LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAMBITO Maria Giovanna – Presidente –
Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –
Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
Dott. CAMPESE Eduardo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 16567/2016 R.G. proposto da:
GOVERNO DELLA REPUBBLICA ITALIANA, in persona del Presidente del consiglio dei ministri p.t., rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato. con domicilio in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– ricorrente –
contro
P.G., rappresentato e difeso dall’Avv. Prof. Luigi Filippo Paolucci, con domicilio eletto in Roma, via Q. Sella, n. 41, presso lo studio dell’Avv. Camilla Bovelacci;
– controricorrente e ricorrente incidentale –
e C.C., C.O., C.N. e M.B., in qualità di soci della C3 DI C.C. & C. S.A.S., rappresentati e difesi dall’Avv. Paolo Fiorilli, con domicilio eletto in Roma, via Cola di Rienzo, n. 180;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Roma n. 1986/16 depositata il 25 marzo 2016;
Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 5 giugno 2018 dal Consigliere Guido Mercolino;
uditi l’Avv. Gianni De Bellis dell’Avvocatura generale dello Stato e gli Avv. Paolucci e Fiorilli;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale CARDINO Alberto, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso incidentale e l’accoglimento del primo motivo del ricorso principale.
FATTI DI CAUSA
1. P.G., creditore della C3 di C.C. & C. S.a.s. in liquidazione, convenne in giudizio la stessa ed il Governo della Repubblica Italiana, ai sensi dell’art. 2900 c.c., per sentir accertare, oltre al proprio credito, la violazione del diritto comunitario commessa dallo Stato italiano attraverso l’interpretazione e l’applicazione della L. 29 dicembre 1999, n. 428, art. 29,comma 2, con la condanna dello Stato al risarcimento del danno subito dalla C3 e di quest’ultima al pagamento delle somme a lui dovute.
Premesso di vantare nei confronti della C3, in virtù di una convenzione priva di data, un credito di Euro 41.317,00, oltre interessi, un credito di Euro 94.299,12, oltre svalutazione ed interessi con capitalizzazione trimestrale, ed un credito pari al 2% dell’importo da liquidarsi all’esito del giudizio, espose che con sentenza del 25 maggio 1998, n. 1723, confermata dalla Corte di cassazione con sentenza del 3 gennaio 2002, n. 23, la Corte d’appello di Roma aveva, in violazione delle norme comunitarie, rigettato la domanda di rimborso delle somme corrisposte dalla società debitrice a titolo di sovrapprezzo per l’importazione di zucchero da Paesi comunitari, previsto dal provvedimento CIP del 22 giugno 1968, n. 1195 in contrasto con l’art. 95 del Trattato UE.
Si costituì l’Amministrazione, ed eccepì l’inammissibilità e l’infondatezza della domanda, chiedendone il rigetto.
1.1. Con sentenza del 13 ottobre 2010, il Tribunale di Roma rigettò la domanda.
2. L’impugnazione proposta dal P. è stata accolta dalla Corte d’Appello di Roma, che con sentenza del 25 marzo 2016 ha rigettato il gravame incidentale condizionato proposto dal Governo, condannandolo al pagamento in favore della C3 della somma di Euro 17.762.244,12, oltre interessi legali, ed accertando il diritto dell’attore al pagamento della somma di Euro 41.317,00, oltre interessi, subordinatamente all’incasso delle somme dovute dallo Stato e dedotte le spese necessarie per il recupero del credito.
A fondamento della decisione, la Corte ha ritenuto innanzitutto irrilevante la circostanza che il credito dell’attore fosse condizionato all’incasso di quello azionato nei confronti del Governo, osservando che l’azione surrogatoria è esperibile anche dai titolari di crediti sottoposti a termine o condizione. Ha ritenuto sussistenti l’inerzia della creditrice ed il pericolo dell’insolvenza, rilevando che la C3 aveva omesso di adottare le misure concordate per la realizzazione del proprio credito, oltre ad essersi astenuta dal costituirsi nel giudizio promosso dal P., e desumendo l’interesse di quest’ultimo all’esercizio dell’azione dal rischio d’insolvenza connesso all’esiguità del capitale sociale ed al perdurante stato di liquidazione della società.
La Corte ha poi escluso che la domanda dovesse essere proposta entro il termine decadenziale di cui alla L. 13 aprile 1988, n. 117, osservando che l’azione prevista dall’art. 2 di quest’ultima riguarda la responsabilità dello Stato per atti dolosi o gravemente colposi commessi dal magistrato nello esercizio delle funzioni, in riferimento a violazioni del diritto comunitario imputabili ad organo giurisdizionale di ultimo grado, mentre quella proposta dal P. si fondava sull’illecito accertato dalla Corte di Giustizia UE con sentenza del 29 dicembre 2003, in causa C-129/00, ascrivibile allo Stato legislatore e derivante dall’omessa modificazione della legge nazionale che disciplina il rimborso dei tributi incompatibili con le norme comunitarie, che nell’interpretazione fornita dalla giurisprudenza di legittimità consentiva di ritenere provata la traslazione del tributo anche in via presuntiva.
