Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.26473 del 19/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – Consigliere –

Dott. DE GREGORIO Federico – rel. Consigliere –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 10410-2013 proposto da:

F.M., *****, elettivamente domiciliato in ROMA, preso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato VINCENZO RICCARDI, giusta procura in atti;

– ricorrente –

contro

ALLIANZ BANK FINANCIAL ADVISOR S.P.A. (già Rasbank), in persona dei legali rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NOMENTANA 257, presso lo studio dell’avvocato ANDREA CIANNAVEI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato FEDERICO SQUASSI, giusta procura in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 4034/2012 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI, depositata il 04/07/2012, r.g. n. 6010/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 06/03/2018 dal Consigliere Dott. FEDERICO DE GREGORIO;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FINOCCHI GHERSI Renato, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

FATTI di CAUSA

Con ricorso in data 11 marzo 2005 F.M., premesso che aveva sottoscritto in data 13 settembre 1994 contratto di agenzia con la DIVAL SIM S.p.a., trasformata in RAS-BANK, quale promotore finanziario; che aveva raggiunto tutti gli obiettivi fissati per cui era stato nominato team manager; che aveva sempre proficuamente svolto il compito assegnatogli; che in data 24 novembre 2003 aveva aderito alle richieste pervenutegli dal regional manager (dottor C.); che in data 13 gennaio 2004 gli era stata comunicata la revoca del mandato di promotore finanziario con sei mesi di preavviso, successivamente ridotti; che in data 14 giugno 2004 la società gli aveva corrisposto tramite bonifico bancario la somma di Euro 31 mila 762,55; che, per contro, aveva diritto al pagamento di Euro 108.304,16 a titolo di indennità ex art. 1751 c.c., di Euro 3598,61 a titolo di provvigioni per il mese di marzo 2004 e di 37.552,26 a titolo di indennità sostitutiva di preavviso, di Euro 423,26 a titolo di FIRR, così per un totale di Euro 149.887,36, da cui andava però detratta la somma di Euro 65.670,28 già corrisposta, donde il credito per la differenza pari a Euro 84.217,08; che, inoltre, aveva diritto all’indennità premiali di Euro 11.923,72 per il c.d. premio di fedeltà, di Euro 6567,09 per il piano di fidelizzazione, di Euro 181 mila 388,84 per la valorizzazione del portafoglio, nonchè di Euro 51 mila 210 per stock options, oltre al rimborso a titolo di costi sostenuti per la creazione e gestione di una struttura operante in nome per conto della società preponente, la quale se ne era avvantaggiata quantomeno ai sensi dell’art. 2041 c.c., in ragione di Euro 118.168,43; che a causa del recesso ad nutum della Banca aveva patito un danno economico di Euro 220.000 per le provvigioni improvvisamente venute a mancare, un danno all’immagine per le sopravvenute difficoltà a contattare altre società, pari a Euro 200.000, un danno biologico ed esistenziale da sindrome ansioso depressiva, per effetto dell’anzidetto recesso, quantificabile nella misura di Euro 200.000; tanto premesso, il F. conveniva in giudizio la società RAS BANK per ottenerne la condanna al pagamento della somma complessiva di 1.003.774,35 Euro, oltre accessori di legge, e la regolarizzazione della sua posizione contributivo-previdenziale, ovvero in mancanza, il risarcimento del relativo danno.

Si costituiva in giudizio per la parte convenuta la S.p.a. ALLIANZ BANK FINANCIAL ADVISORS, resistendo alle pretese avversarie ed eccependo che il periodo di preavviso era stato ridotto dietro pagamento dell’indennità sostitutiva in ragione di 31 mila 762,55 Euro, di modo che nulla più competeva al ricorrente, il quale peraltro fin dal 31 dicembre 2004 risultava iscritto all’albo dei promotori finanziari della Banca Generali S.p.A.. Di conseguenza, la convenuta spiegava anche domanda riconvenzionale volta alla restituzione di un prestito elargito all’attore, pari ad Euro 27.615,26 oltre accessori.

