LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ANTONIO Enrica – Presidente –
Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –
Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –
Dott. GHINOY Paola – Consigliere –
Dott. CALAFIORE Daniela – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 26644-2013 proposto da:
C.M., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA FLAMINIA 48, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MORLINO, rappresentato e difeso dall’avvocato BIAGIO MECCARIELLO;
– ricorrente –
contro
I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l’Avvocatura Centrale dell’Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati EMANUELA CAPANNOLO, MAURO RICCI, CLEMENTINA PULLI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1545/2013 del TRIBUNALE di BENEVENTO, depositata il 02/07/2013 R.G.N. 527/2013.
RILEVATO
che:
il Tribunale di Benevento, con la sentenza numero 1545 del 2013, rigettava il ricorso con il quale C.M., dopo aver esperito il procedimento di accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c., chiedeva il riconoscimento dello stato di invalidità al 100% con diritto all’indennità di accompagnamento dalla data della presentazione della domanda di verifica del 5 dicembre 2011;
il Giudice monocratico dichiarava di condividere la valutazione effettuata dal consulente tecnico d’ufficio nominato in sede di a.t.p.o., che aveva accertato la insussistenza dei requisiti per l’indennità di accompagnamento, in quanto corretta ed esente da vizi; aggiungeva che le contestazioni alla consulenza tecnica proposte con il ricorso erano del tutto generiche, limitandosi a sostenere l’erroneità di quanto accertato dall’ausiliare, senza specifiche argomentazioni; condannava poi il ricorrente al pagamento della metà delle spese processuali, malgrado la sussistenza dei requisiti reddituali per l’esonero dalle spese previsto dall’art. 152 disp. att. c.p.c., nell’attuale formulazione, ritenendo sussistente la responsabilità aggravata di cui all’art. 96 c.p.c., comma 1, posto che il ricorrente aveva introdotto un giudizio inutile cagionando spese del tutto ingiustificate;
per la cassazione della sentenza C.M. ha proposto ricorso, affidato a tre motivi, cui ha resistito l’Inps con controricorso.
CONSIDERATO
che:
Come primo motivo, la parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 152 disp. att. c.p.c., e degli artt. 91,96 e 112 c.p.c.. Lamenta che ingiustamente il Tribunale l’abbia condannata al pagamento delle spese processuali, essendo ella nelle condizioni reddituali che espressamente escludono la predetta condanna. Aggiunge che la condanna non avrebbe potuto essere pronunciata ai sensi dell’art. 96 c.p.c., comma 1 la cui applicazione è consentita dall’art. 152 disp. att. c.p.c., in quanto sarebbe stata allo scopo necessaria l’istanza di parte;
il motivo è fondato;
questa Corte di cassazione (Cass. n. 24526 del 2015) in fattispecie analoga ha affermato che l’art. 152 disp. att. c.p.c. nel testo che risulta per effetto delle modifiche introdotte dal D.L. n. 269 del 2003, conv. nella L. 326 del 2003, prevede le condizioni per l’esonero dal pagamento delle spese, competenze ed onorari di giudizio nei giudizi promossi per ottenere prestazioni previdenziali o assistenziali, condizioni che nel caso sussistevano;
la norma richiamata fa salva la possibilità di applicare comunque, nella ricorrenza delle relative condizioni, l’art. 96 c.p.c., comma 1, che disciplina la lite temeraria;
tale previsione è considerata una fattispecie risarcitoria con funzione compensativa del danno cagionato dal c.d. illecito processuale, derivante dalla proposizione di una lite temeraria. Presuppone la soccombenza nel grado di giudizio in cui è disposta e si configura come una species riconducibile al genus della responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 cc. (così Cass. n. 9080 del 15/04/2013);
condizione per il riconoscimento dei danni ai sensi dell’art. 96, comma 1 – a differenza di quanto previsto per la condanna disciplinata dal comma 3, introdotto dalla L. n. 49 del 2009, art. 45 comma 12 – è l’istanza della parte, che deve altresì assolvere all’onere di allegare (almeno) gli elementi di fatto necessari alla liquidazione, pur equitativa, del danno lamentato (Cass. Sez. U, Ord. n. 7583 del 20/04/2004, Sez.U, Ord., n. 1140 del 19/01/2007);
diversa natura e funzione assolve invece la pronuncia regolata dagli artt. 91 e 92 c.p.c., cui la condanna ex art. 96 c.p.c.può accedere, che ha la funzione regolativa del carico delle spese processuali, ha riguardo all’esito complessivo della lite e prescinde dall’istanza di parte;
seppure nell’ambito di tale regolamentazione può rilevare la violazione del dovere di comportarsi in giudizio con lealtà e probità, poichè l’art. 92 c.p.c., prevede che per la violazione dell’art. 88 c.p.c., il giudice possa procedere all’imposizione del carico delle spese anche non ripetibili causate alla controparte, indipendentemente dalla soccombenza, la distinzione tra gli artt. 88-92 c.p.c. e l’art. 96 c.p.c., comma 1 rimane chiara, giacchè nel primo caso è resa sanzionabile d’ufficio la scorrettezza processuale con ricadute sulla regolamentazione delle spese, mentre nel secondo si consente la risarcibilità di un danno in esito alle richieste e deduzioni della parte. Solo la seconda pronuncia è consentita, qualora ne ricorrano i presupposti, nella sussistenza delle condizioni previste per l’esonero dalle spese dall’art. 152 disp. att. c.p.c.;
