Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.17318 del 27/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GIANCOLA Maria Cristina – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. VELLA Paola – rel. Consigliere –

Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –

Dott. SCORDAMAGLIA Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18846/2018 proposto da:

E.C., elettivamente domiciliato in Roma, Via Attilio Regolo N. 19, presso lo studio dell’avvocato Lipera Giuseppe, rappresentato e difeso dall’avvocato Coco Graziella, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di CALTANISSETTA, del 04/06/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 29/03/2019 dal Cons. Dott. VELLA PAOLA.

FATTI DI CAUSA

1. Il Tribunale di Caltanissetta ha rigettato il ricorso del cittadino nigeriano E.C. contro il diniego di riconoscimento dello status di rifugiato, o in subordine della protezione sussidiaria o in ulteriore subordine del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in ragione della ritenuta non attendibilità del richiedente, dell’insussistenza di una situazione di violenza indiscriminata derivante da conflitto armato nel Paese d’origine e dell’assenza di particolari situazioni di vulnerabilità, a tal fine non risultando sufficiente il “disturbo depressivo maggiore” diagnosticato presso la struttura di accoglienza, in difetto di ulteriore certificazione proveniente da struttura sanitaria pubblica. Il tribunale ha altresì ritenuto irrilevante la censura di nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale, reso dalla competente commissione territoriale, affermando l’inapplicabilità delle norme sulla lingua dei provvedimenti in materia di espulsione.

2. Avverso detta decisione il ricorrente ha presentato otto motivi di ricorso per cassazione. Il Ministero intimato non ha svolto difese.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Con il primo motivo si deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4 e art. 32, comma 4, nonchè del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7 e art. 24 Cost., con riguardo “alla eccepita nullità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per mancata comunicazione nella lingua del richiedente”. In particolare, richiamato il disposto del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4, ci si duole che il provvedimento amministrativo “non sia stato tradotto per intero in nessuna lingua comprensibile al richiedente”, il quale aveva “scelto di sostenere l’audizione in lingua Pudgin e comunicato alla Commissione territoriale che altra lingua dallo stesso conosciuta era il suo dialetto, ossia il Bini, e un pò di Italiano”.

3.1. La censura presenta profili di inammissibilità e infondatezza.

3.2. Essa innanzitutto è prospettata in modo del tutto generico, non essendo chiaramente allegati i due presupposti necessari della non conoscenza della lingua italiana (che il ricorrente afferma essere per lui “assolutamente incomprensibile”, pur deducendo di aver comunicato alla Commissione territoriale di conoscere, oltre alla lingua Pidgin e al dialetto Bini, anche “un pò di Italiano”) e della mancata traduzione in lingua nota al ricorrente, posto che proprio alla luce della disposizione invocata in ricorso – il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 10, comma 4 – le comunicazioni in materia di protezione internazionale vanno effettuate nella prima lingua indicata dal richiedente o, se ciò non è possibile, in lingua inglese, francese, spagnola o araba, secondo la preferenza indicata dall’interessato; preferenza che però nel caso di specie non viene indicata (in termini Cass. n. 5357/2019).

3.3. Va comunque ribadito il principio per cui, “in tema di protezione internazionale, l’obbligo di tradurre gli atti del procedimento davanti alla commissione territoriale, nonchè quelli relativi alle fasi impugnatorie davanti all’autorità giudiziaria ordinaria, è previsto dal D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 10, commi 4 e 5, al fine di assicurare al richiedente la massima informazione e la più penetrante possibilità di allegazione. Ne consegue che la parte, ove censuri la decisione per l’omessa traduzione, non può genericamente lamentare la violazione del relativo obbligo, ma deve necessariamente indicare in modo specifico quale atto non tradotto abbia determinato un “vulnus” all’esercizio del diritto di difesa ed in particolare, qualora deduca la mancata comprensione delle allegazioni rese in interrogatorio, deve precisare quale reale versione sarebbe stata offerta e quale rilievo avrebbe avuto” (Cass. 11871/2014, Cass. 24543/2011).