In ordine alla domanda proposta dall’attore nei confronti della C3, precisato che in pendenza della condizione sospensiva doveva ritenersi consentita soltanto quella di accertamento del credito, quale azione conservativa, la Corte ha rilevato che dalla convenzione stipulata tra le parti emergeva la volontà di riconoscere il credito di Euro 94.299,12, oltre al 2% di quanto incassato all’esito del giudizio, soltanto nei confronti del Consorzio Maxi, con cui la C3 aveva stipulato un accordo per disciplinare un rapporto commerciale intrattenuto nell’ambito dell’attività d’importazione di zucchero, e non anche nei confronti del P., il quale aveva partecipato all’accordo sia in proprio, per il credito professionale di Euro 41.317,00 derivante dall’attività professionale prestata come c.t. di parte, sia in qualità di legale rappresentante del Consorzio, ma in giudizio non aveva speso in alcun modo quest’ultima qualità.
Quanto poi alla domanda proposta nei confronti del Governo, la Corte ha premesso che l’indebito pagamento del sovrapprezzo non era contestato, mentre l’importo del credito, risultante dagli accertamenti compiuti nel giudizio restitutorio, era pari a Lire 9.538.618.400, oltre interessi legali dal 3 giugno 1987 e maggior danno quantificato in Lire 708.209.700. Ciò posto, ha ritenuto che, nell’applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, le sentenze n. 1723/98 della Corte d’appello e n. 23/02 della Corte di cassazione non avessero fatto corretta applicazione dei principi affermati dalla Corte di giustizia UE con la sentenza in causa C-129/00, avendo escluso il diritto al rimborso perchè a) la Cassa Conguaglio Zucchero aveva dimostrato che il sovrapprezzo costituiva parte integrante del prezzo dello zucchero, b) la C3 non aveva neppure dedotto di averne sopportato l’onere in proprio, in quanto utilizzatrice diretta dello zucchero, c) in qualità d’intermediaria del prodotto, la C3 lo aveva presumibilmente rivenduto al prezzo fissato dal CIP. Tali circostanze erano prive dei requisiti prescritti dall’art. 2729 c.c., in quanto a) il prezzo amministrato non aveva carattere obbligatorio, ma era solo un prezzo massimo, e la legge non prevedeva l’obbligo di traslazione del tributo, b) trattandosi di ripetizione dell’indebito, la C3 non aveva l’onere di allegare e provare di essere utilizzatrice dello zucchero e di aver sopportato in proprio l’onere del sovrapprezzo, c) la qualità d’intermediario costituiva circostanza equivoca e tale da determinare una presunzione di trasferimento che la Corte di Giustizia aveva ritenuto contrastante con il diritto comunitario, d) la Cassa non aveva neppure allegato e provato l’ingiustificato arricchimento della C3.
Ritenuto pertanto che il rigetto della domanda di rimborso, avvenuto in violazione del diritto comunitario, aveva arrecato alla C3 un danno che doveva essere ristorato dal giudice nazionale, la Corte ha escluso che la relativa pretesa trovasse ostacolo nel giudicato formatosi per effetto della sentenza della Corte di cassazione, in quanto il danno era stato cagionato proprio dal rigetto del ricorso per cassazione. Ha quindi liquidato il danno nello importo complessivo di Euro 9.470.937,86, pari alla somma del capitale, degl’interessi legali maturati fino alla pronuncia della sentenza di appello e del maggior danno liquidato dalla sentenza di primo grado; ha individuato la data di produzione del danno in quella della pubblicazione della sentenza d’appello, e, qualificata l’obbligazione come debito di valore, ha ancorato alla medesima data la decorrenza della rivalutazione monetaria, quantificando il credito all’attualità in Euro 12.937.301,12, e riconoscendo in aggiunta gli interessi compensativi in misura legale sull’importo originario rivalutato anno per anno.
3. Avverso la predetta sentenza il Governo ha proposto ricorso per cassazione, articolato in tre motivi, illustrati anche con memoria. Hanno resistito con controricorsi, anch’essi illustrati con memoria, il P., che ha proposto a sua volta ricorso incidentale, affidato ad un solo motivo, nonchè C., O. e C.N. e Marbruna Marigo, già soci della C3.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con l’unico motivo del ricorso incidentale, il cui esame risulta logicamente prioritario rispetto a quello del ricorso principale, il P. denuncia la violazione dell’art. 345 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per aver rigettato nel merito l’appello incidentale proposto dal Governo, invece di dichiararne l’inammissibilità, rilevabile anche d’ufficio, in quanto avente ad oggetto una questione nuova: afferma infatti che l’applicabilità della L. n. 117 del 1998, in luogo dell’art. 2043 c.c., e l’inosservanza del termine di decadenza previsto dall’art. 4, comma 2, erano state eccepite per la prima volta nella comparsa conclusionale depositata in primo grado.
