Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.22891 del 10/11/2016

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Un contratto di finanziamento, stipulato usando falsamente il nome del legale rappresentante della società, è assimilabile ad una spendita indebita del nome della società, con la precisazione, però, che l'ipotesi non è immediatamente riconducibile a quella della rappresentanza diretta, essendo tuttavia possibile l'applicazione in via analogica della relativa disciplina codicistica, per cui il finanziamento, sebbene inefficace nei confronti della società, della quale è mancato il consenso ab origine, è suscettibile di ratifica da parte della società, che può essere rinvenuta in atti od in comportamenti specificamente diretti ad avvalersi del contratto di finanziamento, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi.

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Cass., civ. sez. III, del 10 novembre 2016, n. 22891

Cassazione Civile Sent. Sez. 3 Num. 22891 Anno 2016
Presidente: VIVALDI ROBERTA
Relatore: BARRECA GIUSEPPINA LUCIANA
Data pubblicazione: 10/11/2016

SENTENZA

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO


1. - Il Tribunale di Cuneo, con sentenza dell'8 febbraio 2011, decidendo nel giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo introdotto dalla ingiunta società Ccccc S.r.l., nonché dagli ingiunti XXXXX (quale amministratore della società ed anche in proprio quale coobbligato) e YYYYY (quale fideiussore) nei confronti della Banca ZZZ s.p.a. (successore a titolo particolare della creditrice Silf s.p.a.), riteneva false le firme di YYYYYY apposte sul contratto di finanziamento (quale legale rappresentante della società, che aveva contratto il debito per l'acquisto di un'autovettura Mercedes) e di contestuale rilascio di garanzia (in proprio), mentre reputava vera quella apposta da XXXXX in calce al separato contratto di fideiussione. Per l'effetto, revocava il decreto ingiuntivo nei confronti del primo e respingeva l'opposizione sia della società che di XXXXXXX; accoglieva inoltre la domanda di manleva spiegata dalla società nei confronti di YYYYY (nel cui esclusivo interesse risultava essere stata acquistata l'autovettura, oggetto di finanziamento, pur se intestata alla _ società) e lo condannava a tenere indenne la società da ogni esborso nei confronti della banca; compensava interamente tra le parti le spese di lite, ad eccezione delle spese di CTU, che venivano ripartite tra XXXXX e la società C.&G. Football S.r.l., per il 50%, e la banca creditrice per il restante 50%.

2.- Proposto appello soltanto da parte di XXXX e costituitasi l'appellata Banca ZZZZ s.p.a., nella contumacia di FFFFF e della società HHHHHH S.r.l., la Corte di Appello di Torino, con la decisione ora impugnata, pubblicata il 25 ottobre 2013, ha rigettato l'appello ed ha condannato l'appellante al pagamento delle spese del grado in favore di Unione FFF S.c.p.A., incorporante per fusione Banca 24-7 s.p.a.

3.- Avverso questa sentenza XXXXX propone ricorso affidato a due motivi, illustrati da memoria. Unione ZZZZZZ S.c.p.A. resiste con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Col primo motivo si deduce " nullità od inesistenza del contratto di finanziamento per falsità della sottoscrizione del legale rappresentante della srl - violazione e falsa applicazione degli artt. 1325, 1418, 1399 c.c. in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5 cpc".

Il ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte d'appello, dopo aver dato atto della falsità della firma apposta in calce al contratto di finanziamento a nome dell'allora legale rappresentante della società s.r.l. (G), ha reputato che il contratto potesse comunque essere ratificato come se fosse stato stipulato dal falsus procurator ed ha rinvenuto la ratifica da parte della società nella documentazione prodotta in giudizio (in particolare, nella "dichiarazione liberatoria" e "di assunzione di responsabilità" rilasciata da M nel dicembre 2006).

1.1.- La critica è svolta sotto due differenti profili. In primo luogo, il ricorrente assume che il contratto non avrebbe potuto essere ratificato perché non si sarebbe trattato di contratto stipulato da un falsus procurator, bensì di un contratto nullo, anzi giuridicamente inesistente, ai sensi dell'art. 1418, secondo comma, cod. civ., in relazione all'art. 1325 cod. civ., stante l'accertata falsità della sottoscrizione.

In secondo luogo, assume che non vi sarebbe stata alcuna ratifica, nemmeno implicita, da parte della società.

