Corte di Cassazione, sez. VI Civile, Ordinanza n.15843 del 12/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 1740-2018 proposto da:

A.E., A.A., A.F., AR.AL., elettivamente domiciliati in ROMA, LARGO LUIGI ANTONELLI 27, presso lo studio dell’avvocato PATRIZIA UBALDI, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROBERTO FABBRI;

– ricorrente –

contro

ALLIANZ SPA in persona del legale rappresentante, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 17/A presso lo studio dell’avvocato MICHELE CLEMENTE, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

C.M.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2638/2017 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA, depositata il 07/11/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 06/12/2018 dal Consigliere Relatore Dott. PELLECCHIA ANTONELLA.

RILEVATO

che:

1. A.F., A.A., Ar.Al. ed A.E., rispettivamente moglie e figli di A.N. convenivano innanzi al Tribunale di Ravenna C.M. e la Riunione Adriatica Sicurtà S.p.a., al fine di sentirli condannare al risarcimento dei pregiudizi patrimoniali e non patrimoniali subiti in ragione della morte del congiunto, avvenuta in seguito alle gravi lesioni riportate per essere stato investito mentre era alla guida della sua bicicletta dall’autocarro condotto dal C. e proveniente dalla direzione opposta. Nel procedimento penale instaurato a suo carico, C.M. aveva patteggiato la pena per il reato di cui all’art. 589 c.p.e. e all’art. 186 C.d.S.. In primo grado si costituiva la sola compagnia assicuratrice, che imputava l’intera responsabilità del sinistro al ciclista, avendo percorso contromano la corsia sulla quale viaggiava l’autocarro.

Con sentenza 174/2012, il Tribunale di Ravenna accertava la responsabilità del sinistro nella misura del 40% in capo al C. e del 60% in capo alla vittima, condannando i convenuti al risarcimento del 40% del danno non patrimoniale da perdita del rapporto parentale. Ad A.A. veniva altresì riconosciuto il diritto al risarcimento del 40% del danno patrimoniale, limitato alle spese funerarie.

2. Gli A. proponevano appello avverso la sentenza di prime cure. Si costituiva la Allianz s.p.a. (già R.A.S. S.p.a.) che insisteva sulla conferma della pronuncia del Tribunale.

Con sentenza 2638/2017, depositata il 7/11/2017, la Corte d’Appello di Bologna rigettava il gravame, condividendo la ricostruzione istruttoria operata in primo grado ed evidenziando l’ininfluenza del patteggiamento operato dal C. in sede penale, posto che anche la sentenza impugnata effettivamente ne riconosceva la responsabilità, malgrado la natura concorsuale con quella del danneggiato.

3. Avverso tale pronuncia i soccombenti propongono ricorso per cassazione, sulla base di quattro motivi. Allianz S.p.a. resiste con controricorso.

3.1. E’ stata depositata in cancelleria ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., e regolarmente notificata ai difensori delle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza, la proposta di inammissibilità del ricorso. Il ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

4. A seguito della discussione sul ricorso, tenuta nella camera di consiglio, reputa il Collegio, di condividere la proposta del relatore.

5.1. Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2043 e dell’art. 2054 c.c., comma 1, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, avendo la Corte errato nell’accertamento del nesso causale tra il comportamento dei soggetti coinvolti nel sinistro e le conseguenze da esso scaturenti.

5.2. Con la seconda censura, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 115 e 291 c.p.c., degli artt. 2727 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo errato la Corte nell’attribuire alla dichiarazione di contumacia del convenuto un effetto di aggravamento dell’onere probatorio di parte attrice, escludendo, per contro, ogni rilevanza all’intervenuto patteggiamento della pena ex art. 444 c.p.c..

5.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2043 e dell’art. 2054 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, non essendo stato provato dalla parte convenuta alcun elemento idoneo a superare la presunzione di corresponsabilità; quindi, la Corte d’Appello avrebbe dovuto concludere per la ripartizione della responsabilità nella misura del 50% a carico del danneggiante.