1.1. Il motivo è infondato.
Il divieto di proporre nuove eccezioni in sede di gravame, posto dall’art. 345 c.p.c., comma 2, si riferisce infatti esclusivamente alle eccezioni in senso stretto, cioè a quelle che, per espressa disposizione di legge, possono essere sollevate soltanto dalle parti, o quelle il cui fatto integratore, corrispondendo all’esercizio di un diritto potestativo azionabile in giudizio, presuppone, per essere produttivo di effetti modificativi, impeditivi o estintivi del rapporto giuridico, una manifestazione di volontà da parte del titolare (cfr. Cass., Sez. 1, 20/03/2017, n. 7107; Cass., Sez. 3, 19/05/2011, n. 11015; Cass., Sez. 2, 21/05/2007, n. 11774). Tra le predette eccezioni non possono essere annoverate quelle concernenti l’applicabilità del rito speciale previsto dalla L. n. 117 del 1988 per i giudizi in materia di responsabilità per danni cagionati dall’esercizio della funzione giudiziaria e il rispetto del termine stabilito a pena di decadenza per l’esercizio dell’azione, la cui inosservanza è rilevabile d’ufficio, trattandosi di questioni sottratte alla disponibilità delle parti: correttamente, pertanto, la sentenza impugnata le ha prese in esame, sebbene fossero state tardivamente sollevate in primo grado, non occorrendo a tal fine neppure l’appello incidentale, ma risultando sufficiente la riproposizione delle stesse ai sensi dell’art. 346 c.p.c., tenuto conto dell’omesso esame di tali questioni da parte del Giudice di primo grado e del difetto di soccombenza dell’Amministrazione (cfr. Cass., Sez. 2, 20/05/2011, n. 11259; Cass., Sez. lav., 13/05/2002, n. 6901; Cass., Sez. 3, 20/03/2001, n. 4009). La sentenza di primo grado si era infatti astenuta dal pronunciare in ordine alle predette eccezioni, avendole verosimilmente ritenute assorbite dall’affermazione dell’insussistenza dei presupposti prescritti dall’art. 2900 c.c., in virtù della quale aveva rigettato la domanda di risarcimento proposta dall’attore in via surrogatoria.
2. Con il primo motivo d’impugnazione, il Governo deduce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c., della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1, e dell’art. 2043 c.c., osservando che la Corte di merito ha travisato la portata della domanda, avendone individuato il titolo nell’illecito comunitario accertato dalla Corte di Giustizia UE con sentenza del 9 dicembre 2003, in causa C-129/00, anzichè, come risultava dall’atto di citazione, nella responsabilità dei giudici per l’interpretazione della L. n. 428 del 1990, art. 29 ed avendo quindi imputato allo Stato legislatore un’attività interpretativa dei giudici asseritamente contrastante con il diritto comunitario, con la conseguente erronea esclusione dell’applicabilità della L. n. 117 cit., art. 4, comma 3 e art. 5, comma 2. Aggiunge che tali disposizioni avrebbero dovuto trovare applicazione anche se la domanda fosse stata effettivamente rivolta nei confronti dello Stato legislatore, dal momento che, nell’affermare la responsabilità dello Stato italiano, la citata sentenza della Corte di Giustizia ne aveva ravvisato il fondamento nell’errata interpretazione della L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, ascrivibile alla Corte di cassazione, condannando lo Stato a riformulare quest’ultima disposizione soltanto perchè la controversia sottoposta al suo esame consisteva in una procedura d’infrazione. Sostiene infine che nella specie il termine biennale previsto della L. n. 117, art. 4, comma 3 e art. 5, comma 2, decorreva non già dalla data della sentenza della Corte di Giustizia che ha riconosciuto il diritto al risarcimento per le violazioni del diritto comunitario commesse da organi giurisdizionali, ma da quella della Corte di cassazione che aveva confermato il rigetto della domanda di rimborso.
2.1. Il motivo è infondato.
Com’è noto, in tema di responsabilità dello Stato giudice per violazione del diritto comunitario, il leading case è rappresentato dalla sentenza della Corte di Giustizia UE 30 settembre 2003, in causa C- 224/01, Kobler, la quale, nell’affermare che il principio secondo cui gli Stati membri sono obbligati a risarcire i danni causati ai singoli dalle violazioni del diritto comunitario ad essi imputabili si applica anche allorchè la violazione di cui trattasi deriva da una decisione di un organo giurisdizionale di ultimo grado, rilevò che tale responsabilità è disciplinata dalle medesime condizioni richieste in via generale, e cioè a) che la norma giuridica violata sia preordinata a conferire diritti ai singoli, b) che si tratti di violazione grave e manifesta, e c) che esista un nesso causale diretto tra la violazione dell’obbligo incombente allo Stato e il danno subito dai soggetti lesi. Con particolare riguardo alla seconda condizione, osservò tuttavia che la specificità della funzione giurisdizionale e le legittime esigenze di certezza del diritto prospettate dagli Stati membri impongono di ritenere sussistente la responsabilità solo “nel caso eccezionale in cui il giudice abbia violato in maniera manifesta il diritto vigente”; e precisò che, al fine di determinare se questa condizione sia soddisfatta, il giudice nazionale investito della domanda di risarcimento dei danni deve tenere conto di tutti gli elementi che caratterizzano la controversia sottoposta al suo sindacato, tra i quali a) il grado di chiarezza e di precisione della norma violata, b) il carattere intenzionale della violazione, c) la scusabilità o l’inescusabilità dell’errore di diritto, d) la posizione adottata eventualmente da un’istituzione comunitaria, nonchè e) la mancata osservanza, da parte dell’organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 c.c., comma 3 del Trattato; aggiunse infine che, in ogni caso, una violazione del diritto comunitario è sufficientemente caratterizzata “allorchè la decisione di cui trattasi è intervenuta ignorando manifestamente la giurisprudenza della Corte in questa materia”.
Muovendo dalla premessa, tratta da precedenti notissime sentenze, secondo cui “il principio della responsabilità dello Stato per danni causati ai singoli ha valore in riferimento a qualsiasi ipotesi di violazione del diritto comunitario commessa da uno Stato membro, qualunque sia l’organo di quest’ultimo la cui azione od omissione ha dato origine alla controversia” (cfr. sent. 5/03/1996, in C-46/93 e 48/93, Brasserie du Pecheur e Factor-tame; 19/11/1991, in C-6/90 e 9/90, Francovich), ed a dispetto delle preoccupazioni manifestate dagli Stati membri per un’indifferenziata estensione alla funzione giurisdizionale di canoni elaborati con riguardo ad altri settori, la predetta sentenza non si è curata d’individuare le caratteristiche differenziali della pretesa risarcitoria fondata sull’illecito in questione rispetto ad analoghe domande fondate su violazioni del diritto comunitario commesse da altri organi o poteri dello Stato; in proposito, essa si è limitata ad affermare che, “con riserva del diritto al risarcimento, che trova direttamente il suo fondamento nel diritto comunitario nel caso in cui queste condizioni siano soddisfatte, è nell’ambito delle norme del diritto nazionale relative alla responsabilità che lo Stato è tenuto a riparare le conseguenze del danno provocato, fermo restando che le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento”.
