LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Presidente –
Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –
Dott. CAIAZZO Rosario – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 3534/2013 proposto da:
Cedisa S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via Valadier n. 39, presso lo studio dell’avvocato Sabia Vincenzo, che la rappresenta e difende giusta procura speciale per Notaio Dott. M.G., Salerno –
Rep. n. *****;
– ricorrente –
contro
ASL Salerno – Gestione Liquidatoria, ex USL ***** – Mercato San Severino, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Viale Mazzini n. 146, presso lo studio dell’avvocato Spaziani Testa Ezio, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato Romano Giuseppe, giusta procura in calce al ricorso, ed all’avvocato Siniscalchi Enrico, giusta procura speciale per Notaio L.S., Salerno, Rep. n. *****;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 790/2012 della CORTE D’APPELLO di SALERNO, depositata il 16/10/2012;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 28/03/2019 dal Cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.
FATTI DI CAUSA
La Corte d’appello di Salerno, con sentenza n. 790/2012, depositata in data 16/10/2012, – in controversia concernente un’opposizione, promossa dalla USL ***** di Mercato S. Severino, avverso il decreto ingiuntivo ottenuto dalla CE.DI.SA. spa per il pagamento della somma di Lire 7.370.847.788, a titolo di compenso per prestazioni specialistiche di diagnostica e di laboratorio rese nei mesi di gennaio e giugno 1993, in regime di convenzionamento esterno in favore di assistiti del Servizio Sanitario Nazionale, – ha confermato la decisione di primo grado, che aveva, revocato il decreto ingiuntivo opposto, condannato la USL ***** (poi divenuta Gestione Liquidatoria USL *****) a pagare alla società CEDISA la residua somma di Euro 153.799,46.
In particolare, i giudici d’appello hanno sostenuto che doveva essere condivisa la completa ed esaustiva valutazione compiuta dal consulente tecnico nominato in primo grado, dovendosi poi applicare alle prestazioni specialistiche in oggetto le tariffe come revisionate per effetto dell’entrata in vigore del nuovo nomenclatore tariffario costituente l’all. 1 al D.M. 7 novembre 1991, limitatamente alle sole prestazioni contrassegnate con la lett. “C” del suddetto nomenclatore tariffario: per le prestazioni non contrassegnate con la lett. “C” del nomenclatore tariffario allegato sub 1 al detto D.M. 7 novembre 1991 – cioè principalmente le tomografie assiali computerizzate o TAC – doveva essere escluso ogni compenso in mancanza di un’espressa autorizzazione, da parte dell’USL che avesse constatato l’impossibilità di erogare le prestazioni entro cinque giorni presso strutture pubbliche od i suoi stessi ambulatori, all’esecuzione delle prestazioni presso strutture private convenzionate.
Avverso la suddetta pronuncia, CE.DI.SA. spa propone ricorso per cassazione, affidato a cinque motivi, nei confronti della ASL Salerno-Gestione Liquidatoria ex USL ***** Mercato S. Severino (che resiste con controricorso). La controricorrente ha depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, sia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’erronea applicazione della L. n. 833 del 1978, D.P.R. 16 maggio 1980, dei D.P.R. n. 119 del 1988 e D.P.R. n. 120 del 1988, della Delib. G.R.C. n. 583 del 1981, successivamente revocata, e del D.M. 7 novembre 1991; 2) con il secondo motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, sia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’erronea applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., ed al principio di buona fede oggettiva nell’esecuzione del rapporto contrattuale; 3) con il terzo motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, sia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’erronea applicazione del principio di riparto dell’onere probatorio, ex art. 2697 c.c., per non avere la Corte d’appello motivato sulle critiche mosse da CEDISA alle conclusioni della CTU; 4) con il quarto motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, sia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’erronea applicazione degli artt. 1218,1460 e 2697 c.c., non avendo la Corte d’appello correttamente vagliato il riparto dell’onere probatorio tra opponente ed opposto ex art. 645 c.p.c., non rilevando che, non essendo in contestazione l’effettività delle prestazioni specialistiche svolte da CE.DI.SA., spettava alla USL dimostrare di non dovere pagare quanto dovuto o di dovere pagare in misura ridotta e la USL opponente non aveva neppure prodotto in giudizio le impegnative contestate; 5) con il quinto motivo, sia la violazione o falsa applicazione, ex art. 360 c.p.c., n. 3, sia l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione all’erronea applicazione dell’art. 75 c.p.c. e art. 2697 c.c., con riguardo all’assenza di legittimazione attiva in capo alla Gestione Liquidatoria ex USL *****, a muovere contestazioni in relazione ad impegnative ed ai crediti non appartenenti direttamente alla stessa ma relativi a prestazioni provenienti da altre USL della Campania e da altre Regioni diverse dalla Campania, per le quali essa aveva regolarmente incassato le relative somme dalle altre UU.SS.LL. in base ad un meccanismo di compensazione.
