LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
R.R., elettivamente domiciliata in ROMA, P.ZZA S. ANDREA DELLA VALLE, 3, presso lo studio dell’avvocato MELLARO MASSIMO, rappresentata e difesa dall’avvocato SAITTA GIUSEPPE giusta procura speciale a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA ***** in persona del Ministro in carica, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliati ex lege in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, da cui sono difesi per legge;
– controricorrenti –
e contro
R.G., AGENZIA DELLE ENTRATE – DIREZIONE PROVINCIALE DI MESSINA;
– intimati –
nonchè da:
R.G., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dagli avvocati SIRACUSA GIUSEPPA CONCETTA e COMITO GIUSEPPE, giusta procura speciale in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, AGENZIA DELLE ENTRATE, AGENZIA DELLE ENTRATE – DIREZIONE PROVINCIALE DI MESSINA, R.R.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 732/2015 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 28/12/2015;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 25/05/2018 dal Consigliere Dott.ssa MOSCARINI ANNA.
RILEVATO
Che:
Con atto di citazione del 19/4/2006 il Ministero della Giustizia e l’Agenzia delle Entrate convennero davanti al Tribunale di Messina R.G. e R.R., quali eredi di Ri.Gi., chiedendo la condanna in solido o in ragione delle rispettive quote ereditarie, al pagamento della complessiva somma di Euro 195.528,92. Dedussero che il dante causa dei convenuti, Ri.Gi., già ufficiale giudiziario presso la Pretura di Milazzo, era stato condannato in sede penale con sentenza passata in giudicato per peculato e malversazione, essendosi appropriato di una somma che avrebbe dovuto essere versata all’Agenzia delle Entrate.
Dedussero che la Sezione di Messina della Agenzia delle Entrate aveva costituito in mora Ri.Gi. per vari crediti in relazione ai quali erano stati notificati tre avvisi di liquidazione. Avverso detti avvisi era stato incardinato un giudizio tributario cui era seguita una pronuncia della Commissione Tributaria Regionale di Palermo che, accertata la natura civilistica del credito, aveva dichiarato il difetto di giurisdizione del giudice tributario in favore di quello civile. La pronuncia non venne impugnata. Deceduto il Ri.Gi., la Direzione Regionale notificò agli eredi un atto di costituzione in mora chiedendo il pagamento della somma complessiva di Lire 378.595.784. I convenuti, costituendosi in giudizio, eccepirono l’intervenuta prescrizione del diritto al risarcimento del danno.
Il Tribunale di Messina, con sentenza 19-24/4/2008, accolse l’eccezione di prescrizione e rigettò la domanda rilevando che, dalla sentenza di condanna nei confronti del R. emessa in data 24/8/1990, non risultavano atti interruttivi della prescrizione fino alla costituzione in mora del 10/3/2001 e che l’atto del 1996, invocato dall’Avvocatura dello Stato, non era presente in giudizio.
Le due Amministrazioni proposero appello avverso la sentenza contestando che il Tribunale non avesse ritenuto idonei a costituire in mora il debitore gli atti notificati dall’ufficio, a loro avviso relativi ai crediti nascenti dalla sentenza penale. Si costituirono gli appellati proponendo anche appello incidentale e la Corte d’Appello di Messina, con sentenza del 28/12/2015, accolse l’appello statuendo circa la condanna degli appellati R. a pagare la somma di Euro 97.764,46 quale quota corrispondente alla metà della somma dovuta a titolo risarcitorio da Ri.Gi., con condanna al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio.
Avverso la sentenza R.R. e R.G. ricorrono con distinti ricorsi, il primo affidato a sei motivi illustrati da memoria e il secondo affidato ad otto motivi illustrati da memoria. Resiste con controricorso il Ministero della Giustizia.