il Tribunale, laddove ha ritenuto di poter procedere alla condanna alle spese della ricorrente richiamando l’art. 96 c.p.c., comma 1 e prescindendo dall’istanza di parte, che non l’aveva formulata, non ha fatto quindi corretta applicazione della normativa richiamata ed ha confuso i presupposti e la funzione di tale norma con quelli degli artt. 91 e 92 c.p.c..;
come secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. e la conseguente nullità della sentenza o del procedimento e lamenta che il giudice di merito non si sia pronunciato sulla domanda contenuta nel ricorso, con la quale si lamentava che il consulente tecnico, dopo aver trasmesso la relazione al procuratore della ricorrente in data 17/12/2012, non avesse tenuto conto delle osservazioni alla relazione trasmessegli in data 20/12/2012, così rendendosi ìnottemperante all’ordinanza che gli imponeva di elaborare una sintetica valutazione sulle osservazioni delle parti e di trasmetterla contestualmente alle stesse. Aggiunge che il consulente non avrebbe fatto il minimo cenno alla situazione patologica sofferta dalla periziata nel periodo intercorrente tra la data della domanda amministrativa e quella dell’espletamento della visita peritale;
il motivo è inammissibile, incorrendo nella violazione del principio di autosufficienza che risulta ora tradotto nelle puntuali e definitive disposizioni contenute nell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4. E difatti, non è riportato nel ricorso il contenuto della c.t.u., nè dell’ordinanza del 18/10/2012 che sarebbe stata violata nel procedimento adottato dall’ausiliare, sicchè per la valutazione della sua fondatezza sarebbe necessaria un’inammissibile ricerca e verifica degli atti solo richiamati;
lo svolgimento processuale così come riferito in ricorso manifesta peraltro il rispetto della scansione temporale prevista dall’art. 195 c.p.c., applicabile anche al procedimento per a.t.p.o., considerato che il consulente tecnico, dopo avere redatto la bozza dell’elaborato, l’aveva inviata al procuratore costituito in data 17/12/2012 a mezzo fax; in data 20/12/2012 venivano inviate osservazioni alla consulenza medica dal difensore della parte ricorrente e la perizia conclusiva del consulente veniva depositata in cancelleria il 15/1/2013;
come terzo motivo, il ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 445 bis c.p.c., omessa od insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia e lamenta che il Tribunale abbia ritenuto la necessità che le contestazioni alla c.t.u. proposte con il ricorso giudiziario siano analitiche e dettagliate, in assenza di alcun disposto normativo che stabilisca che esse non possono limitarsi ad una generica contestazione dei risultati del consulente tecnico. Aggiunge che le contestazioni nel caso erano puntualmente argomentate, richiamando le osservazioni alla consulenza medica inviate all’ausiliare il 20/12/2012, già ribadite in sede di giudizio per a.t.p.;
il motivo non è fondato;
l’art. 445 bis c.p.c., comma 6 prevede che nel ricorso introduttivo del giudizio debbano essere specificati, a pena di inammissibilità, i motivi di contestazione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio nominato in sede di a.t.p.o.. La previsione si pone in linea con il dichiarato fine dell’introduzione dell’art. 445 bis c.p.c.., che è stato quello di realizzare una maggiore economicità dell’azione amministrativa, di deflazionare il contenzioso e di contenere la durata dei processi previdenziali nei termini di ragionevolezza sanciti dalla Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Essa contribuisce quindi a scoraggiare giudizi di merito fondati su ragioni meramente contrappositive alle conclusioni del c.t.u, richiedendo che le argomentazioni che vengono formulate (“specificate”) propongano le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dall’ausiliare del Giudice ed esplicitino in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte;
le doglianze proposte avverso le conclusioni del c.t.u., recepite dal Tribunale, sono peraltro inammissibili. Viene infatti sommariamente trascritta la pagina del ricorso dalla quale si rileva che, al di là dell’indicazione generica delle malattie di cui soffre il ricorrente, venivano valorizzati al fine di dimostrare l’esistenza dei presupposti di assenza di autonomia i certificati medici del 5 dicembre 2011 e del 24/10/2012, il cui contenuto è trascritto solo in parte, nè risultano indicati come allegati al ricorso;
in definitiva, il primo motivo di ricorso deve essere accolto e vanno rigettati gli altri; non essendo necessari accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito ex art. 384 c.p.c., comma 2, dichiarandosi non dovute da parte di C.M. le spese del giudizio di merito;
le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico dell’Istituto contro ricorrente in applicazione del principio della soccombenza;
l’accoglimento parziale del ricorso preclude il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, previsto dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso e rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e, decidendo nel merito, dichiara non dovute le spese processuali della parte soccombente per il giudizio di merito. Condanna l’Inps al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 2500,00 per compensi oltre ad Euro 200,00 per esborsi; spese forfettarie nella misura del 15% e spese accessorie di legge.
Così deciso in Roma, il 21 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019
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