Tali principi hanno trovato sostanzialmente conferma anche nella successiva sentenza del 13 giugno 2006, in causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo, la quale, nel ribadire che la riconducibilità della violazione controversa all’interpretazione di norme giuridiche non consente di escludere, in linea generale, la responsabilità dello Stato membro per i danni arrecati ai singoli da violazioni del diritto comunitario imputabili ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, ha esteso tale responsabilità anche all’ipotesi in cui la violazione derivi dall’applicazione di specifiche norme relative all’onere della prova, al valore di tali prove o all’ammissibilità dei mezzi di prova, precisando inoltre che “il diritto comunitario osta altresì ad una legislazione nazionale che limiti la sussistenza di tale responsabilità ai soli casi di dolo o colpa grave del giudice, ove una tale limitazione conducesse ad escludere la sussistenza della responsabilità dello Stato membro interessato in altri casi in cui sia stata commessa una violazione manifesta del diritto vigente, quale precisata ai punti 53-56 della citata sentenza Kobler”. E’ a seguito di tale pronuncia che la L. 27 febbraio 2015, n. 18 ha modificato la L. 13 aprile 1988, n. 117, che disciplina della responsabilità civile dei magistrati, disponendo che costituisce colpa grave la violazione manifesta del diritto dell’Unione Europea (art. 2, comma 3) e che ai fini del relativo accertamento occorre tener conto, in particolare, del grado di chiarezza e precisione delle norme violate, dell’inescusabilità e della gravità dell’inosservanza, nonchè dell’inadempimento dell’obbligo di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 267, terzo paragrafo, del Trattato UE e del contrasto dell’atto o del provvedimento con l’interpretazione espressa dalla Corte di giustizia UE (art. 2, comma 3-bis).
E’ agli elementi costitutivi dell’illecito, così come risultanti dall’elaborazione del Giudice comunitario, che, in mancanza di un’espressa individuazione delle caratteristiche specifiche della domanda di risarcimento dei danni cagionati dall’esercizio della funzione giurisdizionale, occorre fare riferimento ai fini della distinzione della stessa dalla pretesa risarcitoria fondata sull’illecito comunitario commesso dallo Stato legislatore, per la cui proposizione non è richiesta l’osservanza del rito disciplinato dalla L. n. 117 del 1988, ed in particolare il rispetto del termine previsto dall’art. 4, comma 3. Non può infatti condividersi la tesi sostenuta dalla difesa erariale, secondo cui la circostanza che la violazione allegata a sostegno della domanda si sia consumata per il tramite di un provvedimento giurisdizionale avrebbe dovuto essere considerata di per sè sufficiente a giustificare l’applicabilità delle predette disposizioni: considerato che, anche quando è ricollegabile direttamente alla legge, la violazione del diritto comunitario si concretizza, per lo più, attraverso l’applicazione che ne viene fatta in sede giurisdizionale o amministrativa, la predetta opinione finirebbe con il rendere evanescente la stessa responsabilità dello Stato legislatore, rendendo praticamente impossibile distinguerla da quella dello Stato amministratore o dello Stato giudice; in caso di violazione mediata da una decisione giurisdizionale, essa imporrebbe poi un’applicazione indifferenziata della disciplina dettata dalla L. n. 117 del 1988, la cui ratio, consistente nel contemperamento delle esigenze dì tutela dei soggetti danneggiati con quelle di salvaguardia della indipendenza della funzione giurisdizionale, è invece collegata alle caratteristiche specifiche di tale funzione; tali caratteristiche sono state ritenute meritevoli di considerazione anche dalla giurisprudenza comunitaria, la quale, tuttavia, nel riconoscerne l’idoneità a giustificare l’introduzione di particolari restrizioni all’esercizio dell’azione risarcitoria, ne ha sottolineato l’eccezionalità, ribadendo in linea generale che “le condizioni stabilite dalle legislazioni nazionali in materia di risarcimento dei danni non possono essere meno favorevoli di quelle che riguardano reclami analoghi di natura interna e non possono essere congegnate in modo da rendere praticamente impossibile o eccessivamente difficile ottenere il risarcimento” (cfr. sent. 30/09/2003, C224/01). La specificità dell’illecito commesso nell’esercizio della funzione giurisdizionale è stata d’altronde evidenziata dalla stessa Corte di Giustizia, la quale, nel riconoscere da un lato che “l’interpretazione delle norme di diritto rientra nella essenza vera e propria dell’attività giurisdizionale, poichè, qualunque sia il settore di attività considerato, il giudice, posto di fronte a tesi divergenti o antinomiche, dovrà normalmente interpretare le norme giuridiche pertinenti – nazionali e/o comunitarie – al fine di decidere la controversia che gli è sottoposta”, ha affermato dall’altro che “non si può escludere che una violazione manifesta del diritto comunitario vigente venga commessa, appunto, nell’esercizio di una tale attività interpretativa, se, per esempio, il giudice dà a una norma di diritto sostanziale o procedurale comunitario una portata manifestamente erronea, in particolare alla luce della pertinente giurisprudenza della Corte in tale materia (…), o se interpreta il diritto nazionale in modo da condurre, in pratica, alla violazione del diritto comunitario vigente”.