2. La prima censura è inammissibile.
La ricorrente contesta i riferimenti normativi posti dalla Corte territoriale a base dell’identificazione delle tariffe applicabili nel D.M. 7 novembre 1991, in luogo di quelle previgenti; essa invoca a tal fine – riproducendone il testo – l’atto di ricognizione intercorso con controparte in data 11.12.91, come pure la nota della Regione Campania del 12.3.90 (in punto di applicabilità del nomenclatore ex D.L. 27 aprile 1989, o del D.P.R. 16 maggio 1980 o del D.P.R. 23 marzo 1988, n. 119 e D.P.R. 23 marzo 1988, n. 120) ed altra normativa o corrispondenza regionale (soprattutto la nota n. 6066/92 del competente assessorato); per le prestazioni TAC, essa sottolinea di avere applicato le tariffe approvate con Delib. Giunta Regionale 3 febbraio 1981, n. 583, seguita da quella Delib. 25 ottobre 1983, n. 7033 (di ratifica del provvedimento n. 5480 del 25.5.83 del competente assessore) e da altra serie di provvedimenti della Regione; deduce essere stata da sempre abilitata ad erogare le prestazioni nella sola forma diretta, cioè convenzionata, attesa la peculiarità della sua condizione, che la avrebbe abilitata ad erogare le prestazioni secondo modalità anche difformi da quelle ordinariamente applicate per gli altri centri diagnostici; riferisce avere pure di recente la Giunta Regionale Campania ribadito (con Delib. 10 luglio 2008, n. 2129) l’applicabilità delle tariffe di cui al D.G.R.C. n. 378 del 1998; infine, la ricorrente richiama la decisione del Consiglio di Stato n. 5951/08, ribadendo l’applicabilità delle sole tariffe identificate dalla Giunta Regionale con Delib. 31 marzo 1981, n. 2840, di recepimento dell’accordo collettivo del 22.2.80; ricostruisce (alle pagine 36 e seguenti del ricorso) l’iter cronologico degli atti relativi alle convenzioni stipulate ed alle tariffe applicate.
Ora, nel ricorso, difetta l’indicazione delle trascrizioni e delle sedi processuali dei passaggi degli atti di merito in cui ciascuna di quelle doglianze è stata sottoposta ai giudice del merito e soprattutto, quanto alla tariffazione delle prestazioni comunque comprese nel nomenclatore, non viene neppure presa in considerazione la specifica ratio decidendi della Corte territoriale, che le ha reputate regolate dal sopravvenuto D.M. 7 novembre 1991 (tesi che, pertanto, non può venire utilmente messa in discussione in questa sede, a prescindere da qualunque considerazione sulla sua correttezza) (cfr. in tema Cass. 9588 e 9587/2015).
3. Il secondo motivo è inammissibile; con esso si lamenta la violazione, da parte della decisione della Corte territoriale, dei canoni di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., nel governo dei rapporti tra le parti; la doglianza, peraltro articolata in maniera del tutto generica, non risulta essere mai stata sollevata in precedenza, nelle fasi di merito, o, quantomeno, dal tenore del ricorso non risulta quando e dove esso sarebbe stato oggetto di prospettazione.