CONSIDERATO
Che:
1. Sul ricorso di R.R..
1.1 Con il primo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2946 cod. civ. (art. 360 c.p.c., n. 3), anche in relazione all’art. 100 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)), la ricorrente censura la sentenza nella parte in cui la stessa non ha dichiarato inammissibile l’azione proposta dal Ministero della Giustizia per la mancanza di un atto interruttivo della prescrizione decennale nel periodo compreso tra la data di deposito della decisione penale – 24/8/1990 – e la data di notifica dell’atto introduttivo del giudizio civile – 19/6/2006. Ad avviso della ricorrente la sentenza avrebbe errato nel ritenere che il Ministero potesse avvalersi dell’atto interruttivo intimato dall’Agenzia delle Entrate in data 10/4/1996 in quanto, considerata l’autonoma personalità giuridica di diritto pubblico delle diverse Amministrazioni dello Stato, l’atto inviato per l’una non poteva dirsi automaticamente efficace anche per l’altra. Il motivo sostiene, in buona sostanza, che nella specie non avrebbe potuto operare l’art. 1308 c.c., comma 2, sebbene non lo nomini.
1.2 Il motivo è infondato. L’azione esercitata dalle due amministrazioni conseguiva alla condanna generica ribadita dalla sentenza della Corte d’Appello di Messina, emessa in sede penale nel 1989 e consolidatasi per effetto della sentenza della Cassazione penale n. 1782 del 1990. Per sostenere che l’atto interruttivo della prescrizione non riguardasse un’obbligazione con solidarietà attiva sarebbe stato necessario argomentare, nel rispetto del principio di cui all’art. 366 n. 6 c.p.c. e di chiarezza del motivo (Cass., S.U. n. 8077 del 22/5/2012), che la condanna generica penale, costituente la premessa sulla base della quale si era poi agito in sede civile, non fosse stata disposta con solidarietà attiva. Nessuna deduzione in tal senso è, invece, fatta nel motivo, sicchè l’assenza di solidarietà attiva è rimasta sprovvista di prova. Peraltro, non è fatto constare in alcun modo, ai fini dell’autosufficienza del ricorso, della quale l’art. 366 c.p.c., n. 6 costituisce il precipitato normativo (Cass. n. 7455 del 2013, ex multis), se e dove nel giudizio di merito l’idoneità dell’atto interruttivo ad operare pure per il Ministero fosse stata prospettata e, dunque, fosse stata oggetto di contestazione, trattandosi di contestazione diversa dalla legittimazione del Ministero. Ne discende che il motivo, premesso che la sentenza impugnata non si occupa del problema, pone anche una questione nuova ed in quanto tale inammissibile. Nè la sua novità potrebbe essere messa in discussione sotto il profilo che si tratterebbe di questione rilevabile d’ufficio e non ad istanza di parte, in quanto la violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6 non avrebbe messo in grado la Corte di procedere alla verifica della situazione fattuale concernente la natura dell’obbligazione risarcitoria dal lato attivo.
Per quanto precede, il primo motivo del ricorso deve essere rigettato.
2. Con il secondo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 cod. civ., in relazione, anche, all’art. 342 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)) la ricorrente fa valere un preteso giudicato sostanziale che si sarebbe formato sulla sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, non oggetto di impugnazione, in ordine al difetto di giurisdizione e a tutti gli altri accertamenti non colpiti da motivo specifico di impugnazione.
2.1 Il motivo è gradatamente inammissibile e manifestamente infondato. Inammissibile per difetto di autosufficienza perchè non è indicata la parte o pagina dell’atto in cui la trascrizione del punto dell’atto di appello delle amministrazioni troverebbe corrispondenza, ma, inoltre, e soprattutto, non si accompagna l’indicazione del se e dove detto atto di appello sarebbe esaminabile in questo giudizio di legittimità e ciò nemmeno – utilizzando il dictum di Cass. S. U. n. 22726 del 2011 – dichiarando (il che avrebbe impedito l’operatività della improcedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) di voler fare riferimento alla presenza del documento nel fascicolo d’ufficio del giudice di appello (precisazione necessaria secondo la citata sentenza per il rispetto dell’art. 366 c.p.c., n. 6).
