiarazioni di V. da parte di S. in quanto alle pagine 41 e 45 della sentenza si menziona il suo interrogatorio in cui aveva rappresentato che il nominativo di S., quale finanziere corrotto, lo avesse appreso da C.. La pronuncia impugnata spiega anche che l'assenza di conoscenza personale del ricorrente con F. (e C.) non avesse alcun rilievo proprio in considerazione dell'attività di intermediazione svolta da V..
Il ricorso censura la valutazione di credibilità di questi, operata dalle sentenze, anche per avere ammesso l'avvenuto trattenimento, per sé, di Euro 100.000 destinati alla corruzione del finanziere infedele, a cui aveva consegnato solo la somma di Euro 20.000 in 8 occasioni in buste, ricevute da C., con importi variabili. Si tratta di un elemento che sotto il profilo logico comprova l'attendibilità del dichiarante e comunque non elide la responsabilità di S., per come evincibile dal complessivo materiale probatorio sopra richiamato, ritenendosi del tutto irrilevante, ai fini di screditarlo, che le buste fossero chiuse o aperte o che non avesse indicato le specifiche modalità della consegna e i riscontri o l'entità delle somme. Si tratta di dati inidonei a contrastare il convergente quadro delineato nelle sentenze di merito.
Non dirimente il dato che vi fossero state poche intercettazioni tra V. e S. o nessun riferimento a questi nelle 315 conversazioni tra V. e C., in quanto, come emerso dalle intercettazioni sopra richiamate, il ricorrente era prudente sia perché consapevole dell'esistenza di intercettazioni in corso, sia per l'attività di operante della Guardia di Finanza che rendeva Spearanza necessariamente più cauto e in grado di pretendere più rigore anche dagli altri.
In sostanza le dichiarazioni auto ed etero accusatorie di V. costituiscono solo un ulteriore tassello tra quelli valorizzati dalla sentenza impugnata e costituiti dalle conversazioni oggetto di intercettazione telefonica ed ambientale nell'ufficio del dichiarante da cui si ricava sia la piena consapevolezza che S. fosse al servizio dell'associazione criminale, sia che fornisse informazioni sulle attività investigative svolte dalla Guardia di Finanza in relazione alle cooperative.
8. Le censure relative al trattamento sanzionatorio sono in parte infondate e in parte inammissibili.
8.1. Deve ritenersi infondata la doglianza relativa all'esclusione dell'attenuante di cui all'art. 323-bis c.p. da parte delle due sentenze di merito in quanto queste apprezzando l'oggettiva gravità del vulnus arrecato all'immagine stessa della pubblica amministrazione, oltre che alla segretezza delle indagini di polizia giudiziaria, dovuto al mercimonio prodotto da S. nell'esercizio della pubblica funzione, vista la natura sistematica delle condotte contestategli, si sono adeguate al pacifico orientamento di legittimità (tra le altre Sez. 6, n. 8295 del 9/11/2018, Santimone, Rv. 275091) secondo il quale in tema di delitti contro la pubblica amministrazione detta attenuante ricorre solo quando il reato, valutato nella sua globalità, presenti una gravità contenuta (Sez. 2, n. 8733 del 22/11/2019, Le Voci, Rv. 278629).
8.2. Parimenti infondate le censure riguardanti il trattamento sanzionatorio che il ricorso ritiene erroneamente quantificato sulla pena più grave risultante dalla L. 27 maggio 2015, n. 69.
Le due sentenze, con argomenti conformi, hanno puntualmente ricostruito temporalmente l'estensione dei rapporti corruttivi, intercorsi con il pubblico ufficiale, alla luce del materiale probatorio sopra indicato, nel periodo compreso tra maggio 2015 e maggio 2016 (nonché per il capo KK agosto 2016), dunque in epoca in gran parte successiva all'inasprimento sanzionatorio avvenuto con la citata L. n. 69 del 2015.
Diversamente da quanto argomentato dal ricorrente, che ritiene consumato il delitto di corruzione con la mera promessa illecita, datata nella specie nel maggio del 2015, secondo i principi stabiliti da questa Suprema Corte (Sez. U, n. 15208 del 25/02/2010, Mills, Rv. 246583; Sez. 6, n. 4105 del 01/12/2016, Ferroni, Rv. 269501) detto reato si perfeziona alternativamente con l'accettazione della promessa ovvero con la ricezione dell'utilità quando, come nella specie, alla promessa faccia seguito la dazione, cosicché è solo da tale ultimo momento che il reato si consuma perché si approfondisce l'offesa tipica (Sez. 6, n. 51126 del 18/07/2019, PG c./Evangelisti, Rv. 278192).
8.3. Sono inammissibili, per genericità, le doglianze sui criteri direttivi dettati dall'art. 133 c.p. congruamente giustificati dai giudici di merito che pur richiamando la particolare gravità delle condotte di S. gli anno applicato le attenuanti generiche e ridotto ulteriormente la pena in grado d'appello.
9. Alla stregua dei motivi indicati deve essere rigettato il ricorso di S.C. con condanna al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di N.S. limitatamente ai reati di cui ai capi H), 3), N) e Q) perché estinti per prescrizione. Rigetta il ricorso nel resto. Rinvia ad altra sezione della Corte di appello di Roma per la rideterminazione delle pene.
Rigetta il ricorso di S.C. che condanna al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 21 giugno 2022.
Depositato in Cancelleria il 1 agosto 2022
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