4. Il terzo motivo è inammissibile.
Con esso, la ricorrente contesta che la Corte d’appello si sia limitata a fare richiamo ad una consulenza tecnica insufficiente, approssimativa e generica.
Vero che “allorchè ad una consulenza tecnica d’ufficio siano mosse critiche puntuali e dettagliate da un consulente di parte il giudice che intenda disattenderle ha l’obbligo di indicare nella motivazione della sentenza le ragioni di tale scelta, senza che possa limitarsi a richiamare acriticamente le conclusioni del proprio consulente, ove questi a sua volta non si sia fatto carico di esaminare e confutare i rilievi di parte (incorrendo, in tal caso, nel vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5)” (Cass. 10688/2008; Cass. 25862/2011; Cass. 23637/2016; Cass. 15147/2018).
Ma da tali principi consegue che per censurare, sotto il profilo dell’insufficienza argomentativa, la motivazione della sentenza, che recepisca le conclusioni di una relazione di consulenza tecnica d’ufficio di cui, come nella specie, il giudice dichiari di condividere il merito, è anzitutto, necessario che la parte alleghi di aver mosso critiche alla consulenza tecnica d’ufficio già dinanzi al giudice a quo, e ne riporti, poi, per autosufficienza almeno i passaggi salienti onde consentirne la valutazione in termini di decisività e rilevanza (Cass. n. 10222 del 2009; n. 23530 del 2013; Cass. 15147/2018): e tale adempimento non risulta rispettato nel ricorso.
Ora, difetta, a sostegno dell’acriticità dell’adesione alle conclusioni dei consulenti tecnici di ufficio, l’indicazione analitica delle contestazioni svolte successivamente al deposito delle loro relazioni.
Peraltro, alla luce della nuova formulazione del vizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, non è sindacabile nella presente sede il giudizio espresso dalla Corte di merito in ordine all’insufficienza degli elementi probatori che avrebbero consentito l’esperimento della nuova indagine peritale (cfr. Cass. 7472/2017).
5. Il quarto motivo è infondato.
Per effetto dell’opposizione a decreto ingiuntivo, non si verifica alcuna inversione della posizione sostanziale delle parti nel giudizio contenzioso, nel senso che il creditore mantiene la veste di attore e l’opponente quella di convenuto con riguardo sia alla ripartizione dell’onere della prova che ai poteri ed alle preclusioni processuali rispettivamente previsti per ciascuna delle parti (Cass. del 01/03/2007 n. 04800, Cass. del 19/10/2015 n. 21101).
Ora, la Corte d’appello ha rilevato correttamente che era onere di CE.DI.SA. creditrice opposta fornire la prova e della effettività delle prestazioni diagnostiche e, anche, della correttezza del quantum azionato e quindi della corretta applicazione delle tariffe, dell’esistenza delle prescritte autorizzazioni e della regolarità formale delle prestazioni, il che, nella specie, non si erta verificato in relazione a numerose prestazioni dedotte a sostegno della domanda azionata in sede monitoria.