L’infondatezza discende, invece, dalla circostanza che, nel loro controricorso, le amministrazioni trascrivono esattamente la doglianza relativa all’atto interruttivo, che risulta corredata dall’indicazione “doc. n. 1 di cui alla produzione elencata nell’atto di citazione introduttivo del giudizio”, sicchè la censura appare svolta senza effettiva aderenza al tenore dell’appello, che era, di fronte alla mera affermazione della sentenza di primo grado del non esservi “traccia in atti”, non corredata da alcun riferimento alle modalità di produzione dei documenti e alle risultanze specifiche del fascicolo d’ufficio e di quelli di parte, idoneo ad assolvere all’onere dell’art. 342 c.p.c..
3. Con il terzo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4), in relazione agli artt. 74 e 89 disp. att. c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè in relazione all’art. 2697 cod. civ. (art. 360 c.p.c., n. 3)), si censura la sentenza nella parte in cui ha statuito che la messa in mora del 10/4/1996 a Ri.Gi. fosse rinvenibile nel fascicolo di parte attrice.
3.1 Il motivo è inammissibile: correlandosi la motivazione della Corte d’Appello appunto alla precisazione svolta nel motivo di appello dalle amministrazioni, avrebbe dovuto essere accompagnato dalla necessaria attività argomentativa che invece quella precisazione non era corretta oppure non rispondente alle norme degli artt. 74 e 87 disp. att. c.p.c. e non risulta dunque svolto come idonea censura là dove si limita alla mera denuncia della pretesa apparenza di motivazione. Peraltro, una volta coordinata con il tenore del motivo e specie nell’assenza di qualsiasi indicazione del come si fosse replicato sul punto in appello da parte della R., la motivazione nemmeno risulta apparente e la violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 risulta infondata.
4. Con il quarto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2943 cod. civ. (art. 360 c.p.c., n. 3)) censura la sentenza nella parte in cui ha attribuito efficacia interruttiva della prescrizione ad avvisi di natura tributaria, senza considerare che l’effetto interruttivo dell’art. 2943 c.c. ha limiti oggettivi ben precisi essendo circoscritto al diritto reclamato o fatto valere, senza alcuna possibilità di estensione ad altri diritti. Premesso che il motivo non soddisfa le condizioni di autosufficienza in quanto non fornisce indicazione specifica dei documenti astrattamente idonei ad interrompere la prescrizione, in ogni caso nessuna efficacia interruttiva poteva essere ravvisata nel documento fiscale pervenuto in data 20/3/2001 nè in quello del 18/2/2006, entrambi successivi allo spirare del termine decennale di prescrizione.
5. Con il quinto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ., in relazione all’art. 2043 cod. civ. e al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 8 (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè ulteriore violazione dell’art. 132 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 4)) censura il capo di sentenza che ha statuito circa la condanna della R. al risarcimento dei danni, erroneamente ritenendo che la responsabilità del padre potesse trasferirsi sulla figlia, nonostante la responsabilità discendente dalla natura amministrativa e tributaria della sanzione, avesse natura personale come tale non trasmissibile, a differenza delle sanzioni civili.
5.1. Il motivo è inammissibile: esso omette di considerare quanto la sentenza impugnata ha scritto dicendo: “…il cui quantum, unicamente economico/patrimoniale mai è stato posto in dubbio dai pretesi debitori aventi causa”. Come emerge da tale affermazione, la sentenza impugnata ha considerato non contestato il danno patrimoniale sicchè il motivo, per avere una qualche parvenza di pertinenza, risultando altrimenti del tutto eccentrico rispetto alla motivazione della impugnata sentenza, avrebbe dovuto incentrarsi e dimostrare l’erronea applicazione del principio di non contestazione che, invece, non è minimamente invocato. Ora, il motivo non correlato alla motivazione è, in base al consolidato insegnamento di questa Corte, radicalmente inammissibile (Cass., S.U. n. 7074 del 2017 secondo la quale in tema di ricorso per cassazione, ove la sentenza di appello sia motivata “per relationem” alla pronuncia di primo grado, al fine di ritenere assolto l’onere ex art. 366 c.p.c., n. 6, occorre che la censura identifichi il tenore della motivazione del primo giudice specificamente condivisa dal giudice di appello, nonchè le critiche ad essa mosse con l’atto di gravame, che è necessario individuare per evidenziare che, con la resa motivazione, il giudice di secondo grado ha, in realtà, eluso i suoi doveri motivazionali).
