Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.26701 del 23/10/2018

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CHIARINI Maria Margherita – Presidente –

Dott. FRASCA Raffaele – rel. Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. PORRECA Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5856/2016 proposto da:

PANIFICI BRENCO SAS DI S.D.N. & C, IN LIQUIDAZIONE in persona del liquidatore pro tempore, sig. D.N.S., T.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA PACUVIO, 34, presso lo studio dell’avvocato CHIARA ROMANELLI, che li rappresenta e difende giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

COMUNE DI LEVANTO, in persona del Sindaco pro tempore, Dott. I.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA BUCCARI 11, presso lo studio dell’avvocato PIERLUIGI TIBURZI, rappresentato e difeso dall’avvocato EUGENIO BOSSI giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 824/2015 del TRIBUNALE di LA SPEZIA, depositata il 09/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/02/2018 dal Consigliere Dott. RAFFAELE FRASCA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SOLDI Anna Maria, che ha concluso per l’accoglimento p.q.r.;

udito l’Avvocato CHIARA ROMANELLI;

udito l’Avvocato PIERLUIGI TIBURZI per delega.

FATTI DI CAUSA

1. La Panifici Brenco s.a.s. di S.d.N. & C. in liquidazione ed T.E. hanno proposto ricorso straordinario per cassazione, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7, contro il Comune di Levanto e, per come si desume dalla sola relazione di notificazione (non indicandola il ricorso espressamente come parte intimata), anche contro B.L..

1.1. Il ricorso è stato proposto avverso la sentenza del 9 ottobre 2015, con la quale il Tribunale della Spezia, in funzione di Giudice dell’Esecuzione, ha rigettato l’opposizione agli atti esecutivi proposta da essa ricorrente, dalla T. e dalla B. avverso l’ordinanza di assegnazione emessa dal Giudice dell’Esecuzione a conclusione del procedimento di espropriazione di crediti presso terzi, introdotto nei confronti della qui ricorrente quale debitrice esecutata e della T. quale terza debitrice pignorata. Detto pignoramento era stato notificato dal Comune di Levanto l’11 dicembre 2013 per crediti relativi a tributi locali ed aveva riguardato le somme dovute dalla ricorrente alla T. a titolo di canoni dell’affitto dell’azienda avente ad oggetto l’esercizio della produzione e della vendita di pane e affini, stipulato dalla ricorrente con la T.. Detta azienda era stata concessa in godimento alla ricorrente da B.L. con contratto del 14 luglio 2008.

1.2. In sede di udienza di dichiarazione del terzo la T. dichiarava di non dovere nulla alla debitrice esecutata perchè in data 22 maggio 2013 le era stato notificato atto di cessione del credito da parte della creditrice alla B. riguardo ai canoni d’affitto dell’azienda nella misura di Euro 80.000,00 e da quella data aveva versato alla B. i canoni fino a concorrenza di quella somma.

Il Giudice dell’Esecuzione assegnava le somme pignorate al Comune, reputando che si trattasse di cessione di crediti futuri e non opponibile al creditore pignorante.

L’ordinanza veniva opposta dalla società, dalla T. e della B..

2. Al ricorso per cassazione, che propone tre motivi, ha resistito con controricorso soltanto il Comune di Levanto.

3. I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 1418 c.c., violazione e falsa applicazione dell’art. 1343 c.c.”.

Vi si censura la ratio decidendi con la quale il Tribunale avrebbe ritenuto che il negozio di cessione dei crediti pignorati fosse affetto da nullità ai sensi dell’art. 1418 c.c., accogliendo l’eccezione in tal senso prospettata dal Comune di Levanto nel presupposto che si trattasse di contratto in frode ai creditori.

1.1. Il motivo si articola con la deduzione che un negozio in frode ai creditori non sarebbe riconducibile all’ambito dell’art. 1343 c.c., in quanto non connotato da illiceità del motivo, il che è condivisibile, non fosse altro in considerazione dei dati normativi per un verso inerenti alla posizione di tutela dei creditori nella disciplina della simulazione ed in quella dell’azione ai sensi dell’art. 2901 c.c.: tuttavia, esso è inammissibile, in quanto non coglie la ratio decidendi effettivamente enunciata dal Tribunale nella sentenza impugnata al di là della dichiarata condivisione della prospettazione dell’eccezione del creditore opposto, che, in realtà, è solo apparente.