Con sentenza del 25 giugno 2008 l’adito giudice del lavoro di Napoli rigettò la domanda principale ed accolse quella riconvenzionale, con la condanna inoltre dell’attore al pagamento delle spese di lite.

Tale decisione fu impugnata mediante ricorso del 25 giugno 2009 da F.M., il cui gravame veniva poi respinto dalla Corte di Appello di Napoli, come da pronuncia n. 4034 in data 12 giugno 2012, pubblicata il 4 luglio 2012.

Quest’ultima sentenza è stata, quindi, impugnata con ricorso per cassazione del 16 aprile 2013 dal dottor F.M., affidato a quattro motivi (peraltro non numerati), cui ha resistito la società, già convenuta appellata, mediante controricorso.

In seguito, le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c. in vista della pubblica udienza, inizialmente fissata per l’undici gennaio 2018, poi di nuovo fissata per il successivo sei marzo.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo il ricorrente ha denunciato violazione o falsa applicazione (art. 360 c.p.c., n. 3) di norme di diritto, in particolare dell’art. 1751 c.c., osservando innanzitutto che andava distinta la funzione di agente – promotore finanziario, da quella di district manager, quest’ultima accessoria dell’altra, laddove tuttavia le due attività avevano compiti e caratteristiche differenti, sicchè andavano valutate separatamente.

Inoltre, il ricorrente, quale agente – promotore finanziario, evidenziava come avesse iniziato l’attività senza alcun cliente nel proprio portafoglio, avendo lasciato poi 159 clienti.

Tuttavia, l’impugnata sentenza ha rilevato che con il ricorso introduttivo non vi era stata rituale allegazione dei documenti sui quali parte attrice aveva fondato le sue pretese creditorie. Inoltre, secondo la Corte d’Appello, in seguito al recesso il ricorrente avrebbe portato con sè la clientela, passando nel dicembre 2004 ad operare come agente presso altra società, di modo che nessun concreto vantaggio economico sarebbe rimasto acquisito al patrimonio della preponente.

Con il secondo motivo è stata dedotta la omessa, insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa l’art. 2 del contratto di agenzia sottoscritto dalle parti in relazione al mancato riconoscimento delle spese sostenute per il negozio finanziario allestito dal ricorrente (sembra che il vizio sia stato denunciato quindi ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ancorchè il ricorso sul punto non abbia indicato alcun riferimento normativo, ma d’altro canto con carente allegazione ex art. 366 c.p.c., comma 1, segnatamente sub n. 6, non essendo stato comunque adeguatamente riprodotto il testo del contratto di agenzia, nè tantomeno per intero il succitato art. 2, concernente l’incarico accessorio e collaterale pertanto revocabile, di assistenza commerciale e di supervisione sull’attività di altri agenti, quale district manager per gli anni 2001/2004).

Secondo il ricorrente, l’esistenza del centro di promozione finanziaria andava ben oltre l’assistenza commerciale e la supervisione prevista dal suddetto incarico accessorie, come in tal sensi poteva evincersi dalle richiamate testimonianze (trattasi a ben vedere di diversa valutazione delle risultanze probatorie acquisite rispetto, invece, a quanto opinato sulle medesime risultanze dalla Corte di merito, la quale peraltro riteneva che si trattava di spese spettanti come per legge e come da contratto all’agente).

In proposito il ricorrente ha richiamato tra l’altro la circolare “regolamento incentivazioni uffici” della società resistente in data 29 dicembre 2004 per differenziare le due tipologie di incarichi espletati, ma tale documento, risalendo appunto dicembre del 2004, è quindi anche chiaramente posteriore alla cessazione del rapporto contrattuale del proprio, avvenuta per effetto del recesso di cui alle comunicazioni di parte preponente pervenute in data 13 gennaio e 16 marzo 2004.

