LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi – Presidente –
Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –
Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 26531 – 2014 R.G. proposto da:
B.M.L. – c.f. ***** – (in proprio e quale erede di D.C.R.) – D.C.M. – c.f. ***** –
D.C.N. – c.f. ***** – D.C.G. – c.f. ***** –
D.C.B. – c.f. ***** – D.C.S.L. – c.f.
***** – (tutti quali eredi di D.C.R.), rappresentati e difesi, il secondo, da se medesimo ai sensi dell’art. 86 cod.
proc. civ., gli altri, in virtù di procura speciale a margine del ricorso dall’avvocato Mauro Di Chicco; tutti elettivamente domiciliati in Roma, alla via dei Gracchi, n. 189, presso lo studio dell’avvocato Giovanna Gallo.
– ricorrenti –
contro
I.A.A. – c.f. ***** – I.M. –
c.f. ***** – I.P.S. – c.f. ***** –
I.S. – c.f. ***** – (tutti quali eredi I.I.), rappresentati e difesi in virtù di procura speciale a margine del controricorso dall’avvocato Donato Bellasalma ed elettivamente domiciliati in Roma, alla via dell’Aquila Reale, n. 23/E, presso lo studio dell’avvocato Tiziana Leotta.
– controricorrenti –
avverso la sentenza della corte d’appello di Potenza n. 263 dei 18/24.9.2013;
udita la relazione nella camera di consiglio del 23 maggio 2018 del consigliere dott. Luigi Abete.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO Con atto notificato il 3.9.1987 i coniugi D.C.R. e B.M.L. citavano a comparire innanzi al tribunale di Melfi – così riassumendo il giudizio intrapreso con citazione notificata in data 8/14.11.1985 dinanzi al pretore di Venosa, poi dichiaratosi incompetente per valore – I.I..
Esponevano che erano proprietari in ***** di un locale, al piano terra, tra ***** e *****; che lo spazio esistente tra il locale di loro proprietà e l’adiacente proprietà della convenuta era stato destinato dai reciproci danti causa alla realizzazione di una scala a comune servizio dei rispettivi immobili; che essi attori erano pervenuti alla determinazione di dar corso ai lavori di realizzazione della scala specificamente a servizio della sopraelevazione del loro locale e ne avevano intrapreso l’edificazione.
Chiedevano dichiararsi e darsi atto del loro diritto di ottenere la comunione, tra l’altro, dello spazio interposto e pronunciarsi sentenza idonea a trasferir loro i relativi diritti di comproprietà.
Si costituiva I.I..
Ribadiva che nello spazio interposto era da tempo stato edificato un piccolo manufatto ad uso deposito e legnaia, di circa 9,5 mq.; che ne aveva da oltre trent’anni il possesso esclusivo, pubblico, pacifico ed ininterrotto.
Instava per il rigetto dell’avversa domanda ed in (reiterata) via riconvenzionale chiedeva dichiararsi e darsi atto dell’intervenuto acquisto da parte sua, per usucapione, della proprietà esclusiva del manufatto.
Assunte le prove testimoniali, con sentenza n. 443/2006 l’adito tribunale rigettava la domanda degli attori ed, in accoglimento della domanda riconvenzionale, dichiarava il locale ad uso deposito e legnaia di proprietà, per intervenuta usucapione, della convenuta.
Proponevano appello D.C.R. e B.M.L..
Resisteva I.I..
Con sentenza n. 263 dei 18/24.9.2013 la corte d’appello di Potenza rigettava il gravame e condannava gli appellanti alle spese del grado.
Evidenziava la corte che gli esiti della prova testimoniale valevano a dar ragione dell’esclusivo possesso del “casupolo” da parte della I. sin dagli anni ‘50; che segnatamente alcuni testi avevano riferito che l’originaria convenuta era solita concederlo in locazione a terzi ad uso deposito o stalla.
Evidenziava al contempo che gli originari attori, all’uopo onerati, non avevano dato prova della dedotta “tolleranza”, tanto più che era da escludere che la costruzione del seppur piccolo manufatto in muratura si giustificasse all’insegna della mera tolleranza dei coniugi appellanti.
Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso B.M.L. (in proprio e quale erede di D.C.R.) nonchè D.C.M., D.C.N., D.C.G., D.C.B. e D.C.S.L. (quali eredi di D.C.R.); ne hanno chiesto sulla scorta di due motivi la cassazione con ogni conseguente statuizione anche in ordine alle spese.
I.A.A., I.M., I.P.S. e I.S. (quali eredi di I.I.) hanno depositato controricorso; hanno chiesto dichiararsi inammissibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese.
I ricorrenti hanno depositato memoria.
Con il primo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2700,2727,2728 e 2729 cod. civ. e artt. 115 e 116 cod. proc. civ..
Deducono che la corte di merito per nulla ha tenuto conto dell’atto pubblico per notar Montano in data 11.3.1935, costituente con riferimento allo spazio interposto il titolo della comproprietà e del compossesso degli originari danti causa, D.C.M. e I.G.; che per nulla ha considerato la necessità di acclarare, mercè l’ausilio di un c.t.u. – la cui nomina ha reputato superflua – tra l’altro, quale fosse la consistenza del “casupolo”, se fosse stato edificato sull’intero spazio interposto o su porzione dello stesso, se fosse possibile accedervi anche dalla proprietà D.C..
Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1140,1141,1144,1158,1164 e 2697 cod. civ..
Deducono che, contrariamente all’assunto della corte distrettuale per nulla hanno trascurato di riferire nei propri atti della presenza del “casupolo”.
