LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Presidente –
Dott. LORITO Matilde – Consigliere –
Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –
Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –
Dott. CIRIELLO Antonella – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 2468-2018 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., C.F. *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DELLE TRE MADONNE 8, presso lo studio dell’avvocato MARCO MARAZZA, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
D.Z.G., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA PIA DI TORRENOVA 165, presso lo studio dell’avvocato MARIANGELA PETRILLI, rappresentato e difeso dall’avvocato GABRIELE SILVESTRI;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 915/2017 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 16/11/2017, R.G.N. 542/2017.
RILEVATO
che la Corte di appello di L’Aquila, con sentenza n. 915 del 16.11.2017, ha rigettato il reclamo di Poste Italiane s.p.a. avverso la sentenza del Tribunale della medesima città, con la quale era stata dichiarata la illegittimità del licenziamento per giusta causa intimato il 18.1.12 a D.Z.G., dipendente con mansioni di portalettere della odierna ricorrente, per avere reiteratamente immesso prodotti postali di varia tipologia all’interno di una cassetta postale (nell’ambito della zona di recapito n. ***** del CPD di sua competenza) da tempo inutilizzata in quanto ubicata nella “zona rossa”, come tale inaccessibile, nel Comune di Lucoli, per insussistenza del fatto materiale (in quanto non addebitabile al lavoratore), nonchè per difetto di prova circa la riferibilità della condotta contestata al dipendente;
che contro tale sentenza ha proposto ricorso per cassazione Poste Italiane affidato a due motivi illustrati anche con memoria ex art. 380 bis1 c.p.c.;
che D.Z. ha resistito con controricorso illustrato con memoria;
che il P.G. non ha formulato richieste scritte.
CONSIDERATO
che con il ricorso per cassazione in sintesi si censura: 1) l’omesso esame e l’omessa congrua motivazione circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, riguardante il decreto di citazione a giudizio nei confronti del lavoratore per i reati p. e p. dagli artt. 81,61 n. 9 e 340 c.p., poichè tale atto, se considerato dalla Corte, avrebbe potuto da solo legittimare il licenziamento irrogato, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5; 2) la violazione e falsa applicazione degli artt. 2729,2730 e 2735 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 3, per essere, i giudici di appello, pervenuti ad una erronea valutazione delle risultanze istruttorie, segnatamente con riguardo alla confessione stragiudiziale resa dal lavoratore, che invece doveva essere tenuta in considerazione dalla corte ai fini della legittimità del licenziamento; l’omessa adeguata valutazione delle risultanze istruttorie (degradate a meri indizi, cfr. pag. 19 del ricorso mentre sarebbero stati indizi gravi, precisi e concordanti); avrebbe altresì errato la corte territoriale non tenendo conto del fatto che la confessione resa alla teste S. doveva considerarsi spontanea, e che la stessa assumeva gli elementi tipici di cui all’art. 2730 c.c., risultando presenti la consapevolezza di riconoscere un fatto a se sfavorevole da cui derivi un concreto pregiudizio per il dichiarante, anche alla luce della mancanza di idonee giustificazioni da parte di D.Z., che aveva reso allegazioni inverosimili o contraddittorie (cfr. pag.16/17 ricorso) ed in presenza della prova documentale del suo inadempimento;
che il primo motivo è inammissibile, giacchè, dalla mera lettura dello stesso, emerge come non sia formulato in maniera rispondente al paradigma deduttivo prescritto dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 ossia deducendo che sia stato omesso l’esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia cfr.: Cass. s.u. 7.4.14, n. 8053; Cass. 10.2.15, n. 2498; Cass. 21.10.15, n. 21439);
che, il motivo quindi, si risolve in un’inammissibile critica della valutazione delle risultanze processuali effettuata dal giudice d’appello, alla quale ne contrappone una difforme, sollecitando questa Corte ad esprimere un giudizio di merito, non consentito in sede di legittimità;
che, peraltro, il motivo è inammissibile anche ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., a tenore del quale il vizio di motivazione non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme”, come nella fattispecie di causa (Cass. 10.3.14, n. 5528; Cass.22.12.16, n. 26774);
che il secondo motivo è infondato, non risultando ricorrere gli invocati elementi di cui all’art. 2735 c.c. come correttamente ha ritenuto la corte territoriale, nè risultando violati altrimenti i criteri di valutazione della prova.
Ed infatti, questa corte ha chiarito, al riguardo, in termini generali, che una dichiarazione è qualificabile come confessione ove sussistano un elemento soggettivo, consistente nella consapevolezza e volontà di ammettere e riconoscere la verità di un fatto a sè sfavorevole e favorevole all’altra parte, ed un elemento oggettivo, che si ha qualora dall’ammissione del fatto obiettivo, il quale forma oggetto della confessione escludente qualsiasi contestazione sul punto, derivi un concreto pregiudizio all’interesse del dichiarante e, al contempo, un corrispondente vantaggio nei confronti del destinatario della dichiarazione. (Sez. L -, Sentenza n. 12798 del 23/05/2018, Rv. 648983 – 01).
Nel caso di specie, tuttavia, la corte di appello, esaminando i fatti di causa con adeguata motivazione, li ha ricostruiti evidenziando una non spontaneità nella dichiarazione del lavoratore (cfr. pag. 5 punto 5 della sentenza impugnata, ove la corte ha evidenziato come il lavoratore fu “pressato dalla direttrice” a rendere la dichiarazione) e valutando altresì gli altri elementi indiziari, per escludere la loro rilevanza ai fini della riferibilità al lavoratore della condotta contestata; che non sussiste, pertanto, se non per il formale tenore della rubrica, la denuncia di violazione di norme di diritto, siccome non integrata dagli appropriati requisiti di erronea sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta regolata dalla disposizione di legge, mediante specificazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina (Cass. 15 gennaio 2015, n. 635; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 31 maggio 2006, n. 12984).
che esso, dunque, si risolve piuttosto in una contestazione della valutazione probatoria della Corte d’appello, tendente ad un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità, quando la motivazione sia corretta, logicamente congrua ed esente da vizi giuridici (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288;Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), come appunto nel caso di specie.
che, pertanto il ricorso deve essere rigettato con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese di giudizio che liquida in Euro 3500,00 per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% oltre accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 maggio 2019
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