3.4. Resta inoltre fermo che l’eventuale nullità del provvedimento amministrativo emesso dalla Commissione territoriale in tema di protezione internazionale, per omessa traduzione in una lingua conosciuta dall’interessato o in una delle lingue veicolari, non esonera il giudice adito dall’obbligo di esaminare il merito della domanda, poichè oggetto della controversia non è il provvedimento negativo ma il diritto soggettivo alla protezione internazionale invocata, sulla quale comunque il giudice deve statuire, non rilevando in sè la nullità del provvedimento ma solo le eventuali conseguenze di essa sul pieno dispiegarsi del diritto di difesa (Cass. 27337/2018, 7385/2017), sicchè tale giudizio non può concludersi con una mera declaratoria d’invalidità del diniego amministrativo, ma deve pervenire alla decisione sulla spettanza o meno del diritto, ai sensi del D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 35, comma 10 (Cass. 26480/2011).

3.5. Infine, questa Corte ha già avuto occasione di dichiarare “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto del D.P.R. n. 303 del 2004, art. 4 (vigente “ratione temporis”), D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19 e art. 702 bis c.p.c., nonchè della L. n. 2248 del 1865, artt. 4 e 5, in relazione agli artt. 3,24 e 10 Cost. ed all’art. 6 Cedu, per le diverse conseguenze derivanti dalla mancata traduzione del provvedimento della Commissione territoriale rispetto a quelle derivanti dalla mancata traduzione del decreto di espulsione di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7, poichè, nel primo caso, il disposto del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 19, comma 9, oggi del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35 bis – che richiede una statuizione di merito in ordine alla spettanza o meno del diritto alla protezione internazionale, senza prevedere una decisione di mero annullamento del provvedimento negativo della Commissione territoriale – si giustifica poichè la rimozione di tale atto non è idonea ad incidere sulla situazione giuridica sostanziale del richiedente protezione, mentre, nel secondo caso, l’annullamento del provvedimento di espulsione di per sè ripristina il diritto sostanziale dell’espellendo illegittimamente inciso, così realizzando il suo interesse protetto ponendo termine al processo. E’, inoltre, infondato il richiamo all’art. 24 Cost. e art. 6 Cedu poichè il diritto ad un equo processo risulta garantito pienamente, al pari di quello dell’espellendo, mediante la possibilità per il richiedente di adire il giudice e così dispiegare compiutamente ogni sua difesa nell’ambito del processo” (Cass. 30105/2018).

4. Con i motivi dal secondo al quarto si lamenta la “nullità della sentenza per omessa pronuncia ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 161 “nonchè la violazione e/o falsa applicazione, rispettivamente: i) del D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 4,28 e 32, “in merito alla eccepita nullità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per violazione dei principi di correttezza e buon andamento dell’attività amministrativa (art. 97 Cost.)”, con riguardo alla “mancata indicazione della composizione della Commissione Territoriale”; ii) “del D.P.R. 28 dicembre 2000, art. 18 (…) in merito alla eccepita nullità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per violazione dei principi di correttezza e buon andamento dell’attività amministrativa ed eccesso di potere”, con riguardo alla “mancata attestazione di conformità all’originale dell’atto notificato”; iii) del D.L. n. 13 del 2017, art. 14, convertito in L. n. 46 del 2017, “in merito alla eccepita nullità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per mancata attestazione dei motivi per cui il colloquio non è stato videoregistrato”; iv) della L. n. 241 del 1990, art. 3, “in merito alla eccepita nullità del provvedimento di diniego della protezione internazionale per la mancata indicazione dell’autorità giudiziaria competente a cui presentare il ricorso”.

6. Tutte le suddette censure sono inammissibili sia perchè formulate senza il rispetto del principio di autosufficienza del ricorso, sia alla luce del consolidato orientamento di questa Corte – in parte già riferito sub. 3.4 – per cui, “in tema di immigrazione, la nullità del provvedimento amministrativo di diniego della protezione internazionale, reso dalla Commissione territoriale, non ha autonoma rilevanza nel giudizio introdotto dal ricorso al tribunale avverso il predetto provvedimento poichè tale procedimento ha ad oggetto il diritto soggettivo del ricorrente alla protezione invocata, sicchè deve pervenire alla decisione sulla spettanza, o meno, del diritto stesso e non può limitarsi al mero annullamento del diniego amministrativo” (Cass. 18632/2014, 23472/2017).