Deducono che non vi è prova dell’atto con cui la I. ha provveduto a connotare la propria signoria sulla res communis in termini di esclusività nè vi è riscontro della riconducibilità di un simile atto ad epoca antecedente il ventennio precedente la notifica dell’atto di citazione a comparire innanzi al pretore di Venosa; che in ogni caso non vi è prova che la costruzione del “casupolo” sia del tutto incompatibile con la possibilità di destinare lo spazio interposto alla finalità convenzionalmente concordata.
I motivi di ricorso sono strettamente connessi.
Ambedue i motivi difatti si qualificano in rapporto alla previsione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5.
Occorre tener conto, da un lato, che con entrambi i mezzi di impugnazione i ricorrenti sostanzialmente censurano il giudizio “di fatto” cui la corte potentina ha atteso (“il giudice a quo si è limitato ad esaminare una sola fotografia (…)”: così ricorso, pag. 11; “non è assolutamente vero che la realizzazione del casupolo sia avvenuta ad opera della sig.ra I.”: così ricorso, pag. 13).
Occorre tener conto, dall’altro, che è propriamente la previsione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 che concerne l’accertamento e la valutazione dei fatti rilevanti ai fini della decisione della controversia (cfr. Cass. sez. un. 25.11.2008, n. 28054; cfr. Cass. 11.8.2004, n. 15499).
Su tale scorta ambedue i motivi sono a rigore inammissibili.
Ben vero gli asseriti vizi veicolati dagli addotti motivi sono da vagliare in rapporto della novella formulazione dell’art. 360 cod. proc. civ., comma 1, n. 5 applicabile alla fattispecie ratione temporis (la sentenza della corte di Potenza è stata depositata il 24.9.2013), e nel segno della pronuncia n. 8053 del 7.4.2014 delle sezioni unite di questa Corte.
In quest’ottica si osserva quanto segue.
Per un verso, è da escludere recisamente che taluna delle figure di “anomalia motivazionale” destinate ad acquisire significato alla stregua della pronuncia a sezioni unite testè menzionata, possa scorgersi in relazione alle motivazioni cui la corte lucana ha ancorato il suo dictum.
In particolare, con riferimento al paradigma della motivazione “apparente” – che ricorre allorquando il giudice di merito non procede ad una approfondita disamina logico – giuridica, tale da lasciar trasparire il percorso argomentativo seguito (cfr. Cass. 21.7.2006, n. 16672) – la corte d’appello ha – siccome si è premesso – compiutamente ed intellegibilmente esplicitato il proprio iter argomentativo.
Per altro verso, la corte di merito ha sicuramente disaminato il fatto storico dalle parti discusso, a carattere decisivo, connotante la res litigiosa, ovvero il fatto del possesso esclusivo, pubblico, pacifico, ininterrotto ed ultraventennale di I.I. sull’intera superficie interposta tra le contigue proprietà, idoneo a giustificare il riscontro dell’avvenuta usucapione.
Per altro verso ancora, i ricorrenti censurano l’asserita distorta ed erronea valutazione delle risultanze di causa (il “giudice a quo (…) ha trascurato elementi indiziari di notevole rilevanza, conservando invece quelli che ne avevano poca o punto”: così ricorso, pag. 12; “erroneamente la Corte territoriale fa decorrere il possesso utile ad usucapire la “res communis” dalla morte di D.C.M.”: così ricorso, pag. 14; “la circostanza che il casupolo fosse in muratura (…) lungi dal costituire una presunzione grave, precisa e concordante a favore (…) della sig.ra I., costituisce una circostanza di per sè non decisiva (…)”: così ricorso, pag. 15).
E tuttavia il cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nè in quello del precedente n. 4, disposizione che – per il tramite dell’art. 132 c.p.c., n. 4, – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
Nei termini esposti dunque i motivi di ricorso che gli eredi D.C. hanno esperito, sono inammissibili perchè propriamente fuoriescono dalla “griglia” delle ragioni di censura che a norma del novello disposto dell’art. 360 cod. proc. civ. fondano il diritto soggettivo alla sollecitazione di questo Giudice della legittimità.
In ogni caso l’iter motivazionale che sorregge il dictum della corte distrettuale risulta in toto ineccepibile sul piano della correttezza giuridica ed assolutamente congruo ed esaustivo.
Si evidenzia in primo luogo, in ordine alla dedotta obliterazione della “prova legale costituita (…) dall’atto pubblico per notar M. del 1935” (così ricorso, pag. 8), che l’efficacia probatoria privilegiata dell’atto pubblico concerne unicamente la provenienza del documento dal pubblico ufficiale ed i fatti che lo stesso pubblico ufficiale attesta essere avvenuti in sua presenza o esser stati da lui personalmente compiuti (cfr., tra le altre, Cass. 16.4.1987, n. 3776).
Si evidenzia in secondo luogo che la consulenza tecnica d’ufficio è mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario e la motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (cfr. Cass. 5.7.2007, n. 15219; Cass. 6.5.2002, n. 6479).
Si evidenzia in terzo luogo che, in materia di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. può essere dedotta come vizio di legittimità solo denunciando che il giudice ha dichiarato espressamente di non dover osservare la regola contenuta nella norma, ovvero ha giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, e non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, ha attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
Si evidenzia infine che, in tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (cfr. Cass. 10.6.2016, n. 11892).
In dipendenza della declaratoria di inammissibilità del ricorso i ricorrenti vanno in solido condannati a rimborsare ai controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità.
La liquidazione segue come da dispositivo.
Si dà atto che il ricorso è datato 10.11.2014.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, D.P.R. cit..
PQM
La Corte dichiara inammissibile il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, B.M.L., D.C.M., D.C.N., D.C.G., D.C.B. e D.C.S.L., a rimborsare ai controricorrenti, I.A.A., I.M., I.P.S. e I.S., le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13, comma 1 bis, cit..
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2 sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 23 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 29 ottobre 2018
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