Con il terzo motivo l’impugnata pronuncia è stata censurata per omessa e/o insufficiente e/o contraddittoria motivazione circa il mancato riconoscimento del premio di fedeltà, della valorizzazione del portafoglio sia quale promotore che quale district manager, piano di fidelizzazione e infine stock options – istituti premiati dei quali, a causa della revoca ad nutum, l’attore non aveva potuto beneficiare – benefit e incentivazioni trasmessi agli agenti comma del regolamento per il quale non era stata chiesta alcuna firma da parte degli stessi beneficiari, essendo stati presentati come tratto distintivo dell’offerta della resistente e non negoziabili.

In proposito la doglianza, inquadrabile nell’ambito della previsione di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ad ogni modo non contiene alcuna precisa indicazione del “fatto” non esaminato dal giudice di merito.

La doglianza appare altresì inammissibile ai sensi all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, non riproducendo compiutamente ed in un solo organico contesto il testo delle fonti contrattuali di riferimento, in relazione alle quali l’attore accampa le sue pretese, non essendo consentito il mero rinvio per relationem ad altri atti, la cui produzione (art. 369 c.p.c.) è finalizzata ad eventuali opportune verifiche da parte della Corte di legittimità, subordinata però ad indispensabile previa esauriente allegazione.

Con il 4 motivo è stata denunciata la omessa e/o insufficiente motivazione e/o contraddittoria circa la revoca ad nutum (del mandato) di cui al contratto di promotore finanziario.

Si lamenta, in sostanza, il recesso da parte della preponente, siccome ritenuto ingiustificato, mentre la sentenza di appello ha trattato comunque specificamente detta questione, chiarendo come il contratto de quo prevedesse la libera facoltà di recesso, ma con preavviso, giudicando dunque del tutto legittima la revoca ad nutum del mandato, per cui non occorreva alcuna motivazione o giustificazione, escludendo così, ancorchè implicitamente, ogni possibile ipotesi di recesso non giustificato. La censura, di conseguenza, si appalesa inammissibile, non solo in quanto volta a contrastare le valutazioni di merito in proposito compiute dalla Corte distrettuale, ma anche perchè non individua in alcun modo il “fatto” decisivo pretermesso, rilevante ai sensi del citato art. 360 c.p.c., n. 5, non rilevando per contro in proposito l’asserita malafede della preponente, nè le prospettate questioni in tema di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., nemmeno in tema di un preteso abuso del diritto di recesso, le cui circostanze ad ogni modo difettano di autosufficienza, ex art. 366 c.p.c., comma 1, a causa di carenti complete ed ordinate allegazioni. D’altro canto, va evidenziato come la Corte di merito abbia nella specie, inoltre, escluso inadempienze e fatti illeciti tali da poter giustificare pretese risarcitorie.

Invero, la Corte partenopea, nel richiamare quanto dedotto dall’appellante a pagina 13 del relativo ricorso, osservava che già nella memoria di costituzione di primo grado la società convenuta aveva chiarito che la risoluzione del rapporto di agenzia era avvenuta ad nutum e non per giusta causa, ciò che trovava riscontro nel contratto di agenzia in data 28 settembre 1994 all’art. 9. Di conseguenza, le parti contraenti avevano pattuito che il rapporto si sarebbe potuto risolvere ad nutum su iniziativa dell’agente, ovvero della società mandante, previo pagamento di un’indennità di preavviso, pattuizione che doveva ritenersi del tutto valida, non esistendo a favore dell’agente alcuna previsione legale di stabilità del rapporto.

