LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLETANO Giuseppe – Presidente –
Dott. CURCIO Laura – Consigliere –
Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –
Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 24372/2012 proposto da:
I.L., C.F. *****, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A KIRCHER 7, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA IASONNA, rappresentata e difesa dall’avvocato GIOVANNI ITRO, giusta delega in atti;
– ricorrente –
contro
POSTE ITALIANE S.P.A., *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE EUROPA 190 presso la Direzione Affari Legali di POSTE ITALIANE, rappresentata e difesa dagli avvocati ANNA TERESA LAURORA e ROBERTA AIAZZI, giusta delega in atti;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 2635/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 18/05/2012 R.G.N. 5592/08;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/07/2017 dal Consigliere Dott. GIUSEPPINA LEO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SANLORENZO Rita, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato GIOVANNI ITRO.
FATTI DI CAUSA
La Corte territoriale di Napoli, con sentenza depositata il 18.5.2012, respingeva l’appello interposto da I.L., nei confronti di Poste Italiane S.p.A., avverso la sentenza del Tribunale di Benevento che aveva accolto il ricorso, “per quanto di ragione”, con il quale la I., dipendente della predetta società, assunta con mansioni riconducibili alla IV qualifica funzionale, chiedeva che fosse ordinato alla datrice di lavoro di inquadrarla nell’Area Operativa del CCNL 1994/1997, con decorrenza dal 13.12.1995 e nel corrispondente livello C del nuovo CCNL dall’1.1.2004, con conseguente condanna della società al pagamento delle differenze retributive a far data dal 13.12.1995, nonchè al risarcimento del danno professionale e di quello biologico subiti in conseguenza del dedotto demansionamento.
Per la cassazione della sentenza ricorre la I. articolando tre motivi cui resiste Poste Italiane S.p.A. con controricorso.
Il Collegio ha autorizzato la redazione della motivazione in forma semplificata.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo si deduce, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2103,1226 e 2697 c.c., ed in particolare, si lamenta che i giudici di merito avrebbero erroneamente ritenuto che i dedotti danni, professionale e biologico, fossero sforniti di prova e che non avrebbero considerato che, sino al 2002, epoca in cui la società datrice aveva consentito alla dipendente di svolgere, di fatto e con precisi ordini di servizio ben scadenzati, mansioni rientranti nell’Area Operativa, la I. era stata costretta a svolgere mansioni inferiori a quelle per cui era stata assunta; dalla qual cosa sarebbe derivato il danno professionale derivante dall’impoverimento della capacità professionale ovvero dalla perdita di chances, a causa dell’ingiusta permanenza per più di sette anni nell’Area di base. Tale evidente danno, a parere della ricorrente, avrebbe dovuto essere risarcito ai sensi dell’art. 1226 c.c..
2. Con il secondo motivo si censura la sentenza impugnata, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per “contraddittorietà della motivazione sulla domanda di risarcimento del danno professionale e del danno biologico conseguenti al declassamento” e si assume che il demansionamento si sia protratto per oltre sette anni, essendo solo di fatto cessato nel 2002, ed altresì che, in quanto consistente nell’assegnazione della lavoratrice a mansioni rientranti nell’Area di base prevista dall’art. 42 del CCNL 1994/1997 (cui si accedeva con diploma di licenza media inferiore e che comprendeva attività semplici richiedenti conoscenze elementari), avrebbe inevitabilmente inciso negativamente sulla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa acquisita nella qualifica funzionale di appartenenza corrispondente all’Area Operativa (cui si accede con titolo di studio di livello superiore).
3. Con il terzo mezzo di impugnazione si denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2103,2043,2056,1226,2087 e 2697 c.c., e artt. 1 e 2 Cost., ed ancora si lamenta che i giudici di prima e di seconda istanza non abbiano accolto la domanda di risarcimento del danno professionale e di quello biologico perchè non sarebbe stata allegata alcuna circostanza, se non un mero declassamento, idonea a dimostrare il pregiudizio patito, specificandone la natura e la tipologia. E ciò, a parere della ricorrente, non può che configurare la violazione delle norme innanzi citate, poste a tutela del lavoratore, in quanto i giudici di merito avrebbero dovuto desumere dal demansionamento l’esistenza del relativo danno in base agli elementi di fatto relativi alla durata della qualificazione e ad altre circostanze del caso concreto, potendo procedere ad un’autonoma valutazione equitativa del danno.
4. I motivi, da trattare congiuntamente, stante l’evidente connessione, non sono fondati.
Invero, i giudici di seconda istanza sono pervenuti alla decisione impugnata in questa sede, uniformandosi ai consolidati arresti giurisprudenziali di questa Corte, alla stregua dei quali, in tema di demansionamento e di dequalificazione professionale, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale e biologico non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. n. 5237/2011).
Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene perchè possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del danno stesso. Al riguardo, il Giudice delle leggi ha chiarito (v. sent. n. 372/1994) che neppure il danno biologico è presunto, perchè se la prova della lesione costituisce anche la prova dell’esistenza del danno, occorre tuttavia la prova ulteriore dell’esistenza dell’entità del danno, ossia la dimostrazione che la lesione ha prodotto una perdita di tipo analogo a quello indicato dall’art. 1223 c.c., costituita dalla diminuzione o privazione di un valore personale (non patrimoniale) alla quale il risarcimento deve essere commisurato.
Nello stesso senso questa Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012).
Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonchè il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013; 14158/2011; 29832/2008).
Facendo corretta applicazione dei principi enunciati, i giudici di merito hanno motivatamente disatteso le pretese della lavoratrice, perchè sfornite di prova, ritenendo correttamente non sufficiente al fine della liquidazione del danno biologico e di quello professionale, la sola dequalificazione dedotta dalla I..
5. Per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va rigettato.
6. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Così deciso in Roma, il 11 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 10 ottobre 2018
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