7. Con il quinto motivo si deduce cumulativamente: la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 9,comma 2 – in relazione alle valutazioni ed agli specifici accertamenti di cui al D.Lgs. n. 261 del 2007, artt. 7 e 8 – nonchè dell’art. 1, lett. a), Convenzione di Ginevra e D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. e), ed ancora l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il tutto in merito alla sussistenza dei presupposti per ottenere lo status di rifugiato, con particolare riferimento alla decisione del tribunale – ritenuta “assolutamente errata” – di valutare non plausibili e inverosimili le dichiarazioni rese dal ricorrente circa gli atti persecutori subiti.

7.1. Al di là della formulazione promiscua di diversi vizi (errores in iudicando e censure motivazionali), il motivo è inammissibile poichè, per consolidato orientamento di questa Corte, la ritenuta non credibilità del racconto del ricorrente integra un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito – chiamato espressamente a valutare se le dichiarazioni dello straniero siano coerenti e plausibili, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c) – come tale censurabile in cassazione solo nei limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), (ex multis, Cass. 3340/2019; cfr. Cass. 27502/2018), applicabile ratione temporis ma non rispettato dal ricorrente 7.2. Invero, a seguito della riformulazione di detta norma ad opera del D.L. n. 83 del 2012, art. 54 (convertito dalla L. n. 134 del 2012), la censura motivazionale postula l’indicazione di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo per l’esito della controversia, ed a tal fine il ricorrente è onerato di indicare – nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività” (Cass. Sez. U, 8503/2014; conf. ex plurimis Cass. 27415/2018).

8. Con il sesto mezzo si lamenta, sempre cumulativamente, la violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 e art. 14, lett. b) e c) e l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, il tutto in merito alla sussistenza dei presupposti per ottenere il riconoscimento della protezione sussidiaria, ai cui fini il tribunale avrebbe omesso di considerare le persecuzioni subite dal ricorrente a causa del suo rifiuto, in quanto cristiano, di far parte di una confraternita segreta che praticava riti contrari al suo sentimento religioso, nonchè la situazione di violenza generalizzata in tutta la Nigeria, compresa l’area di provenienza dell’Edo State, sebbene più intensa nelle aree settentrionali del Paese.

8.1. Anche questa censura è inammissibile perchè involge apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito (v. sub 7.1. con riguardo al giudizio di non credibilità), a fronte di una motivazione congrua e non adeguatamente contestata per le ragioni già indicate (v. sub 7.2.), oltre che in linea con i principi elaborati da questa Corte in tema di protezione sussidiaria.

8.2. Invero, l’obbligo del giudice di acquisire informazioni aggiornate – nel caso di specie assolto attraverso il rapporto EASO aggiornato a giugno 2017 – va correlato ai fatti e ai motivi esposti nella richiesta di protezione internazionale, non potendo perciò censurarsi la mancata attivazione ex officio di detti poteri istruttori con riguardo a presupposti e circostanze non dedotte ai fini della protezione invocata (Cass. 30105/2018). Pertanto, una volta giudicate inattendibili le dichiarazioni del richiedente, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3,non occorre procedere d’ufficio ad approfondimenti istruttori – a meno che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori (Cass. 4892/2019, 16925/2018) – poichè il potere-dovere del giudice di accertare se, ed in quali limiti, nel Paese d’origine del richiedente protezione internazionale si registrino fenomeni di violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale che espongano costui a minaccia grave e individuale alla vita o alla persona, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), ovvero se il grado di violenza indiscriminata abbia raggiunto un livello talmente elevato da far ritenere che lo straniero, se rinviato nel Paese o nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio, un rischio effettivo di subire detta minaccia, sorge dopo che il richiedente abbia assolto l’onere di allegare i fatti costitutivi della sua personale esposizione al rischio. Di conseguenza, il giudicante non può supplire, attraverso l’esercizio dei suoi poteri officiosi, alle deficienze di allegazione e di prova del ricorrente, tenuto ad indicare i fatti costitutivi del diritto con riguardo alla individualizzazione del rischio rispetto alla situazione del paese di provenienza (Cass. 3016/2019, 27336/2018). In altri termini, un volta ritenuti non credibili i fatti allegati a sostegno della domanda, non è sempre necessario far luogo ad un approfondimento istruttorio ulteriore, dal momento che il dovere di cooperazione istruttoria officiosa incombente sul giudice presuppone una affidabile allegazione dei fatti da accertare (Cass. 33096/2018, 28862/2018).