Tanto premesso, quanto alle doglianze relative al mancato riconoscimento dell’indennità di risoluzione ex art. 1751 c.c., la Corte distrettuale osservava che il primo giudicante aveva rigettato la domanda in base all’accordo economico collettivo del 1988, mancando ad ogni modo la prova dell’incremento della clientela sicchè nemmeno poteva trovare applicazione della disciplina codicistica. La Corte territoriale, pur correggendo detta motivazione, osservava e comunque le emergenze istruttorie non consentivano l’accoglimento la domanda di indennità di risoluzione del rapporto ex art. 1751. Doveva escludersi che la disciplina richiamata nel contratto di agenzia potesse applicarsi direttamente all’agente, dovendo pur sempre operarsi una comparazione tra la stessa disciplina e quella prevista dall’art. 1751 cit. codice al fine di valutare quale fosse il trattamento più vantaggioso per l’agente, comparazione però non più operabile ex ante, alla stregua della citata giurisprudenza comunitaria e di legittimità. Pertanto, la comparazione tra il trattamento di fine rapporto previsto dagli accordi individuali o collettivi e quello disciplinato dall’art. 1751 c.c. andava eseguita ex post, con riguardo alla specifica posizione individuale dell’agente, al fine di verificare il trattamento più favorevole. Nel caso di specie la comparazione tra il trattamento di cui all’accordo economico collettivo del 1988 e quello previsto dall’art. 1751 presupponeva l’applicabilità al F. di tale ultima disciplina e quindi la ricorrenza dei presupposti richiesti dalla norma codicistica, ciò che tuttavia non sussisteva. Infatti, nel caso in esame non era stata fornita la prova di alcuna delle tre condizioni richieste dall’art. 1751, ed in particolare la persistenza di sostanziali vantaggi per la preponente, dopo la cessazione del rapporto, dagli affari procurati dall’agente. Innanzitutto, doveva rilevarsi la mancata allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, di circostanze di fatto relative al raggiungimento, da parte del F., di un aumento di clientela, di un incremento di affari e di permanere di tali incrementi dopo la cessazione del rapporto. Inoltre, nel ricorso introduttivo non vi era stato alcuno specifico riferimento ai documenti però indicati dall’appellante soltanto in sede di gravame a conferma del raggiungimento degli obiettivi richiesti dall’art. 1751. Pertanto, in assenza di un’allegazione specifica contenuta nel ricorso introduttivo, non era addebitabile alcuna superficialità di valutazione al primo giudicante, non essendo quest’ultimo tenuto ad esaminare la documentazione se non nei limiti delle allegazioni di parte attrice. Peraltro, la società resistente nella sua memoria difensiva di primo grado aveva comunque contestato la ricorrenza delle condizioni di cui all’art. 1751 c.c., pur non avendo uno specifico onere di contestare documenti non precisamente indicati dalla controparte a sostegno delle sue pretese. Di conseguenza, non poteva fondatamente sostenersi che i documenti di provenienza dell’appellante e da quest’ultimo indicati, siccome non contestati, fornissero la prova dell’incremento di clientela durante il periodo considerato. Quanto poi alle risultanze istruttorie, a parte le contrastanti deposizioni all’uopo individuate in ordine ai risultati raggiunti dal F. in termini di produttività, in ogni caso, come correttamente evidenziato dal primo giudice, neppure i testi di parte ricorrente erano stati in grado di precisare in quali termini si fosse verificato un incremento di fatturato. Ad ogni modo, secondo la Corte d’Appello, mancava la prova del godimento da parte del preponente dei vantaggi derivanti dall’incremento degli affari procurato dall’agente in epoca successiva alla cessazione del rapporto, requisito che, a fronte per giunta di una specifica contestazione da parte convenuta (secondo cui i clienti acquisiti dal F. lo avevano poi seguito nella nuova società), andava provato dall’attore, laddove d’altro canto risultava pacifico, in quanto ammesso dallo stesso F., lo svolgimento in epoca successiva alla cessazione del rapporto di agenzia dell’attività di promotore finanziario presso altra società, di guisa che non poteva escludersi i clienti acquisiti durante il periodo precedente avessero poi seguito lo stesso F. presso la Banca Generali S.p.a.. Pertanto, l’appellante, sul quale incombeva il relativo onere, non aveva dimostrato la sussistenza delle condizioni richieste per l’applicazione dell’art. 1751 c.c., sicchè doveva ritenersi più favorevole il trattamento stabilito dall’AEC del 1988, già percepito dal F..