Alla luce di tale precisazione, nonchè degli elementi costitutivi dell’illecito individuati dalla medesima Corte di Giustizia, la causa petendi della pretesa risarcitoria in questione può quindi essere individuata in una violazione manifesta del diritto comunitario, consumata da parte del giudice nazionale mediante l’attribuzione di una portata manifestamente erronea ad una norma comunitaria di diritto sostanziale o procedurale o mediante l’interpretazione del diritto nazionale in modo tale da condurre ad un risultato contrario al diritto comunitario; tale violazione deve riguardare una norma sufficientemente chiara e precisa e deve rivestire carattere d’intenzionalità o comunque d’inescusabilità, eventualmente testimoniato dall’inosservanza dello obbligo del rinvio pregiudiziale o dalla manifesta ignoranza della giurisprudenza comunitaria. Tali caratteristiche specifiche non si rinvengono nei fatti allegati a sostegno della domanda avanzata nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, il quale, pur ricollegando la lesione del diritto al rimborso dei tributi indebitamente corrisposti ad una palese violazione del diritto comunitario, asseritamente consumata dalla Corte d’appello di Roma e da questa Corte mediante l’interpretazione della L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, e richiamando in proposito la sentenza 30 settembre 2003, in causa C-224/01, non reca alcun riferimento agli altri elementi costitutivi dell’illecito, ed in particolare all’erroneità della predetta interpretazione ed all’intenzionalità o inescusabilità dell’errore, limitandosi ad evidenziare l’obiettiva contrarietà della predetta interpretazione al diritto comunitario. Lo stesso richiamo dell’attore alla sentenza della Corte di Giustizia UE 9 dicembre 2003, in causa C-129/00, non appare volto, nella logica dell’atto di citazione, ad evidenziare tanto l’esistenza di un contrario orientamento della giurisprudenza comunitaria in tema di rimborso dei tributi pagati in violazione delle norme comunitarie, e quindi un errore interpretativo commesso dal giudice nazionale, quanto l’inadempimento da parte del legislatore degli obblighi incombenti allo Stato in virtù dell’adesione al Trattato CE: decisiva, in tal senso, risulta la circostanza, opportunamente sottolineata dalla Corte distrettuale, che la predetta sentenza non fosse stata pronunciata in sede di rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato, e quindi per l’interpretazione di norme comunitarie, ma nell’ambito di una procedura d’infrazione promossa dalla Commissione a carico dello Stato italiano per la mancata modificazione della L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, e quindi per un illecito ascrivibile non già allo Stato giudice, ma allo Stato legislatore. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, sia pure soltanto sulla base di quest’ultimo rilievo, ha affermato che la domanda di risarcimento non era riconducibile alla L. n. 117 del 1988, art. 2 escludendo pertanto l’applicabilità del rito speciale previsto a tal fine, nonchè l’operatività del termine di decadenza di cui all’art. 4, secondo comma, della predetta legge.
3. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione della L. n. 117 del 1988, art. 2, comma 1, e degli artt. 2043 e 2909 c.c., censurando la sentenza impugnata per aver escluso l’operatività del giudicato formatosi a seguito della sentenza della Corte di cassazione n. 23/02, nonostante l’avvenuta qualificazione della domanda come pretesa risarcitoria fondata sulla responsabilità dello Stato legislatore per violazione del diritto comunitario, e la preclusione derivante dal rigetto della domanda di ripetizione delle somme indebitamente pagate dalla C3. Tale preclusione non poteva ritenersi esclusa dal contrasto della decisione con il diritto comunitario, non imponendo quest’ultimo la disapplicazione delle norme processuali interne che attribuiscono alla decisione l’autorità di cosa giudicata, neppure al fine di porre rimedio ad una violazione del diritto comunitario, e potendosi escludere l’opponibilità del giudicato, quale presupposto dell’azione risarcitoria, soltanto nel caso in cui la stessa sia rivolta contro lo Stato giudice.
3.1. Il motivo è infondato.
Nel ritenere configurabile la responsabilità dello Stato per i danni arrecati da violazioni del diritto comunitario commesse nell’esercizio della funzione giurisdizionale, la Corte di Giustizia UE ha avuto infatti cura di precisare che, nel caso in cui l’illecito sia ascrivibile ad un organo giurisdizionale di ultimo grado, l’esercizio dell’azione risarcitoria non può trovare ostacolo nel giudicato formatosi nell’ambito del procedimento in cui si è verificata la violazione: premesso che “un procedimento inteso a far dichiarare la responsabilità dello Stato non ha lo stesso oggetto e non implica necessariamente le stesse parti del procedimento che ha dato luogo alla decisione che ha acquisito l’autorità della cosa definitivamente giudicata”, ha rilevato che “il ricorrente in un’azione per responsabilità contro lo Stato ottiene, in caso di successo, la condanna di quest’ultimo a risarcire il danno subito, ma non necessariamente che sia rimessa in discussione l’autorità della cosa definitivamente giudicata della decisione giurisdizionale che ha causato il danno”, affermando comunque che “il principio della responsabilità dello Stato inerente all’ordinamento giuridico comunitario richiede un tale risarcimento, ma non la revisione della decisione giurisdizionale che ha causato il danno” (cfr. sent. 30/09/2003, in C-224/01, cit.). A maggior ragione deve quindi escludersi la configurabilità di una preclusione derivante dal giudicato allorquando, come nella specie, la lesione dei diritti del singolo non sia stata determinata dalla decisione giurisdizionale, la quale debba considerarsi semplicemente lo strumento attraverso il quale si è consumata la violazione del diritto comunitario, essendosi limitata a fare applicazione del diritto interno con lo stesso contrastante, senza incorrere manifestamente ed inescusabil-mente in errori interpretativi.
