Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.25369 del 12/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

Dott. SPAZIANI Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19528-2015 proposto da:

M.P., considerato domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO SIRACUSA giusta procura speciale notarile;

– ricorrente –

contro

SOCIETA’ CATTOLICA ASSICURAZIONE SCARL, in persona del suo Procuratore Speciale Dott. B.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE FORNACI 38, presso lo studio dell’avvocato FABIO ALBERICI, che la rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

e contro

ISTITUTO NAZIONALE PER L’ASSICURAZIONE CONTRO GLI INFORTUNI SUL LAVORO *****, DI GRAZIA GAETANO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 52/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO, depositata il 30/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 24/01/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI.

FATTI DI CAUSA

1. M.P. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Palermo n. 52/15, del 30 gennaio 2015, che – accogliendo parzialmente il gravame esperito dalla società Cattolica di Assicurazione Società Cooperativa a.r.l. (d’ora in poi, “Cattolica”) contro la sentenza del Tribunale di Palermo n. 879/11, del 24 febbraio 2011 – ha respinto la domanda risarcitoria proposta dall’odierno ricorrente, condannandolo a pagare all’appellante la somma di Euro 21.114,12, somma che, riconosceva essere stata corrisposta dalla Cattolica in eccesso, in relazione al sinistro stradale occorso ad esso M. il *****, nel capoluogo siciliano.

2. Riferisce, in punto di fatto, il ricorrente di essere stato vittima di investimento – nelle circostanze di tempo e di luogo sopra meglio precisate – mentre attraversava, a piedi, la via *****, e di aver pertanto convenuto in giudizio, per il risarcimento dei danni conseguenti alle lesioni personali subite, il conducente del veicolo investitore, D.G.G., e la società Cattolica, assicuratrice del mezzo per la “RCA”.

Costituitasi in giudizio – svoltosi nelle forme di cui alla L. 21 febbraio 2006, n. 102, art. 3 – la società Cattolica, essa chiedeva, in via riconvenzionale, il rimborso della somma di Euro 21.233,79 già pagata al M. dall’INAIL. In subordine, chiedeva ritenersi satisfattiva delle pretese attoree la somma di Euro 47.000,00, di cui Euro 43.000,00 per sorte, già corrisposta allo stesso attore, al netto dell’importo di Euro 21.233,79, già versato dall’INAIL.

Interveniva in giudizio – per quanto ancora di interesse – anche l’INAIL, per chiedere la condanna, in solido, del D.G. e della Cattolica al rimborso, ex art. 1916 cod. civ., della suddetta somma di Euro 21.233,79, quale costo delle prestazioni erogate al M. in dipendenza dell’infortunio subito.

All’esito del primo giudizio, l’adito Tribunale accoglieva la domanda attorea, condannando la società Cattolica al pagamento, in favore del M., della somma complessiva di Euro 54.941,41, oltre interessi, nonchè al pagamento, in favore dell’INAIL, di Euro 21.233,79, ponendo, infine, a carico della stessa anche le spese di lite.

Proposto gravame dalla Cattolica, la Corte panormita lo accoglieva – sul presupposto che l’attore avesse fornito tardiva dimostrazione del danno da riduzione della capacità lavorativa specifica – e, per l’effetto, rideterminato l’importo dovuto al M., lo condannava a restituire all’appellante la somma di Euro 21.114,12.

3. Avverso la sentenza della Corte di Appello di Palermo ha proposto ricorso il M., sulla base di due motivi.

3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – ipotizza “nullità ed illegittimità della sentenza per la violazione dell’art. 421 c.p.c., comma 2”, e ciò “per la dichiarata inammissibilità della prova documentale in quanto tardiva”, relativamente “alla mancata liquidazione della incapacità lavorativa specifica”.

Rileva il ricorrente che il giudice di appello, accogliendo il motivo di gravame della società Cattolica, ha ritenuto tardiva la produzione documentale, effettuata da esso M. a fondamento della propria domanda di risarcimento del danno da riduzione della capacità lavorativa specifica (ed attestante l’avvenuto mutamento, a far data dal 1 giugno 2009, del rapporto di lavoro intrattenuto, in qualità di autista, con la ditta Evola Motori S.p.a., da “a tempo pieno” a “a tempo parziale”), giacchè non effettuata nella prima udienza successiva a detta data.