6. Con il sesto motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3)) censura la sentenza nella parte in cui non ha disposto sul regime delle spese del doppio grado del giudizio in modo conseguenziale al prospettato accoglimento dei precedenti motivi di ricorso. Si tratta di un non motivo, risolvendosi solo nella postulazione di un diverso regime delle spese, correlata all’accoglimento del ricorso, come tale inammissibile.
7. Sui motivi del ricorso di R.G..
7.1 Con il primo motivo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., nonchè degli artt. 324,329,342 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4. Mancata rilevazione di giudicato interno da parte del giudice di appello) il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui non avrebbe rilevato il difetto di specificità dei motivi di appello in relazione alle statuizioni relative all’interruzione della prescrizione, con ciò consentendo il consolidarsi del giudicato in ordine alla mancata prova dell’idoneità del documento interruttivo della prescrizione. Per soddisfare il principio di specificità dei motivi di impugnazione richiesta dagli artt. 342 e 434 c.p.c., le appellanti avrebbero dovuto individuare, con chiarezza, le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza di primo grado con argomentazioni atte a confutare e ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle argomentazioni del primo giudice.
Per tale motivo, pur essendosi in questo caso riprodotto correttamente il motivo di appello delle amministrazioni, vale quanto osservato in punto di infondatezza sul secondo motivo del ricorso principale: esso va rigettato perchè la formulazione del motivo soddisfa le condizioni di cui all’art. 342 c.p.c..
8. Con il secondo motivo (violazione dell’art. 132 c.p.c., art. 118 disp. att. c.p.c. in relazione all’art. 74 e 87 disp. att. c.p.c.nonchè in riferimento all’art. 2697 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) censura la sentenza nella parte in cui non si è fatta carico di verificare se la parte interessata alla produzione del documento interruttivo della prescrizione avesse ottemperato all’onere della prova, su di essa incombente ai sensi dell’art. 2697 c.c..
Il motivo è inammissibile per le medesime ragioni del terzo motivo del ricorso di R.R., e dunque per difetto di autosufficienza.
9. Con il terzo motivo (violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2943,2946 e 2953 c.c. e art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4. Prescrizione del diritto risarcitorio) censura la sentenza nella parte in cui ha riformato la statuizione relativa alla prescrizione del diritto al risarcimento del danno in ragione del fatto che nessun atto interruttivo è stato posto in essere dal Ministero, non potendo il Ministero avvalersi del preteso atto interruttivo della prescrizione intimato dall’Agenzia delle Entrate in data 10/4/1996.
Il motivo è in primo luogo inammissibile, perchè si fonda sull’atto del 10 aprile 1996 ma ne omette la trascrizione o la riproduzione indiretta e dunque viola l’art. 366 c.p.c., n. 6. Inoltre, ferma l’assorbenza di quanto rilevato, tutto ciò che è detto sotto il punto B della sua illustrazione, omette di individuare quale sia la motivazione della sentenza impugnata sottoposta a critica e, soprattutto, là dove argomenta a pagina 21 dell’atto di appello avversario e rileva che i giudizi tributari – se ben si comprende – erano pendenti prima del formarsi del giudicato penale, non solo nuovamente viola l’art. 366 c.p.c., n. 6 sotto il profilo degli oneri riproduttivi, ma trascura l’affermazione della Corte: “Pure a prescindere dall’ipotesi di una sospensione del termine prescrizionale nel corso della pendenza del giudizio tributario”, che sottende l’idea che durante quella pendenza la prescrizione non corresse. Tale idea, una volta introdotta la translatio iudicii dopo declinatoria di giurisdizione (Cass. U, n. 4109 del 2007 e Corte Cost. n. 77 del 2007), comporterebbe che la prescrizione non fosse decorsa durante la pendenza del giudizio tributario.