In contrario, non appare pertinente il richiamo della difesa erariale a più recenti pronunce, in cui la Corte di Giustizia ha affermato che “il diritto della Unione non esige (…) che, per tener conto dell’interpretazione di una disposizione pertinente di tale diritto offerta dalla Corte posteriormente alla decisione di un organo giurisdizionale avente autorità di cosa giudicata, questo ultimo ritorni necessariamente su tale decisione”: tali pronunce si riferiscono infatti al riesame della decisione in caso di riproposizione della medesima domanda o nell’ambito del medesimo procedimento in cui ha avuto luogo la violazione del diritto comunitario, in ordine al quale ribadiscono l’efficacia preclusiva del giudicato, osservando che “al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione” (cfr. sent. 3/09/2009, in C-2/08, Fallimento Olimpiclub). Esse non escludono pertanto la possibilità, già riconosciuta dalla sentenza Kobler, di procedere al riesame della questione che ha costituito oggetto del precedente giudizio ai soli fini della pronuncia in ordine alla domanda di risarcimento dei danni, ferma restando la decisione già adottata in ordine alla domanda proposta in quel giudizio, che costituisce d’altronde il presupposto della pretesa risarcitoria. Le medesime pronunce non hanno d’altronde escluso, in linea di principio, la possibilità di introdurre limitazioni all’efficacia preclusiva del giudicato, ammettendola anzi espressamente, a presidio del primato del diritto comunitario: il giudicato è stato infatti ritenuto non necessariamente preclusivo di un successivo rinvio pregiudiziale ai sensi dell’art. 234 del Trattato, in virtù dell’osservazione che, “qualora le norme procedurali interne applicabili prevedano la possibilità, a determinate condizioni, per il giudice nazionale di ritornare su una decisione munita di autorità di giudicato, per rendere la situazione compatibile con il diritto nazionale, tale possibilità deve essere esercitata, conformemente ai principi di equivalenza e di effettività, e sempre che dette condizioni siano soddisfatte, per ripristinare la conformità della situazione oggetto del procedimento principale alla normativa dell’Unione” (cfr. sent. 10/07/2014, in C-213/13, Impresa Pizzarotti & C. S.p.a.); in materia di IVA, è stato invece affermato che il giudicato non può impedire di rimettere in questione, in occasione di un controllo giurisdizionale relativo ad un’altra decisione dell’autorità fiscale competente concernente il medesimo contribuente o soggetto passivo, ma un esercizio fiscale diverso, qualsiasi accertamento vertente su un punto fondamentale comune contenuto in una decisione giurisdizionale che abbia acquistato efficacia di giudicato (cfr. sent. 3/09/2009, in C-2/08, cit.).
4. Con il terzo motivo, l’Amministrazione lamenta, in via subordinata, la violazione o la falsa applicazione dell’art. 2043 c.c. e dei principi in tema di responsabilità dello Stato legislatore, sostenendo che la sentenza impugnata non ha considerato che la violazione del diritto comunitario non era ascrivibile a quest’ultimo, già adeguatosi ai principi comunitari attraverso l’introduzione della L. n. 428 del 1990, art. 29 che poneva a carico dell’Amministrazione l’onere di provare il fatto impeditivo del rimborso, ma all’interpretazione restrittiva fornitane dalla giurisprudenza, rispetto alla quale doveva tuttavia trovare applicazione la L. n. 117 del 1988. Nel censurare la predetta interpretazione, attraverso il richiamo della sentenza della Corte di Giustizia UE del 9 dicembre 2003, in causa C-129/00, la sentenza impugnata ha proceduto ad una rivisitazione del precedente giudizio, pervenendo a conclusioni opposte alla sentenza n. 23/02, senza considerare che la valutazione dalla stessa compiuta non contrastava con i principi enunciati dalla Corte di Giustizia.
4.1. Il motivo è infondato.
A fondamento dell’affermata violazione del diritto comunitario, la sentenza impugnata ha infatti rilevato la contrarietà della L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, nell’interpretazione fornitane dapprima dalla Corte d’appello di Roma con la sentenza n. 1723/98 e poi da questa Corte con la sentenza n. 23/02, ai principi di diritto affermati dalla Corte di Giustizia UE nella sentenza del 9 dicembre 2003, in causa C-129/00.