1.2. Si rileva, in effetti, che la motivazione resa dal Tribunale, se intesa nella sostanza della sua argomentazione, risulta enunciata non già nel senso postulato dalla prospettazione del Comune e nemmeno con l’evocazione dell’art. 1343 c.c., come suggerirebbe il motivo, bensì in un senso diverso, ancorchè non del tutto esplicitato con un puntuale ed espresso riferimento normativo specificante la rilevanza dell’art. 1418 c.c..

1.2.1. La motivazione, infatti, si è articolata in questo senso:

“Si osserva come il creditore pignorante, a fronte del deposito dell’atto di cessione relativo all’affitto d’azienda abbia eccepito come quest’ultimo abbia causa illecita e sia pertanto affetto da nullità ex art. 1418 c.c., in quanto volto ad eludere le ragioni del creditore. Si ritiene che detta eccezione sia fondata in quanto il contratto di comodato gratuito stipulato ed allegato (doc. 15 fascicolo convenuto) ha ad oggetto l’azienda la quale per definizione codicistica ex art. 2555 c.c., è il complesso di beni organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa; poichè nulla viene detto espressamente in relazione all’immobile della sig.ra B., ove si svolgeva da sempre e tuttora si svolge l’attività di panificazione, (esso) deve intendersi compreso nell’ambito di detti beni come si evince anche dal tenore letterale delle clausole del contratto di comodato. Del resto nessun altro contratto è stato prodotto dalle parti in relazione all’immobile, nessuna precedente richiesta di canone di locazione ovvero indennità di occupazione per il medesimo, appare mai essere stata richiesta dalla sig.ra B. al titolare di Panifici Brenco prima della cessione del credito, la quale è avvenuta solo otto giorni dopo la notifica del primo atto di pignoramento, come correttamente osservato dal creditore pignorante. La gratuità del comodato, anche in relazione all’immobile, trova del resto giustificazione nei rapporti tra le parti che, come detto in precedenza, sono suocera e genero. Si osserva altresì come sia emerso in corso di causa che la parte terza pignorata, in evidente contrasto con l’atto di pignoramento prima e l’ordinanza di assegnazione poi, abbia dichiarato di avere continuato a pagare il canone di locazione a B.L.; non solo, B.L. e T.L. solo un mese dopo l’ordinanza di assegnazione hanno provveduto a concludere un contratto di locazione dell’immobile ed un contratto di comodato del ramo d’azienda, con ciò rendendo se possibile ancora più evidenti le ragioni che avevano condotto alla cessione del credito in virtù di un debito la cui esistenza non appare dimostrata”.

1.3. Ebbene, questa motivazione, là dove allude al fatto che la cessione del credito per i corrispettivi dell’affitto d’azienda, effettuata dalla debitrice esecutata qui ricorrente alla B. evocava come causa concreta un adempimento di un canone locativo o di una indennità di occupazione per l’immobile nel quale l’azienda era allocata, nonostante il comodato della stessa azienda intervenuto fra la B. e la ricorrente, come si evinceva dalle clausole del contratto di comodato, si dovesse intendere esteso anche a detto immobile, sottende una valutazione di violazione dell’art. 1418 c.c., nel senso di ravvisarsi la mancanza della causa ai sensi del combinato disposto di quella norma e del n. 2 dell’art. 1325 c.c., e tanto sotto il profilo della c.d. causa concreta, che, per quello che suggerisce la motivazione del Tribunale, era stata individuata nello scopo di adempiere tramite la cessione del credito per i corrispettivi dell’affitto di azienda l’obbligazione di pagamento o di un canone di locazione o di una indennità di occupazione.

In sostanza, il Tribunale con la sua motivazione ha inteso ravvisare che il negozio di cessione del credito era privo di causa concreta nel detto senso. Ha ritenuto, cioè che lo scopo pratico della cessione, quello di estinguere l’obbligazione di pagamento del canone di locazione/indennità di occupazione del’immobile risultava inesistente, in quanto il godimento dell’immobile era parte del comodato d’azienda.

