Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.26798 del 23/10/2018

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. PICARONI Elisa – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27772-2016 proposto da:

E.S., e L.B.F., elettivamente domiciliati in ROMA, VIALE PARIOLI n. 63 presso lo studio legale avv. Giovanni Foti, rappresentati e difesi dall’avvocato PAOLO STARVAGGI;

– ricorrenti –

contro

A.I.B., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA G. G.

BELLI n. 70, presso lo studio dell’avvocato MARIA GRAZIA SIRNA, rappresentato e difeso dall’avvocato MARIA ANGELA CAPUTO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n.590/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 20/10/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 12/07/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVA.

FATTI DI CAUSA

Con ricorso per denuncia di nuova opera depositato il 24.7.2003 A.I.B., proprietario di un fabbricato con annesso terreno, lamentava che E.S. e L.B.F., proprietari di un fondo confinante, avevano intrapreso lavori per la costruzione di un fabbricato ad una distanza inferiore a dieci metri dalla sua parete finestrata. Deduceva anche che nel progetto lo spazio esistente tra i due fondi, che di comune accordo era stato da sempre impiegato come stradella di accesso ad essi, era stato indicato come chiostrina, allo scopo di eludere l’obbligo di rispetto della distanza minima di cui anzidetto.

Si costituivano i convenuti resistendo alla domanda ed invocandone il rigetto.

All’esito della fase sommaria il Tribunale inibiva la prosecuzione delle opere, sul presupposto che la destinazione di uno spazio a chiostrina presupponesse il consenso di tutti i proprietari, nel caso di specie mancante.

Nel successivo giudizio di merito le parti ribadivano le rispettive domande. In aggiunta, i convenuti deducevano che sulla parete dell’immobile del ricorrente frontistante la loro proprietà vi era in origine una porta, che l’ A. avrebbe illecitamente trasformato in finestra, in tal modo assumendo un comportamento idoneo ad evidenziare la volontà di destinare lo spazio tra le due proprietà a chiostrina. Inoltre, sostenevano che detta finestra non costituisse veduta, onde non era comunque necessario rispettare la distanza di dieci metri dalle pareti finestrate, tale non potendo essere considerata quella del ricorrente.

Con sentenza del 16.9.2008 il Tribunale di Patti accoglieva la domanda ordinando ai due convenuti di demolire il loro edificio sino a riportarlo alla distanza minima di 10 metri dalla parete dell’edificio dell’originario ricorrente, che – per contro – condannava a chiudere la finestra aperta sulla parete medesima, respingendo tutte le altre domande.

Interponevano appello E.S. e L.B.F., insistendo sulla qualificazione dello spazio esistente tra le proprietà come chiostrina, mentre spiegava appello incidentale l’ A., invocando la revoca del capo della decisione di prime cure relativo alla chiusura della finestra.

Con la sentenza impugnata n. 590/2015 la Corte di Appello di Messina, dopo aver escluso che l’area tra le proprietà delle parti fosse una chiostrina, affermava che l’intervento edilizio realizzato dai due appellanti non potesse essere qualificato come mera ristrutturazione, ma integrasse una nuova costruzione poichè il preesistente edificio era stato ampliato e sopraelevato. Riteneva quindi che si applicasse al caso di specie la distanza minima di dieci metri dalle pareti finestrate frontistanti, non rispettata dagli appellanti. Ammetteva tuttavia che costoro potessero decidere di rendere cieca la loro parete, essendo quella dell’appellante incidentale da considerare non finestrata, posto che su di essa esisteva solo una porta che era stata poi trasformata in modo illecito in finestra, con spostamento laterale dell’apertura originaria, senza possibilità per il predetto di invocare a suo favore il principio della prevenzione, non ammesso nei casi di nuova veduta (come quella derivante, per l’appunto, dalla trasformazione e dallo spostamento di una precedente apertura adibita a porta). Di conseguenza, la Corte territoriale respingeva l’appello incidentale accogliendo in parte quello principale, ed ordinava ai due appellanti, in via alternativa, di demolire ed arretrare il loro fabbricato sino a dieci metri dalla frontistante parete di quello dell’ A., ovvero di limitare l’arretramento a soli cinque metri, eliminando però le vedute previste sulla parete del loro edificio.

Propongono ricorso per la cassazione di detta decisione E.S. e B.F., affidandosi a cinque motivi. Resiste con controricorso A.I.B.. I ricorrenti hanno depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo, i ricorrenti lamentano la nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112 e 116 c.p.c. e art. 111 Cost. e omessa valutazione delle prove, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, perchè la Corte di Appello avrebbe interpretato in modo non corretto le risultanze istruttorie, pervenendo all’erronea conclusione che lo spazio tra le due proprietà non costituisse chiostrina.