Sul rilievo che il giudizio risarcitorio da esso instaurato si è svolto nelle forme del rito del lavoro, il ricorrente rileva che la decadenza prevista in caso di mancato deposito dei documenti, contestualmente al ricorso a fondamento del quale essi sono prodotti, conosce eccezione in due casi: quando sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale, ovvero, allorchè essi siano reputati dal giudice, nell’esercizio dei suoi poteri officiosi di ammissione dei nuovi mezzi di prova, indispensabili ai fini della decisione. Orbene, la prima di tali evenienze sussisterebbe – a dire del ricorrente – nel caso di specie, se è vero, da un lato, che il suddetto mutamento del rapporto lavorativo è sopravvenuto in corso di causa e che, dall’altro, la produzione documentale è stata giustificata dalla decisione del giudice (dopo che si era inizialmente orientato per ritenere la causa sufficientemente istruita e, dunque, già pronta per la discussione) a dare corso a CTU medico-legale.

3.2. Il secondo motivo – proposto sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), – ipotizza “nullità ed illegittimità della sentenza” per “violazione degli artt. 3 e 32 Cost. e dell’art. 2043 cod. civ.”, e ciò, nuovamente, con riferimento “alla mancata liquidazione della incapacità lavorativa specifica”.

Si contesta, in particolare, l’affermazione della sentenza impugnata secondo cui (a prescindere dalla sua tardiva, inammissibile produzione), la documentazione versata in giudizio – consistente sia nella comunicazione, al Ministero del Lavoro, dell’avvenuta trasformazione del rapporto lavorativo, sia nelle “buste paga” ad esso relative – non proverebbe che il passaggio dal lavoro “a tempo pieno” a quello “parziale” fosse stato necessitato “dalla ridotta capacità lavorativa in conseguenza dell’incidente”.

Tale affermazione – oltre a non essere giustificata sulla base delle conclusioni del CTU – contravverrebbe al principio secondo cui la prova della perdita (o della riduzione) della capacità lavorativa specifica può essere fornita anche presuntivamente.

4. Ha resistito con controricorso la società Cattolica, chiedendo il rigetto dell’avversaria impugnazione, della quale ha, peraltro, eccepito preliminarmente l’inammissibilità, per difetto di procura speciale, essendo la stessa priva di “elementi essenziali del giudizio quali l’indicazione delle parti e della sentenza impugnata”.

L’inammissibilità del ricorso del M., inoltre, è eccepita sul rilievo che lo stesso difetterebbe di autosufficienza, recando, inoltre, motivi privi di specificità, e dunque non conformi al modello delineato dall’art. 360 cod. proc. civ..

Quanto ai singoli motivi, l’infondatezza del primo viene argomentata evidenziando che il M. ha lamentato il danno da riduzione della capacità lavorativa solo in sede di svolgimento delle operazioni peritali, pur essendo la trasformazione del rapporto di lavoro anteriore al loro inizio, producendo in giudizio la relativa documentazione della quale era, però, in possesso da almeno un anno, lungo il quale si erano svolte ben tre udienze innanzi al giudice di prime cure.

Del secondo motivo, invece, si assume l’infondatezza sul rilievo che la dimostrazione del danno da riduzione della capacità lavorativa specifica presuppone la prova che il “soggetto leso svolgesse una attività lavorativa produttiva di reddito e che, in conseguenza del sinistro abbia subito effettivo, documentabile, decremento patrimoniale”. Si tratterebbe, peraltro, di onere probatorio da assolvere “attraverso l’esibizione dei documenti fiscali oppure attraverso altri congrui mezzi di prova, esclusa comunque la possibilità di liquidazioni equitative o basate su presunzioni semplici”.

5. Ha presentato memoria il ricorrente, tramite il nuovo difensore, insistendo nelle proprie argomentazioni, corredandole con richiami giurisprudenziali (è citata, in particolare, Cass. Sez. Lav., sent. 7 luglio 2017, n. 16835).

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. In via preliminare, deve rigettarsi l’eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di valida procura speciale.

6.1. Sul punto va richiamato il principio secondo cui il “requisito della specialità della procura, stabilito per il giudizio di cassazione dall’art. 365 cod. proc. civ., assolve all’esigenza che la volontà della parte di impugnare la sentenza attraverso il ricorso per cassazione si formi tenendo conto della decisione oggetto del ricorso e, perciò, dopo che questa è stata pronunciata e con specifico riferimento ad essa. Ne consegue che la procura apposta a margine del ricorso per cassazione e conferente il mandato difensivo “nel presente giudizio innanzi alla Corte di cassazione”” (come avvenuto nel caso che qui occupa) “soddisfa quella esigenza, posto che l’intestazione del ricorso indica la sentenza oggetto dell’impugnazione, mentre dalla considerazione della data di notificazione del ricorso stesso emerge, in relazione alla data della sentenza, che la procura, proprio in quanto apposta sul ricorso, è stata conferita successivamente alla pronuncia della sentenza” (cfr. Cass. Sez. Lav., 1 marzo 2003, n. 3069, Rv. 560775-01).