10. Con il quarto motivo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., e art. 111 Cost., per motivazione omessa e/o non coerente, sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e della illogicità manifesta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) il ricorrente censura la sentenza laddove fa leva su atti interruttivi del termine prescrizionale senza una adeguata motivazione rendendo impossibile ogni controllo sull’esattezza e logicità del ragionamento seguito.
Il motivo è privo di fondamento: il consolidamento della motivazione sull’interruzione della prescrizione per effetto dell’atto del 10/4/1996 rende inutile la motivazione relativa ad atti successivi, astrattamente idonei a produrre l’interruzione.
11. Con il quinto motivo (omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) la sentenza dovrebbe essere censurata nella parte in cui fa riferimento all’espletato contenzioso tributario ed omette di considerare la coincidenza tra le somme, la cui riscossione era stata avviata con il procedimento speciale ex art. 159, con quelle reclamate a titolo risarcitorio. La sentenza avrebbe altresì omesso di valutare che, per gli importi reclamati nel giudizio davanti al Tribunale di Messina, l’Agenzia delle Entrate era già munita di titolo irrevocabile ed aveva avviato il procedimento di riscossione.
Il motivo è inammissibile perchè difetta di autosufficienza, violando l’art. 366 c.p.c., n. 6, in quanto non riporta il contenuto degli atti dai quali pretenderebbe di desumere gli effetti reclamati. Anche l’omesso esame del fatto è mal dedotto proprio per l’assoluta genericità della prospettazione di identità delle somme oggetto del giudizio civile rispetto a quelle pretese in sede di riscossione.
12. Con il sesto motivo (violazione e/o falsa applicazione del principio del “ne bis in idem”. Nullità del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) censura la sentenza nella parte in cui avrebbe violato il principio del divieto del ne bis in idem delineandosi nel caso di specie un doppio binario sanzionatorio penale/contabile tributario.
Il motivo è inammissibile per le stesse ragioni di genericità e di difetto di autosufficienza relative al quinto motivo, di cui condivide la sorte.
13. Con il settimo motivo (violazione e/o falsa applicazione dell’art. 651 c.p.p. e art. 2697 c.c. anche in relazione all’art. 2043 c.c. e al D.Lgs. n. 472 del 1997, art. 8, nonchè violazione e/o falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, art. 118 disp. att. c.p.c., e art. 111 Cost., per motivazione omessa e/o non coerente, sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e della illogicità manifesta, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) censura la sentenza nella parte in cui non si è data carico di rilevare la prova dell’esistenza e della entità dei danni.
Il motivo merita le stesse considerazioni del quinto motivo del ricorso di R.R. ed è, al pari di quello, del tutto inammissibile.
14. Con l’ottavo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 91 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3) censura la sentenza con riguardo al regime delle spese, limitandosi a postulare un differente regime delle medesime conseguenziale all’accoglimento del ricorso.
Si tratta di un “non motivo”, per il quale valgono le stesse considerazioni svolte in relazione al sesto motivo del ricorso principale.
15. Conclusivamente entrambi i ricorsi devono essere rigettati, con le conseguenze sulle spese del giudizio di cassazione poste a carico dei ricorrenti, liquidate come in dispositivo e sul raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta entrambi i ricorsi e condanna i ricorrenti in solido alle spese del giudizio di cassazione, liquidate in Euro 10.000 (oltre Euro 200 per esborsi) oltre spese prenotate a debito, accessori e spese generali. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte di ciascun ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 25 maggio 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
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