2. - Il motivo è fondato, nei limiti e per le ragioni di cui appresso. Il contratto stipulato dal falsus procurator non è un contratto nullo, né annullabile, ma costituisce una fattispecie soggettivamente complessa, la quale necessita della ratifica del dominus per produrre effetti nei confronti di quest'ultimo.

Perciò, la giurisprudenza di questa Corte l'ha considerato come negozio "in itinere" o in stato di pendenza, suscettibile di perfezionamento attraverso la ratifica (cfr. Cass. n. 14618/10), oppure, secondo altra preferibile impostazione, come negozio non invalido né imperfetto, ma soltanto inefficace, quindi sottoposto alla condizione di efficacia della ratifica da parte del dominus (cfr. Cass. S.U. n. 11377/15, in motivazione).

Perché la ratifica possa fungere da condizione esterna di efficacia del contratto è tuttavia necessario che questo sia già completo di tutti gli elementi richiesti per la sua validità dall'art. 1325 cod. civ. e che l'unico ostacolo alla sua efficacia sia costituito dalla mancanza di poteri rappresentativi in capo a colui che lo ha sottoscritto in qualità di rappresentante, senza averne i poteri o eccedendo i limiti delle facoltà conferitegli, con conseguente difetto di legittimazione rappresentativa dello stipulante.

Diversa invece è la fattispecie in cui il contratto manchi di uno dei suoi elementi essenziali, tra i quali l'accordo delle parti.

Il contratto nullo non è ratificabile (cfr. già Cass. n. 1539/96, secondo cui «perché, a norma dell'art. 1399 cod.civ., possa darsi ratifica del contratto concluso dal rappresentante senza poteri, occorre che detto contratto sia valido; infatti la mancanza di procura rileva soltanto ai fini dell'efficacia del contratto, che rimane sospesa in attesa della manifestazione di volontà del "dominus"»).

2.1.- Nel caso in esame, in realtà, non risulta configurata né la prima né la seconda delle due fattispecie (cui rispettivamente si rifanno resistente e ricorrente). Trattasi piuttosto di contratto stipulato sotto nome altrui, pur se con la decisiva variante che il falso nome è stato usato da colui che ha agito come legale rappresentante della società, essendo questa indicata come parte contrattuale.

Infatti, è accertato che vi è stata la stipulazione di un contratto con sostituzione di persona ed usurpazione del nome del legale rappresentante della società, facendo così intestare a quest'ultima l'autovettura acquistata, ma al contempo gravando la società dell'obbligazione restitutoria del contratto di finanziamento stipulato a suo nome.

3.- Secondo una parte della dottrina, il contratto stipulato con usurpazione di nome altrui non è nullo, pur dividendosi poi i sostenitori di questo orientamento quanto all'imputazione soggettiva degli effetti. Per alcuni, questi vanno riferiti comunque all'autore della dichiarazione; per altri, vanno invece riferiti a colui del quale è stato indebitamente usato il nome. Pare tuttavia preferibile la tesi che distingue a seconda che l'autore della dichiarazione abbia voluto per sé il risultato del negozio, ovvero abbia inteso attribuirlo al titolare del nome usato, dovendosi procedere volta a volta ad una delicata operazione ermeneutica del comune volere dei contraenti.

Orbene, a determinate condizioni, il contratto sotto falso nome ben può essere inteso come riferito, sia dall'autore della dichiarazione che dalla sua controparte contrattuale, al vero portatore del nome e produrre effetti nei confronti di quest'ultimo, secondo lo schema della falsa rappresentanza.

3.1.- Secondo altre autorevoli opinioni dottrinali, il contratto stipulato dall'usurpatore di nome altrui sarebbe invece nullo per mancanza della volontà del soggetto cui la dichiarazione si attribuisce ovvero per mancanza dell'accordo delle parti, perché non vi sarebbe congruenza in ordine al contenuto delle due dichiarazioni di volontà. Pertanto, sarebbe esclusa in radice la possibilità della ratifica ai sensi dell'art. 1399 cod. civ., alla stregua del principio di diritto, sopra richiamato, per il quale non è mai ratificabile il contratto che manchi di uno dei suoi elementi essenziali.

Questo secondo orientamento è volto a tutelare, per un verso, il titolare del nome e, per altro verso, l'affidamento della controparte contrattuale, evidenziando come questa intanto presti il proprio consenso in quanto sia pienamente consapevole dell'identità dell'altro contraente, sicché la falsità di quest'ultima potrebbe comportare il venir meno di un elemento essenziale del contratto.