5.4. Con il quarto motivo, il ricorrente si duole della violazione degli artt. 2043 e 1223 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, avendo la Corte errato nel rigettare l’impugnazione relativamente alla riduzione dell’entità del credito risarcitorio operata in prime cure nei confronti del figlio A.A. soltanto perchè sposato, e quindi non più convivente con il de cuius.

6. I motivi, suscettibili di essere esaminati congiuntamente, sono inammissibili per tre ordini di ragioni.

Innanzitutto le censure figurano quali critiche generiche alla sentenza d’appello, tramite le quali i ricorrenti si limitano ad esporre tesi alternative a quella adottata dal giudice di merito, così violando i principi enunciati dalle Sezioni Unite di questa Corte con le sentenze 8053-8054/2014. I ricorrenti non raffrontano la ratio decidendi della sentenza impugnata con la Giurisprudenza di legittimità, limitandosi a richiamare pronunce non strettamente attinenti alle questioni di diritto sottoposte all’attenzione del Collegio, senza peraltro svilupparvi intorno alcuna apprezzabile argomentazione.

A ciò si aggiunge l’evidenza per cui le doglianze sono dirette ad una rivalutazione dei fatti e degli atti processuali, esorbitando, così, i limiti propri del sindacato di legittimità. Infine si osserva che anche laddove i ricorrenti avessero censurato la sentenza d’appello sotto il profilo della motivazione, comunque la stessa sarebbe stata insuscettibile di cassazione, non rinvenendosi nell’iter argomentativo della Corte alcun vizio logico-giuridico meritevole di censura.

Per quanto riguarda poi il secondo motivo nella parte in cui lamentano che la Corte felsinea avrebbe violato la rilevanza probatoria della sentenza di patteggiamento e che sarebbe stata attribuita alla dichiarazione di contumacia del convenuto effetto di aggravamento dell’onere della probatorio di parte attrice si evidenzia che “La sentenza penale di patteggiamento, nel giudizio civile di risarcimento, non ha efficacia di vincolo nè di giudicato e neppure inverte l’onere della prova, costituendo, invece, un indizio utilizzabile solo insieme ad altri indizi se ricorrono i tre requisiti previsti dall’art. 2729 c.c., atteso che una sentenza penale può avere effetti preclusivi o vincolanti in sede civile solo se tali effetti siano previsti dalla legge, mentre nel caso della sentenza penale di patteggiamento esiste, al contrario, una norma espressa che ne proclama l’inefficacia agli effetti civili (art. 444 c.p.p.)” (Cass. n. 20170/2018). Ed infatti, la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti, ai sensi degli artt. 444 e 445 c.p.p., non ha, nel giudizio civile, l’efficacia di una sentenza di condanna, dovendo il giudice civile, in presenza di patteggiamento, decidere accertando i fatti illeciti e le relative responsabilità autonomamente, valutando, unitamente alle altre risultanze, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti.

Per quanto riguarda invece la seconda obiezione occorre evidenziare che la disciplina della contumacia ex artt. 290 c.p.c.ss. non attribuisce a questo istituto alcun significato sul piano probatorio, salva previsione espressa, con la conseguenza che si deve escludere non solo che essa sollevi la controparte dall’onere della prova, ma anche che rappresenti un comportamento valutabile, ai sensi dell’art. 116 c.p.c., comma 1, per trarne argomenti di prova in danno del contumace (Cass. n. 14860/2013).

Ebbene nel caso di specie il giudice del merito ha esaminato tutti gli elementi emersi dall’istruttoria preferendone alcuni rispetto ad altri compresa la sentenza di patteggiamento nè è, tantomeno, rinvenibile nella sentenza impugnata alcuna deroga al principio dell’onere della prova ma solamente l’applicazione del principio che non consente di ritenere come incontroversi i fatti dedotti ma non provati dall’attore.

Pertanto nessun vizio logico-giuridico è ascrivibile alla sentenza impugnata.

7. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

8. Infine, dal momento che il ricorso risulta notificato successivamente al termine previsto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1,comma 18, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla citata L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 3.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 6 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2019

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