Il Tribunale avrebbe potuto anche evocare, come conseguenza della rilevazione della mancanza della causa concreta, la categoria della simulazione assoluta del negozio, ma non lo ha fatto.

Resta, tuttavia, fermo che la sua motivazione ha la sostanza dell’affermazione dell’inesistenza della causa concreta del negozio di cessione e non della rilevazione dell’illiceità della sua causa per l’intento di frodare il creditore procedente.

1.4. Peraltro, dalla lettura del secondo motivo, si evince che nel contratto di cessione le parti convennero che “la cedente (Pacifici Brenco) è debitrice nei confronti della sig.ra B.L. (cessionaria) della somma di Euro 80.000,00 per l’occupazione del fondo sito in ***** di proprietà della sig.ra B.L.”. Ma l‘esegesi della motivazione risulta comunque giustificata, perchè il Tribunale ha espressamente escluso, in ragione dell’inerenza dell’immobile al contratto di comodato d’azienda, che fosse dimostrata un’occupazione del fondo non riconducibile alla causa di tale contratto.

2. Con un secondo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c.”.

Si sostiene che erroneamente il Tribunale, a pagina 3, avrebbe affermato essere circostanza incontestata “la cessione del credito per i canoni d’affitto d’azienda da Pacifici Brenco a B.L. (suocera del legale rappresentante di Pacifici Brenco) in data 22/05/2013 allegando di dovere alla medesima Euro 80.000,00 in forza di contratto di comodato”.

Detta circostanza non era stata invece mai dichiarata o allegata dai ricorrenti ed anzi risultava smentita dal contratto di cessione: al riguardo viene evocata la parte di esso di cui si è dato conto nel motivo precedente.

2.1. Il motivo, al di là del fatto che l’affermazione criticata risulta contraddetta dalla successiva motivazione criticata con il primo motivo, risulta assorbito ed irrilevante in ragione della sorte di esso, nonchè di quella del terzo motivo, di cui ora si passa a dire.

3. Con il terzo motivo si denuncia “violazione e falsa applicazione del’art. 2918 c.c., e dell’art. 2643 c.c. n. 9”, e si svolgono due censure con riferimento alla parte finale della motivazione della sentenza impugnata, con cui il Tribunale ha enunciato un’ulteriore ratio decidendi, aggiuntiva, ma autonoma rispetto a quella sulla rilevata nullità della cessione del credito e, quindi, alla derivata inopponibilità al creditore procedente.

Detta ulteriore motivazione è stata resa con l’affermazione che “Si deve altresì osservare come in ogni caso, poichè la cessione del credito relativo ai canoni di locazione aveva durata superiore al triennio la stessa in virtù del combinato disposto dell’art. 2918 c.c., e art. 2643 c.c., n. 9, doveva essere trascritta per essere opponibile al creditore pignorante”.

3.1. Il motivo resta a questo punto assorbito, atteso che il consolidarsi della prima ratio decidendi per effetto della sorte del primo motivo, ne rende inutile lo scrutinio.

3.2. Esso sarebbe privo di fondamento in tutte e due le censure.

3.2.1. La prima censura postula che il Tribunale abbia erroneamente evocato l’art. 2643 c.c., n. 9, perchè la fattispecie della cessione di canoni d’affitto d’azienda non sarebbe compresa nell’ambito di applicazione della disposizione.

Il Collegio, ritenendo utile, in mancanza di precedenti, provvedere ai sensi dell’art. 363 c.c., comma 3, reputa che la censura sia priva di fondamento e fornisca l’occasione per enunciare il seguente principio di diritto: “L’art. 2643 c.c., n. 9, là dove dispone che sono soggetti all’onere della trascrizione gli atti e le sentenze da cui risulta liberazione o cessione di pigioni o di fitti non ancora scaduti, per un termine maggiore di tre anni, si riferisce anche ai corrispettivi per l’affitto di un’azienda, fra i cui beni sia compreso un immobile, in quanto la figura dell’affitto di azienda, di cui all’art. 2562 c.c., è riconducibile a quella fattispecie di locazione indicata dall’art. 1615 c.c., con l’espressione gestione e godimento della cosa produttiva e, pertanto, la nozione di fitto, di cui al detto n. 9 è idonea a comprendere anche il corrispettivo dell’affitto di azienda”.