4.- Non è il caso di soffermarsi sulle critiche mosse a quest'ultima impostazione teorica -su cui si fonda il primo profilo di doglianza del ricorrente- poiché si ritiene che essa non possa comunque condurre alla statuizione di nullità del contratto di finanziamento, in una situazione quale quella di specie. La peculiarità del caso in esame è data dal fatto che il contratto di finanziamento non avrebbe potuto essere riferito al dichiarante quale persona fisica, risultando dal contratto medesimo che la destinataria del finanziamento era la società di capitali. L'usurpatore del nome, infatti, non ha riferito il contratto né a se stesso né alla persona fisica della quale ha usato falsamente il nome (nella specie, G); piuttosto, come detto, l'ha riferito alla società, imputando comunque a quest'ultima il contratto di finanziamento del prezzo di acquisto dell'autovettura.

Con la conseguenza che la banca finanziatrice ha prestato il suo consenso consapevole che il finanziamento veniva richiesto in nome e per conto di una società e reputando che questa fosse la persona giuridica finanziata.

La situazione finisce quindi per essere assimilabile ad una spendita indebita del nome del(legale rappresentante del)la società, come ritenuto dal giudice di merito. Con la precisazione, però, che l'ipotesi non è immediatamente riconducibile a quella della rappresentanza diretta, essendo tuttavia possibile l'applicazione in via analogica della relativa disciplina codicistica.

Quindi, la società, della quale è mancato il consenso ab origine, è tutelata con l'inefficacia del contratto di finanziamento, al quale è rimasta estranea.

4.1.- Inoltre, rileva la circostanza che il contratto di finanziamento non è un contratto formale. Con la conseguenza che la mancanza di sottoscrizione da parte del (vero) legale rappresentante non è determinante per l'esistenza del contratto nemmeno quanto all'onere della forma scritta.

5.- In una situazione siffatta, pur essendo possibile la ratifica da parte della società, questa avrebbe dovuto essere rinvenuta in atti od in comportamenti specificamente diretti ad avvalersi del contratto di finanziamento, provenienti dal legale rappresentante avente allo scopo adeguati poteri rappresentativi (cfr. Cass. n. 27335/05 e n. 20805/11, nel senso che nel caso di negozio concluso nel nome di una società, il comportamento dal quale possa inferirsi l'esistenza della ratifica deve provenire dall'organo istituzionalmente competente a provvedere su di essa).

Pertanto, il giudice di merito avrebbe dovuto previamente individuare la persona fisica, avente pieni poteri rappresentativi della società, in grado perciò di porre in essere detta ratifica, e quindi identificare gli atti o i comportamenti a questa persona fisica imputabili, idonei ad integrare ratifica del contratto di finanziamento, con portata recettizia anche nei confronti della controparte contrattuale.

5.1.- Non risulta affatto dalla sentenza che i giudici abbiano compiuto un accertamento di merito quale quello di cui si è appena detto. Piuttosto, si sono limitati a dare conto del fatto che la firma apposta in calce al contratto di finanziamento a nome di G fosse falsa; quindi, ne hanno ritenuto possibile la ratifica e si sono occupati della validità di quest'ultima soltanto in riferimento all'onere della forma contrattuale. Hanno, in particolare, reputato sufficiente una generica dichiarazione di riconoscimento dell'intestazione del bene alla società, senza preoccuparsi di verificare se provenisse dall'organo rappresentativo di quest'ultima e se contenesse l'intenzione di fare propri gli effetti del contratto di finanziamento stipulato sotto falso nome.

Ha pertanto ragione il ricorrente quando assume che il contratto di finanziamento non fosse originariamente riferibile alla società, per mancanza di consenso, e che, anche ritenendo che la società si potesse avvalere degli effetti, con una dichiarazione o con un comportamento successivi alla stipulazione, la ratifica non sarebbe certo potuta consistere in atti provenienti da soggetti diversi dal suo legale rappresentante.

Nei limiti di questa doglianza, il primo motivo di ricorso va accolto.



6.- Col secondo motivo si deduce "apodittico ed immotivato diniego di rinnovo della consulenza tecnica d'ufficio - omessa motivazione ed omesso esame circa un punto decisivo per la controversia in relazione all'art. 360 n. 3 e n. 5".