7. Ciò posto, il ricorso va rigettato.

7.1. Il primo motivo di ricorso non è fondato.

7.1.1. Non giova, infatti, al ricorrente – per le ragioni di seguito illustrate – il richiamo al consolidato principio secondo cui, “nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416 c.p.c., comma 3, che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sull’attore per il principio di reciprocità fissato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 13 del 1977 – e art. 437 c.p.c., comma 2, che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova”, l’omessa indicazione, “nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti, e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti stessi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione” (così Cass. Sez. Un., sent. 20 aprile 2005, n. 8202, Rv. 580935-01; in senso conforme, da ultimo, ex multis, Cass. Sez. Lav., sent. 18 maggio 2015, n. 10102, Rv. 635548-01; Cass. Sez. Lav., sent. 28 agosto 2013, n. 19810, Rv. 628265-01).

Invero, questa Corte, con riferimento ad un caso connotato da profili di somiglianza con quello presente, ha precisato che eventuali documenti sopravvenuti in corso di causa, utili allo svolgimento di consulenza tecnica d’ufficio, “avrebbero potuto e dovuto essere prodotti nella prima udienza o risposta successiva, e comunque entro l’udienza di nomina del CTU” (Cass. Sez. Lav., sent. 2 febbraio 2009, n. 2577, in motivazione), ciò che esclude la ritualità della produzione effettuata dall’odierno ricorrente, atteso che il medesimo – per sua stessa ammissione – ha effettuato tale produzione all’udienza del 23 settembre 2010, ovvero ad un anno di distanza da quella tenutasi (il 24 settembre 2009) per il conferimento dell’incarico al consulente, udienza, comunque, successiva alla trasformazione del rapporto di lavoro, avvenuta il 1 giugno 2009.

7.1.2. D’altra parte, una diversa opzione – che legittimi la produzione anche in un’udienza (o risposta) diversa da quella immediatamente successiva alla sopravvenienza del documento finirebbe con il contraddire la “ratio” sottesa al sopra ricordato arresto delle Sezioni Uniti di questa Corte.

Esse, infatti, nel sottolineare come “nel rito del lavoro si riscontri tra oneri di allegazione, oneri di contestazione ed oneri di prova una indubbia circolarità, con reciproco condizionamento”, hanno messo in guardia dal rischio di “introdurre incoerenze sistematiche, sicuramente riscontrabili in una ricostruzione della dinamica processuale che, a fronte di una estrema rigorosità nella determinazione del tempi di indicazione (precisazione o modificazione) degli elementi (di fatto e di diritto) posti a base della domanda, e delle eccezioni (processuali e di merito) della controparte”, finisca, invece, “per avallare opzioni ermeneutiche volte – senza un sicuro approdo a chiari precetti normativi – ad affrancare le produzioni documentali da preclusioni operative per tutte le restanti prove” (così, in motivazione, Cass. Sez. Un., sent. n. 8202 del 2005, cit.).

Nè in senso contrario può invocarsi il potere officioso, in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ex artt. 437 e 421 cod. proc. civ. (e l’esigenza ad esso sottesa di consentire più ampi margini di intervento nella ricerca della “verità materiale”), spettante al giudice che sia chiamato a celebrare il giudizio nelle forme del rito del lavoro.

Difatti, questa Corte – e tra l’altro proprio con la sentenza citata dal ricorrente nella sua memoria – ha sottolineato come “la corretta esplicazione del potere officioso”, esclude che esso possa “assumere funzione investigativa o totalmente sostituiva dell’onere di allegazione e di prova, con alterazione del regolare funzionamento dell’iter processuale, della parità delle armi tra le parti, della garanzia del contraddittorio” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 7 luglio 2017, n. 16835, Rv. 644872-01, non massimata sul punto).

7.2. Il secondo motivo di ricorso resta assorbito dal rigetto del primo.

7.2.1. Trova applicazione il principio secondo cui “qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l’una dall’altra, e ciascuna da sola idonea a supportare il relativo “dictum”” (come, nella specie, giacchè la questione relativa alla possibilità di trarre elementi presuntivi dalla documentazione prodotta in giudizio, ma ritenuta inammissibile perchè tardiva, presuppone che della stessa fosse riconosciuta, invece, l’ammissibilità), “la resistenza di una di esse all’impugnazione rende del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perchè l’eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta” (cfr. Cass. Sez. Lav., sent. 10 febbraio 2017, n. 3633, Rv. 643086-01).

8. Le spese del presente giudizio vanno poste a carico del ricorrente e sono liquidate come da dispositivo.

9. A carico del ricorrente, rimasto soccombente, sussiste l’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condannando M.P. a rifondere alla società Cattolica di Assicurazioni Cooperativa a.r.l. le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 5.600,00, più Euro 200,00 per esborsi, oltre spese forfetarie nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, all’esito di adunanza camerale della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 24 gennaio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 ottobre 2018

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