La doglianza è inammissibile perchè essa si risolve in una richiesta di riesame del merito, preclusa in questa sede. In proposito, va riaffermato il principio secondo cui il motivo di ricorso non può mai risolversi “in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento di quest’ultimo tesa all’ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione” (Cass. Sez. U, Sentenza n.24148 del 25/10/2013, Rv.627790).

Con il secondo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., art. 871 c.c. e art. 117 Cost., nonchè degli artt. 23 sub. 19 e 29 del regolamento edilizio comunale del Comune di Sant’Agata di Militello e dell’art. 1325 c.c., perchè la Corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che nel caso di specie lo spazio tra le proprietà fosse adibito a stradella e non a chiostrina. Ad avviso dei ricorrenti, posto che la chiostrina può ben configurarsi anche nello spazio esistente tra diverse proprietà (alla luce di quanto affermato da Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7001 del 08/05/2012, non massimata) e che nessuna norma del regolamento edilizio comunale prescrive che l’area adibita a chiostrina debba essere circondata per intero da edifici, ben si sarebbe potuto, nel caso di specie, ritenere che il distacco tra le due proprietà fosse, appunto, una chiostrina. Ed inoltre l’Ufficio tecnico del Comune di S. Agata di Militello, con nota prot. 3518 del 21.2.2005, aveva espresso parere favorevole alla sanatoria edilizia presentata dall’ A. in relazione alla finestra a servizio del locale wc da egli realizzato sul lato dell’edificio prospiciente la proprietà degli odierni ricorrenti, a condizione che fossero rispettati proprio i parametri di calcolo previsti per gli spazi interni tra edifici: il che dimostrerebbe, secondo i ricorrenti, l’intenzione dello stesso A. di considerare chiostrina l’area di distacco tra le due proprietà. Detta volontà avrebbe dovuto essere valorizzata dalla Corte di merito, ai sensi dell’art. 1325 c.c., posto che la legge non prevedrebbe una forma vincolata per l’accordo delle parti finalizzato a destinare uno spazio a chiostrina.

Anche in questo caso, si tratta di censura attinente al merito, inammissibile in Cassazione, mediante la quale i ricorrenti sollecitano un complessivo riesame delle circostanze di fatto inerenti l’oggetto del giudizio.

Peraltro la sentenza impugnata, con statuizione che neppure risulta specificamente attinta dal motivo in esame, ha – in modo del tutto convincente e condivisibile – affermato che la chiostrina va identificata con il “cortile di piccole dimensioni destinato prevalentemente a dare aria e luce a locali secondari” e deve rispettare le caratteristiche dimensionali previste dal regolamento locale (cfr. pag. 9 della sentenza).

Ed infine, non appare puntuale neanche il riferimento alla sentenza delle S.U. di questa Corte n. 10318/2016 (Rv.639677) operata dai ricorrenti a pag. 17 del ricorso, poichè con quella decisione le S.U. non hanno inteso affermare, come sembrano intendere i ricorrenti, che le disposizioni regolamentari locali hanno portata integrativa rispetto alle norme del codice civile, ma (al contrario) il principio opposto, secondo il quale la normativa del codice integra quella locale anche quando quest’ultima, pur prevedendo una distanza tra fabbricati maggiore di quella stabilita dall’art.873 c.c., non imponga il rispetto di alcuna distanza minima dal confine, con conseguente applicazione del principio della prevenzione, proprio in virtù dell’affermato principio della portata integrativa dell’intero impianto codicistico. Con la conseguenza che “… il preveniente conserva la facoltà di costruire sul confine o a distanza dal confine inferiore alla metà di quella prescritta tra le costruzioni e il prevenuto la facoltà di costruire in appoggio o in aderenza ai sensi degli artt. 874,875 e 877 c.c.” (Cass. Sez. U, Sentenza n.10318 del 19/05/2016, Rv. 639677).

Peraltro, va riaffermato il principio secondo cui “Non possono considerarsi norme integrative della disciplina stabilita dal codice civile in materia di distanze tra le costruzioni le Disposizioni di un regolamento edilizio relative alla lunghezza massima degli edifici riguardo al fronte della strada, all’altezza massima dei medesimi senza alcun riferimento al distacco delle costruzioni e alla superficie minima delle chiostrine, trattandosi di norme dirette ad assicurare l’estetica edilizia, l’armonico assetto urbanistico e l’igiene delle abitazioni: ne consegue che la loro violazione da luogo unicamente ad un’azione di risarcimento dei danni nei confronti dell’autore della costruzione, dovendo escludersi la legittimazione passiva dei condomini dell’edificio rimasti estranei al fatto illecito costituito dalla violazione delle norme predette (Conf. 2675/73, mass n. 366164)” (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5197 del 13/11/1978, Rv. 394943; conformi, Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5378 del 12/06/1996, Rv. 498042 e Cass. Sez. 2, Sentenza n. 11259 del 17/12/1996, Rv.501375).

Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione dell’art. 111 Cost. per difetto di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè la Corte territoriale avrebbe sostanzialmente omesso di indicare i motivi che l’hanno portata a respingere il gravame da essi interposto avverso la decisione di prime cure.

Anche questa doglianza è inammissibile in quanto non si confronta con i limiti previsti, per la deducibilità in Cassazione del vizio di motivazione, dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo applicabile ratione temporis, in vigore a seguito della novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito in L. n. 134 del 2012. In base a tale normativa, il vizio di motivazione dev’essere interpretato “… alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico, nella motivazione apparente, nel contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili e nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione” (Cass. Sez. U, Sentenza n.8053 del 07/04/2014, Rv. 629830). Restano quindi esclusi da un lato qualunque altro vizio della motivazione e, dall’altro lato, l’omesso esame di elementi istruttori che non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico sia stato comunque preso in considerazione dal giudice di merito, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (in senso conforme, Cass. Sez.6-3, Ordinanza n.21257 del 08/10/2014, Rv.632914; Cass. Sez.6-3, Sentenza n.23828 del 20/11/2015, Rv.637781; Cass. Sez.3, Sentenza n.23940 del 12/10/2017, Rv.645828).

Nel caso di specie, non si ravvisa alcuno dei profili suindicati, poichè la Corte territoriale, con motivazione ampia ed articolata, ha dato conto delle ragioni della propria decisione, in tal modo adempiendo pienamente a quanto prescritto dall’art. 132 c.p.c.

Con il quarto motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione dell’art. 113 c.p.c., art. 111 Cost., del D.M. n. 1444 del 1968, art. 9,artt. 871 e 873 c.c., perchè la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere che l’intervento edilizio realizzato dai ricorrenti costituisse nuova costruzione. Ad avviso dei ricorrenti, infatti, il giudice di merito avrebbe dovuto considerare come nuova costruzione soltanto la parte di detto intervento che si sostanziava in modifica e sopraelevazione del preesistente edificio, riconoscendo al contempo il diritto dei ricorrenti di mantenere le aperture originariamente presenti nella sagoma iniziale dello stesso.

Anche in questo caso, la doglianza è inammissibile perchè si sostanzia in una richiesta di riesame del merito, preclusa in questa sede. Peraltro, la censura è anche infondata, posto che “In tema di rispetto delle distanze legali tra costruzioni, la sopraelevazione di un edificio preesistente, determinando un incremento della volumetria del fabbricato, è qualificabile come nuova costruzione. Ne consegue l’applicazione della normativa vigente al momento della modifica e l’inoperatività del criterio della prevenzione se riferito alle costruzioni originarie, in quanto sostituito dal principio della priorità temporale correlata al momento della sopraelevazione” (Cass. Sez. 2, Sentenza n.15527 del 11/06/2008, Rv.604088; conforme Cass. Sez. 2, Sentenza n.74 del 03/01/2011, Rv.615695).

Nello stesso senso, si è affermato che “La sopraelevazione, anche se di ridotte dimensioni, comporta sempre un aumento della volumetria e della superficie di ingombro e va, pertanto, considerata a tutti gli effetti, e, quindi, anche per la disciplina delle distanze, come nuova costruzione” (Cass. Sez. 3, Sentenza n.15732 del 15/06/2018, Rv.649409; conformi, Cass. Sez. 3, Sentenza n.21059 del 01/10/2009, Rv.609586 e Cass. Sez. 2, Sentenza n.6809 del 24/05/2000, Rv.536871).

Con il quinto ed ultimo motivo, i ricorrenti lamentano la violazione e falsa applicazione degli artt. 24 e 111 Cost. e art. 81 c.p.c., perchè la Corte di Appello avrebbe omesso di considerare che l’originario ricorrente non aveva, nel corso del giudizio di merito, fornito idonea prova di essere proprietario di alcune particelle coinvolte nella controversia. Ad avviso dei ricorrenti, questa carenza avrebbe dovuto comportare, da parte della Corte di merito, il rigetto della domanda per carenza di prova circa la legittimazione ad agire dell’ A..

Anche questa censura è inammissibile perchè con essa si prospetta una questione nuova che dalla lettura della sentenza impugnata non risulta esser stata proposta in precedenza nel corso dei gradi di merito. Nè i ricorrenti indicano, nel motivo in esame, in quale momento del giudizio, e con quale atto, detta doglianza sarebbe stata formulata, con conseguente ulteriore profilo di inammissibilità per carenza della necessaria specificità.

In definitiva, alla luce dell’inammissibilità di tutti i motivi dedotti il ricorso va rigettato e le spese del grado, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

Poichè il ricorso per cassazione è stato proposto dopo il 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto il comma 1-quater all’art.13 del Testo Unico di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente grado, che liquida in Euro 4.200 di cui Euro 200 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15%, iva e cassa avvocati come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 12 luglio 2018.

Depositato in Cancelleria il 23 ottobre 2018

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472