Quanto, poi, alla richiesta di rimborso delle spese sostenute per il centro di promozione finanziaria, avuto pure riguardo ai documenti indicati dall’appellante, gli stessi ad ogni modo non risultavano sufficienti per poter fondare il diritto al rimborso dei costi sopportati per la gestione di tali centri, nè sotto il profilo del regolamento contrattuale e neppure sotto il profilo dell’ingiustificato arricchimento. Infatti, in base all’art. 1748 c.c., u.c. le spese sopportate in virtù del rapporto di agenzia sono a carico dell’agente, disciplina peraltro nello specifico confermata nel contratto di agenzia in questione all’articolo sette, laddove era previsto il rimborso, da parte della società, delle sole spese non concordate oppure per legge non facenti carico all’agente. Nè risultava dagli atti di causa che a seguito della nomina del F. a district manager fosse stata conclusa tra le parti una diversa pattuizione in tema di spese derivanti dal rapporto di agenzia. Quanto, poi, all’azione di indebito arricchimento ex art. 2041 c.c. la Corte distrettuale correttamente (nei sensi di cui all’art. 2042 c.c., atteso il carattere sussidiario della stessa), osservava che in presenza di una disciplina legale contrattuale specifica (in base alla quale le spese sostenute per il rapporto de quo erano a carico dell’agente), l’eventuale arricchimento della società mandante non si sarebbe mai potuto considerare indebito e senza causa, poichè conseguente alla suindicata disciplina. In ogni caso, per le ragioni specificamente indicate il F. non aveva fornito la prova dell’arricchimento della società mandante.

Parimenti infondate, a giudizio della Corte partenopea, risultavano le doglianze relative alla mancata corresponsione dei vari benefit (premio di fedeltà, piano idealizzazione, valorizzazione portafoglio e stock options), considerata l’insussistenza nel caso di specie delle condizioni richieste per il loro riconoscimento. Infatti, tali benefici, siccome emergente dal regolamento contrattuale dei medesimi, avevano una funzione premiale e prevedevano un trattamento economico ulteriore rispetto a quello correlato all’attività lavorativa svolta, per cui ben potevano essere sottoposti a condizione risolutiva nel caso in cui l’agente avesse intrapreso un’attività concorrenziale. Peraltro, il verificarsi di detta condizione dipendeva dalla volontà dello stesso agente. Nella specie era pacifico che il F., dopo la cessazione del rapporto di agenzia in questione, era divenuto promotore finanziario della Banca Generali S.p.a., società concorrente di RASBANK S.p.a.. Di conseguenza, correttamente la società convenuta aveva negato la corresponsione del premio di fedeltà, della valorizzazione del portafoglio e del piano di idealizzazione, in quanto istituti premiare subordinati tutti alla mancata stipula di rapporti di agenzia o di procacciamento di affari con società concorrenti. Quanto alle stock options, e quindi al controvalore in danaro delle azioni virtuali conferite durante il rapporto di lavoro, la loro corresponsione era subordinata alla persistenza del rapporto di agenzia sino al 31 gennaio 2005, di modo che la risoluzione del rapporto in epoca anteriore, peraltro consentita dal medesimo contratto, non dava diritto neppure a tale benefit.

A proposito della risoluzione del rapporto di agenzia la Corte di merito, pur dando atto di quanto evidenziato dall’appellante in ordine ad una connotazione negativa e quindi illegittima della condotta mantenuta dalla preponente, osservava ad ogni modo che il contratto de quo stipulato dalle parti consentiva di entrambe il recesso ad nutum dal rapporto, sicchè la risoluzione di quest’ultimo ad opera della società non integrava alcuna condotta di illegittima. Nè erano emerse modalità di risoluzione del rapporto particolarmente mortificanti o ingiuriose per il F. e tali da connotare in senso negativo il comportamento della società. La mancata prova di una condotta illegittima da parte della mandante rendeva ingiustificato a priori le richieste di risarcimento del danno patrimoniale, biologico, morale e immagine reiterate in sede di appello. Pertanto, l’appellata sentenza, ancorchè in parte modificata nella sua motivazione, andava confermata nel rigetto delle domande di parte attrice.