6. Il quinto motivo è inammissibile.
La giurisprudenza delle Sezioni Unite ha concluso, di recente, nel senso che la carenza di titolarità, attiva o passiva, del rapporto controverso, è rilevabile di ufficio dal giudice se risultante dagli atti di causa (Cass., Sez. U., 16/02/2016, n. 2951). E’ stato chiarito come il fatto che la questione dell’effettiva titolarità attiva e passiva del rapporto dedotto attenga al merito, rientrando nel problema della fondatezza della domanda, ossia della verifica della sussistenza del diritto quale fatto valere in giudizio, non significa che la difesa con la quale il convenuto neghi la sussistenza della titolarità costituisca un’eccezione in senso stretto. Anzi, attenendo appunto alla fondatezza della pretesa quale formulata, essa dev’essere verificata officiosamente dal giudice, come logico in base alle risultanze di causa. Motivo per cui l’eccezione del convenuto di non essere titolato passivo sarà anch’essa una mera difesa, in quanto tale non preclusa neppure in appello dall’art. 345 c.p.c.. Come spiegato dalle Sezioni Unite “è vero”, poi, “che dell’art. 167 c.p.c., comma 1, chiede al convenuto di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese prendendo posizione sui fatti posti dall’attore fondamento delle domanda, ma tale disposizione, contrariamente a quanto sancito nel comma successivo, non prevede decadenza. Pertanto, la questione che non si risolva in un’eccezione in senso stretto può essere posta dal convenuto anche oltre quel termine e può essere sollevata d’ufficio dal giudice. Essa può anche essere oggetto di motivo di appello, perchè l’art. 345 c.p.c., comma 2, prevede il divieto di nuove eccezioni che non siano rilevabili anche d’ufficio”. Deve al contempo rilevarsi che le citate Sezioni Unite precisano come “la presa di posizione assunta dal convenuto con la comparsa di risposta, può avere rilievo, perchè può servire a rendere superflua la prova dell’allegazione dell’attore in ordine alla titolarità del diritto. Ciò avviene nel caso in cui il convenuto riconosca il fatto posto dall’attore a fondamento della domanda oppure nel caso in cui articoli una difesa incompatibile con la negazione della sussistenza del fatto costitutivo”: anche in questo caso la prova il cui onere è a carico dell’attore potrà dirsi raggiunta; nè sarebbe consentito in seguito al convenuto, tanto meno in appello, proporre “una nuova esposizione dei fatti questa volta compatibile con la negazione del diritto”.
In definitiva, la negazione della titolarità della posizione soggettiva, elemento costitutivo della domanda fatta valere in giudizio, può essere eccepita in ogni fase del giudizio, ma “in cassazione solo nei limiti del giudizio di legittimità e sempre che non si sia formato il giudicato” ed il giudice può rilevare dagli atti la carenza di titolarità del diritto anche d’ufficio.
Tanto premesso, deve rilevarsi che nel motivo si prospetta, in maniera peraltro del tutto generica, che la Gestione Liquidatoria della USL ***** e prima ancora la stessa USL ***** non aveva titolo per contestare tutte quelle impugnative e prestazioni non riconducibili ad assistiti afferenti alla propria sfera di competenza diretta, atteso che la stessa USL era stata delegata da altre UU.SS.LL., appartenenti a Regioni diverse dalla Campania, per la custodia ed il pagamento delle relative impegnative e le diverse UU.SS.LL. interessate avevano rimborsato la USL ***** delle anticipazioni effettuate, senza contestare alcunchè.
Ora, è evidente che tale doglianza, di cui la sentenza impugnata nulla dice, implica un accertamento in fatto, precluso in questa sede di legittimità.
Questa Corte ha da tempo chiarito (Cass. 20518/2008; Cass. 2038/2019) che “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di Cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa” (nella specie, relativa alla dedotta mancata produzione del mandato generale alle liti, la S.C. ha dichiarato inammissibile il motivo del ricorso, rilevando che nel corso del giudizio di merito non risultava mai sollevata alcuna contestazione in ordine alla regolarità della costituzione della società convenuta).
Il motivo presuppone un mandato di altre Regioni non menzionato in sentenza e non specificamente individuato nel ricorso.
Peraltro, nella specie, la Gestione liquidatoria della USL ***** non ha agito per un recupero di credito, ma per ottenere la restituzione di quanto pagato in esecuzione del decreto ingiuntivo provvisoriamente esecutivo.
7. Tutti i vizi motivazionali sono inammissibili, in quanto a fronte di una sentenza impugnata pubblicata nell’ottobre 2012, fanno richiamo all’insufficienza e contraddittorietà della motivazione, anzichè enucleare fatti storici specifici oggetto di discussione tra le parti il cui esame sarebbe stato omesso dalla Corte d’appello.
8. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate, in favore della controricorrente, in complessivi Euro 10.000,00, a titolo di compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15h, ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019
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