Tale sentenza, com’è noto, costituiva il punto d’approdo di una complessa vicenda legislativa e giurisprudenziale originata dal D.L. n. 688 del 1982, art. 19 il quale subordinava il rimborso delle somme indebitamente corrisposte dal contribuente a titolo di diritti doganali alla prova, da fornirsi a mezzo di documenti, che l’onere relativo non era stato in qualsiasi modo trasferito su altri soggetti. Con sentenza del 9 novembre 1983, in causa C199/82, San Giorgio, pronunciata su rinvio pregiudiziale, la Corte di Giustizia CE ritenne che, nella parte in cui subordinava il rimborso di tributi nazionali riscossi in violazione del diritto comunitario alla prova che detti tributi non erano stati trasferiti su altri soggetti, tale disposizione contrastasse a sua volta con il diritto comunitario, non potendo uno Stato membro subordinare il predetto rimborso a criteri di prova che rendessero praticamente impossibile l’esercizio di tale diritto, e ciò anche nel caso in cui il rimborso di altri dazi, imposte o tasse riscossi in contrasto col diritto nazionale fosse sottoposto alle medesime condizioni restrittive. Sulla base di tali principi, nonchè di quelli enunciati dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 170 del 1984 e n. 113 del 1985, che avevano riesaminato il regime dei rapporti tra diritto comunitario e diritto interno, riconoscendo al giudice nazionale il potere di procedere direttamente alla disapplicazione delle norme interne contrastanti con quelle comunitarie, senza dover investire della questione il Giudice delle leggi, numerose sentenze dei giudici nazionali, ivi compresa questa Corte, nell’esaminare le domande di rimborso di tributi doganali indebitamente corrisposti, provvediero alla disapplicazione della predetta disposizione, in quanto ritenuta contrastante con il diritto comunitario (cfr. tra le altre, Cass., Sez. I, 23/01/1987, n. 634; 16/04/1986, n. 2711; 7/04/ 1986, n. 2415).
Alla predetta pronuncia fece seguito la sentenza 24 marzo 1988, in causa C-104/86, con cui, nell’ambito di una procedura d’infrazione promossa dalla Commissione nei confronti dello Stato italiano, la Corte di Giustizia affermò che lo stesso, nell’imporre il predetto onere probatorio al contribuente, con l’art. 19 cit., e nell’attribuire a quest’ultimo efficacia retroattiva, era venuto meno agli obblighi ad esso imposti dagli artt. 5, 9 e ss. e 95 Trattato. Fu in ossequio a quest’ultima pronuncia che il legislatore intervenne nella materia in esame, attraverso l’introduzione della L. n. 428 del 1990, art. 29 il quale, nel dettare una disciplina specifica per il rimborso dei tributi riconosciuti incompatibili con le norme comunitarie, dispose, al comma 2, che il rimborso doveva aver luogo a meno che il relativo onere non fosse stato trasferito su altri soggetti. Tale disposizione fu interpretata da questa Corte nel senso che, oltre ad avere efficacia retroattiva, in quanto ne era espressamente prevista l’applicabilità anche nel caso in cui il rimborso riguardasse somme versate anteriormente alla data di entrata in vigore di detta legge, essa, a differenza del previgente del D.L. n. 688 del 1982, art. 19 configurava la mancata traslazione del tributo non più come elemento del fatto costitutivo del diritto al rimborso, bensì come fatto impeditivo del diritto stesso, con la conseguenza che l’onere della relativa prova incombeva all’Amministrazione doganale (cfr. Cass., Sez. 5, 19/10/2001, n. 12787; Cass., Sez. 1, 25/02/1998, n. 2061; 22/07/1995, n. 8045). Fu inoltre precisato che, ai fini dell’adempimento del predetto onere, l’Amministrazione poteva avvalersi di qualsiasi mezzo di prova, ivi compresi l’esibizione delle scritture contabili e l’ausilio di un consulente tecnico, e lo stesso giudice poteva, ove ne ricorressero le condizioni, far ricorso alla prova per presunzioni, la quale era da considerarsi una prova completa, non relegabile in una posizione inferiore rispetto alle altre, purchè sorretta da argomentazioni immuni da vizi logici e giuridici (cfr. Cass., Sez. 5, 4/02/2004, n. 2089; Cass., Sez. 1, 7/03/1997, n. 2086; 1/09/1995, n. 9215).
A quest’ultimo indirizzo si conformarono, nella specie, la sentenza n. 1723/98 della Corte d’appello di Roma e la sentenza n. 23/02 di questa Corte, le quali, come si evince dalla sentenza impugnata, rigettarono la domanda proposta dalla C3, avente ad oggetto il rimborso delle somme indebitamente corrisposte a titolo di sovrapprezzo per l’importazione di zucchero (dichiarato a sua volta incompatibile con la normativa comunitaria: cfr. Corte di Giustizia CE, 25 maggio 1977, in causa C-77/76, Cucchi; 21 maggio 1980, in causa C-73/79), ritenendo provata l’avvenuta traslazione del tributo, sulla base di elementi indiziari forniti dall’Amministrazione e ritenuti sufficienti dalle predette sentenze. Senonchè, è intervenuta successivamente la sentenza della Corte di Giustizia UE 9 dicembre 2003, n. 129/00, pronunciata nell’ambito di una procedura d’infrazione promossa nei confronti dello Stato italiano, la quale, dopo aver ribadito in via generale che l’Amministrazione nazionale non può opporsi al rimborso di diritti e tributi incompatibili con il diritto comunitario, illegittimamente pretesi o indebitamente riscossi, invocando la presunzione che gli stessi sono stati traslati su terzi e ponendo a carico del contribuente la prova di tale presunzione, ha affermato che la L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 2, così come applicato in sede amministrativa e giurisdizionale, si pone in contrasto con il diritto comunitario: ha infatti osservato che, in materia d’imposte indirette, non è ammissibile la presunzione che il contribuente abbia trasferito il tributo a valle della catena delle vendite, in quanto tale circostanza, impedendo al contribuente che volesse ottenere il rimborso di fornire la prova del contrario, renderebbe praticamente impossibile, o eccessivamente difficile, ottenere il rimborso.