Dunque, il ricorso è in larga parte inammissibile, mancando esaurienti allegazioni, soprattutto ex art. 366 c.p.c., n. 6 circa il contenuto del contratto di agenzia e del commesso incarico accessorio, nonchè del non meglio individuato “regolamento”, regolamento che, peraltro secondo quanto accennato dal ricorrente risale al dicembre 2004, mentre il contratto in questione risulta pacificamente cessato giusta l’anzidetto recesso della preponente nel marzo dell’anno 2004. Inconferenti, inoltre, appaiono i rilievi in punto di fatto ex art. 360 c.p.c., n. e 5.

Invero, nel giudizio di cassazione la deduzione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 non consenta alla parte ricorrente di censurare la complessiva valutazione delle risultanze processuali contenuta nella sentenza impugnata, contrapponendo alla stessa una sua diversa interpretazione, al fine di ottenere la revisione da parte del giudice di legittimità degli accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito: le censure poste a fondamento del ricorso non possono pertanto risolversi nella sollecitazione di una lettura delle risultanze processuali diversa da quella operata dal giudice di merito, o investire la ricostruzione della fattispecie concreta, o riflettere un apprezzamento dei fatti e delle prove difforme da quello dato dal giudice di merito (Cass. 1 civ. n. 7972 del 30/03/2007, conforme Cass. 3 civ. n. 13954 del 14/06/2007. Parimenti, secondo Cass. lav. n. 12052 del 23/05/2007, il ricorso, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ne deriva che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell'”iter” formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesse l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè, l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa all’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo.

V., altresì, Cass. 3 civ. n. 828 del 16/01/2007, secondo cui il vizio di omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, si configura solamente quando dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero un insanabile contrasto tra le argomentazioni adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione, non consistendo nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove preteso dalla parte rispetto a quello operato dal giudice di merito. La sua deduzione con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità non già il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale bensì la mera facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, cui in via esclusiva spetta il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, di dare – salvo i casi tassativamente previsti dalla legge – prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti. In senso analogo v. ancora Cass. lav. n. 6064 del 06/03/2008, Cass. nn. 17076 e 18709 del 2007, nonchè Cass. lav. n. 6288 del 18/03/2011 e n. 27162 del 23/12/2009.

Cfr. altresì Cass. lav. Sez. L, Sentenza n. 7394 del 26/03/2010, secondo cui è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione con il quale la sentenza impugnata venga censurata per vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, qualora esso intenda far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice al diverso convincimento soggettivo della parte e, in particolare, prospetti un preteso migliore e più appagante coordinamento dei dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito di discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione citata. In caso contrario, infatti, tale motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito, e perciò in una richiesta diretta all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione.

Cfr., d’altro canto, pure Cass. 3 civ. n. 5795 – 08/03/2017, secondo cui l’omesso esame della questione relativa all’interpretazione del contratto non è riconducibile al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, in quanto l’interpretazione di una clausola negoziale non costituisce “fatto” decisivo per il giudizio, atteso che in tale nozione rientrano gli elementi fattuali e non quelli meramente interpretativi. V. anche sul punto Cass. 1 civ. n. 17761 – 08/09/2016: il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2 -nella specie ancora applicabile, essendo stata la sentenza qui impugnata, n. 798, pubblicata l’otto marzo 2012 – si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo, o anche un fatto secondario – cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale – purchè controverso e decisivo).

Dunque, il ricorso va respinto, con la condanna della parte rimasta soccombente al pagamento delle spese, unitamente al versamento dell’ulteriore contributo unificato, atteso l’esito completamente negativo dell’impugnazione proposta il 16-04-2013.

P.Q.M.

la Corte RIGETTA il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore della società controricorrente, delle spese, che liquida in Euro 8000,00 (ottomila/00) per compensi professionali ed in Euro =200,00= per esborsi, oltre spese generali al 15%, i.v.a. e c.p.a. come per legge. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 6 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 19 ottobre 2018

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