La ricorrente assume che la Corte d'appello avrebbe immotivatamente rifiutato il rinnovo della consulenza tecnica grafologica richiesta dall'appellante, malgrado le gravi lacune e gli errori in cui sarebbe incorso il consulente tecnico d'ufficio nominato nel primo grado di giudizio, che ha concluso per l'autenticità della sottoscrizione a nome di XXXX apposta al contratto di fideiussione.

6.1.- Il motivo è inammissibile.

Laddove denuncia il vizio di omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia non tiene conto della modifica apportata al n. 5 dell'art. 360 cod. proc. civ. dall'art. 54, comma 1 0 , lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, convertito nella legge n. 134 del 2012, che consente esclusivamente la denuncia di "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti».

Ai sensi dell'art. 54, comma terzo, del medesimo decreto, questa disposizione si applica alle sentenze pubblicate dal trentesimo giorno successivo a quello di entrata in vigore della legge di conversione del predetto decreto (pubblicata sulla G.U. n. 187 dell'il agosto 2012): quindi si applica alla sentenza impugnata, che è stata resa pubblica il 25 ottobre 2013.

Come chiarito dalle Sezioni Unite di questa Corte, «la riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce del canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione (Cass. n. 8053/14).

6.2.- Nel caso di specie, la motivazione non è mancante né apparente. Essa dà conto degli esiti della consulenza tecnica d'ufficio e del fatto che gli accertamenti e le conclusioni del consulente d'ufficio non risultano «efficacemente confutati> dal tecnico indicato dall'appellante; sottolinea peraltro che questi si è sottratto al contraddittorio tecnico, poiché non ha nominato un vero e proprio consulente tecnico di parte ma si è avvalso delle controdeduzioni di un perito, aventi natura di mere allegazioni difensive successive all'espletamento delle indagini peritali d'ufficio.

6.3.- Il motivo di ricorso in esame, che sostanzialmente riproduce queste allegazioni difensive, è inammissibile alla stregua sia del testo attualmente vigente dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come sopra interpretato, sia dell'orientamento per il quale «il giudice del merito, quando aderisce alle conclusioni del consulente tecnico che nella relazione abbia tenuto conto, replicandovi, dei rilievi dei consulenti di parte, esaurisce l'obbligo della motivazione con l'indicazione delle fonti del suo convincimento; non è quindi necessario che egli si soffermi anche sulle contrarie allegazioni dei consulenti tecnici di parte che, seppur non espressamente confutate, restano implicitamente disattese perché incompatibili con le conclusioni tratte. In tal caso, le critiche di parte, che tendano al riesame degli elementi di giudizio già valutati dal consulente tecnico, si risolvono in mere argomentazioni difensive, che non possono configurare il vizio di motivazione previsto dall'art. 360 n. 5 cod. proc. civ.>> (così Cass. n. 282/09 e ord. n. 1815/15).

7.- In conclusione, dichiarato inammissibile il secondo motivo e fermo perciò il contratto di fideiussione quanto alla validità formale, va accolto, come detto, il primo motivo -accoglimento, che resta di interesse per il fideiussore perché, decidendo della validità dell'obbligazione principale, garantita nei confronti della società, il giudice di rinvio dovrà decidere anche della validità della fideiussione in base al disposto dell'art. 1939 cod. civ. ed alle clausole in concreto inserite nel contratto stipulato tra il ricorrente e la società creditrice (il cui esame, attenendo al merito, non può essere svolto in via diretta da questa Corte, così come sostanzialmente richiesto col controricorso).

La sentenza impugnata va perciò cassata in relazione all'accoglimento del primo motivo e le parti vanno rimesse dinanzi alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, per la decisione in merito alla sussistenza in concreto di atti di ratifica del contratto di finanziamento provenienti dal legale rappresentante della società, nonché in merito alla validità del contratto di fideiussione.

Si rimette al giudice di rinvio anche la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.

Per questi motivi

La Corte dichiara inammissibile il secondo motivo di ricorso; accoglie il primo per quanto di ragione, cassa la sentenza impugnata nei limiti di questo accoglimento e rinvia alla Corte di Appello di Torino, in diversa composizione, anche per la decisione sulle spese del giudizio di cassazione.


Così deciso in Roma, il 12 luglio 2016.

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