Il collegamento con l’art. 1615 rende non solo possibile tale esegesi senza che si possa dire che in tal modo si estende una norma, certamente speciale, analogicamente. Si tratta invece solo di interpretazione sistematica e nemmeno, a ben vedere, estensiva.

3.2.2. Riguardo alla seconda censura, per completezza, si osserva che essa appare dedotta inammissibilmente, là dove, pur ammessa l’applicabilità dell’art. 2643, n. 9, sostiene che la cessione di cu trattasi si sarebbe dovuta collocare, piuttosto che sotto il primo inciso dell’art. 2918 c.c., (secondo cui: “Le cessioni e le liberazioni di pigioni e di fitti non ancora scaduti per un periodo eccedente i tre anni non hanno effetto in pregiudizio del creditore pignorante e dei creditori che intervengono nell’esecuzione (art. 498 c.p.c. e ss.), se non sono trascritte anteriormente al pignoramento”) sotto quello del secondo inciso, secondo cui: (“Le cessioni e le liberazioni per un tempo inferiore ai tre anni e le cessioni e le liberazioni superiori ai tre anni non trascritte non hanno effetto, se non hanno data certa (2704) anteriore al pignoramento e, in ogni caso, non oltre il termine di un anno dalla data del pignoramento”).

Infatti, in disparte la carenza di qualsiasi attività argomentativa del come e del perchè la fattispecie di cessione di cui trattasi fosse riconducibile al secondo inciso, piuttosto che al primo e ciò anche a voler rilevare che, quanto alla data certa, potesse far fede il timbro postale apposto sulla busta contenente la notificazione della cessione (circostanza storica cui si allude a pagina 2 del ricorso), si rileva che non si riproduce nell’illustrazione del motivo la parte dell’atto di cessione da cui si dovrebbe evincere che trattavasi di cessione di corrispettivi non ancora scaduti infratriennali.

Il motivo viola in conseguenza l’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto omette sia di riprodurre direttamente trascrivendone la parte rilevante, il contenuto dell’atto di cessione del credito pignorato, sia di riprodurre detto contenuto indirettamente, indicando la parte di esso in cui l’indiretta riproduzione troverebbe riscontro.

In tal modo, essendo stato adempiuto l’onere di cui a detta norma solo per la localizzazione dell’atto di cessione (che, nell’esposizione del fatto, è indicato come doc. n. 6 del fascicolo di primo grado, a pag. 3 del ricorso, con successiva indicazione in chiusura del ricorso della produzione del detto fascicolo) e non anche sotto il profilo della riproduzione diretta od indiretta del contenuto dell’atto, risulta violato l’onere di indicazione specifica di cui alla citata norma, che esigeva anche detta riproduzione (Cass., Sez. Un. n. 23019 del 2007; Cass. (ord.) n. 22303 del 2008; (ord.) n. 15628 del 2009; (ord.) n. 7455 del 2013; Cass. n. 26174 del 2014; ex multis). In mancanza di essa, la Corte dovrebbe procedere alla lettura dell’atto di cessione individuando essa di sua iniziativa che cosa potrebbe sorreggere o non sorreggere il motivo, con indebita esenzione della ricorrente dall’onere di articolazione dal motivo di ricorso in modo specifico e chiaro (Cass., Sez. Un. n. 8077 del 2012).

Tanto è dirimente anche a non voler tener conto che la parte resistente a pagina 14 del controricorso ebbe a sostenere che la cessione fosse quinquennale e tale deduzione non risulta in alcun modo replicata nella memoria dai ricorrenti.

4. Il ricorso è conclusivamente dichiarato inammissibile.

5. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e sì liquidano in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti alla rifusione al resistente delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro cinquemilaseicento, oltre duecento per esborsi, le spese generali al 15% e gli accessori come per legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Terza Civile, il 19 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

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