E’ proprio in virtù del predetto contrasto che la sentenza impugnata ha ritenuto configurabile la violazione del diritto comunitario, evidenziando come il ricorso a presunzioni fondate sull’inclusione del sovrapprezzo nel prezzo di vendita dello zucchero e sulla qualità di intermediaria rivestita dalla società attrice risultasse, per l’intrinseca equivocità di tali elementi, incompatibile con i principi affermati dalla Corte di Giustizia UE, e nel frattempo recepiti dalla stessa giurisprudenza di legittimità: quest’ultima, infatti, adeguandosi all’interpretazione fornita dal Giudice comunitario, e richiamando anche i principi enunciati dalle sentenze 14 gennaio 1997, in causa C192/95, Comateb, e 2 ottobre 2003, in causa C-147/01 Webers Wine World Handels Gmbh, secondo cui l’avvenuta traslazione del tributo non può impedirne la restituzione se non viene dimostrato che, a seguito di quest’ultima, il rimborso determina un ingiustificato arricchimento del soggetto, aveva affermato che l’utilizzazione di elementi indiziari non può risolversi in una mera enunciazione di criteri astratti o di generiche regole di esperienza, non accompagnata da un’adeguata analisi delle operazioni imponibili, delle condizioni e dell’attività dell’impresa e del mercato di riferimento, ma è ammissibile soltanto a condizione che gli stessi possiedano i requisiti di cui all’art. 2729 c.c., risultando contrario ai principi comunitari di effettività e non discriminazione il ricorso a presunzioni semplici, prive dei suddetti requisiti, pur previsto a favore dell’Amministrazione finanziaria in settori particolari del diritto tributario (cfr. Cass., Sez. 1, 16/05/2007, n. 11224; 24/05/2005, n. 10939).
Non può condividersi l’affermazione del ricorrente, secondo cui, attraverso il confronto tra le predette decisioni e quelle adottate nel precedente giudizio, la Corte distrettuale avrebbe proceduto ad un riesame del merito della controversia riguardante il diritto al rimborso, in contrasto con il giudicato formatosi in ordine alla relativa esclusione e con l’oggetto stesso del giudizio risarcitorio, come individuato dalle richiamate sentenze della Corte di Giustizia UE: se è vero, infatti, che tale oggetto è diverso da quello del giudizio nel quale si è verificata la violazione, consistendo nell’accertamento delle condizioni richieste per l’affermazione della responsabilità dello Stato, è anche vero, però, che, come precisato dal Giudice comunitario, tale accertamento presuppone in primo luogo la verifica dell’intervenuta applicazione in concreto della norma contrastante con il diritto comunitario, nonchè della conformità di tale applicazione al diritto interno o dell’eventuale sussistenza di un errore interpretativo o comunque di un risultato applicativo concretamente contrastante con le norme comunitarie. Non merita pertanto censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, ripercorrendo il ragionamento logico-giuridico seguito dalle sentenze emesse nel precedente giudizio, ne ha affermato la contrarietà ai principi comunitari, ponendo in risalto l’equivocità degli elementi indiziari utilizzati ai fini della prova della traslazione del tributo, ed ha concluso per la contrarietà al diritto comunitario del risultato pratico ottenuto attraverso l’applicazione della norma interna.
L’affermazione conclusiva della Corte distrettuale, secondo cui una corretta applicazione della L. n. 428 del 1990, art. 29rispettosa dei principi di diritto enunciati dalla Corte di Giustizia UE, avrebbe comportato la conferma in appello della sentenza emessa in primo grado, che aveva accolto la domanda di rimborso, non può considerarsi infine sufficiente a giustificare l’imputazione della responsabilità allo Stato giudice, piuttosto che allo Stato legislatore, non emergendo da alcuna parte della sentenza impugnata, e non essendo stato invero neppure dedotto, che l’interpretazione della predetta disposizione fornita dalla sentenza d’appello e da quella di cassazione fosse manifestamente ed inescusabilmente errata. Nessun rilievo può assumere, in contrario, la circostanza che la sentenza n. 23/02 di questa Corte fosse stata preceduta da ben due sentenze della Corte di Giustizia UE, avendo le stesse ad oggetto il D.L. n. 688 del 1982, art. 19 nel frattempo abrogato e sostituito dalla L. n. 428 del 1990, art. 29 la cui contrarietà al diritto comunitario, pur trovando fondamento in analoghi principi, fu dichiarata in epoca successiva alla conclusione del giudizio. Tale dichiarazione, peraltro, non ha affatto condotto alla definitiva esclusione dell’utilizzabilità delle presunzioni quali mezzi di prova dell’avvenuta traslazione del tributo da parte del contribuente, ma ha soltanto indotto la giurisprudenza di legittimità ad individuare con maggior precisione l’oggetto della prova indiziaria, nonchè ad esigere una più rigorosa valutazione degli elementi acquisiti; la predetta esclusione ha avuto invece luogo soltanto per effetto della L. 6 febbraio 2007, n. 13, art. 21 che ha modificato dell’art. 29 cit., il comma 2 confermando che il rimborso del tributo è dovuto a meno che il relativo onere non sia stato trasferito su altri soggetti, ma precisando che tale circostanza non può essere assunta dagli uffici tributari a mezzo di presunzioni (cfr. Cass., Sez. 5, 1/10/2015, n. 19618).
5. Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati.
La reciproca soccombenza giustifica l’integrale compensazione delle spese processuali tra le parti.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa integralmente le spese processuali.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma dell’art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 5 giugno 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
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