8.3. Inoltre, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria a norma del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c), la nozione di “violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato, interno o internazionale” – da interpretare in conformità della fonte Eurounitaria di cui è attuazione (direttive 2004/83/CE e 2011/95/UE), in coerenza con le indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte di Giustizia UE (Grande Sezione, 18/12/2014, C-542/13, par. 36), secondo cui i rischi cui sono esposti in generale la popolazione di un paese o di una parte di esso di norma non costituiscono ex sè una minaccia individuale definibile come danno grave (v. direttiva n. 2011/95/UE, Cons. 26), sicchè “l’esistenza di un conflitto armato interno potrà portare alla concessione della protezione sussidiaria solamente nella misura in cui si ritenga eccezionalmente che gli scontri tra le forze governative di uno Stato e uno o più gruppi armati o tra due o più gruppi armati siano all’origine di una minaccia grave e individuale alla vita o alla persona del richiedente la protezione sussidiaria, ai sensi dell’art. 15 direttiva, lett. c), a motivo del fatto che il grado di violenza indiscriminata che li caratterizza raggiunge un livello talmente elevato da far sussistere fondati motivi per ritenere che un civile rinviato nel paese in questione o, se del caso, nella regione in questione correrebbe, per la sua sola presenza sul territorio di questi ultimi, un rischio effettivo di subire la detta minaccia” (v. Corte giust. 17/0/2009, Elgafaji e 30/01/2014, Diakitè; cfr. Cass. 13858/2018) – deve essere rappresentata dallo stesso richiedente come personale e diretta esposizione al rischio di un danno grave, sia pure in rapporto alla situazione generale del paese di origine, ed implica un apprezzamento di fatto di esclusiva competenza del giudice di merito non censurabile in sede di legittimità se non, appunto, nei limiti del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (Cass. 30105/2018, 32064/2018).

9. Con il settimo motivo si deduce, testualmente: la “violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5,comma 6 e D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, art. 3 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, Direttiva 2001/55/CE, artt. 2 e 32 Cost., art. 25 Dichiarazione universale de diritti dell’uomo, della L. n. 881 del 1977, art. 11 e omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione all’art. 360 comma 1, nn. 3 e 5, in merito alla sussistenza dei presupposti per ottenere il riconoscimento della protezione umanitaria – omessa valutazione dei documenti prodotti”, con riguardo alle violenze subite dal ricorrente in Libia (dove aveva vissuto per quattro mesi), all’occupazione lavorativa in Italia, alle sue condizioni di istruzione (laureato) e al disturbo depressivo maggiore di cui soffre.

9.1. La censura è inammissibile perchè afferisce alla valutazione dei fatti e del materiale istruttorio, riservata al giudice di merito.

9.2. In ogni caso, la decisione impugnata non risulta in contrasto con i principi affermati da questa Corte in tema di protezione umanitaria, nel senso che: i) ai fini della integrazione delle necessarie condizioni di vulnerabilità, la prospettata violazione dei diritti umani “deve necessariamente correlarsi alla vicenda personale del richiedente, perchè altrimenti si finirebbe per prendere in considerazione non già la situazione particolare del singolo soggetto, ma piuttosto quella del suo Paese d’origine in termini del tutto generali ed astratti, in contrasto col parametro normativo di cui al D.Lgs. n. 286 (del 1998), art. 5, comma 6, che, nel predisporre uno strumento duttile quale il permesso umanitario, demanda al giudice la verifica della sussistenza dei seri motivi attraverso un esame concreto ed effettivo di tutte le peculiarità rilevanti del singolo caso, quali, ad esempio, le ragioni che indussero lo straniero ad abbandonare il proprio Paese e le circostanze di vita che, anche in ragione della sua storia personale, egli si troverebbe a dover affrontare nel medesimo Paese” (Cass. 4455/2018); ii) il permesso di soggiorno per motivi umanitari non può fondarsi esclusivamente sul livello di integrazione raggiunto in Italia (Cass. 17072/2018); iii) il fatto che in un paese di transito (come, nel caso di specie, la Libia) si sia consumata una violazione dei diritti umani non comporta di per sè l’accoglimento della domanda di protezione umanitaria, la quale presuppone l’accertamento che lo straniero venga ad essere privato della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, per effetto del rimpatrio nel Paese di origine, di cui cioè si abbia la cittadinanza (Cass. 4455/2018) non già di un Paese terzo (cfr. Cass. 2861/2018, 13858/2018, 29875/2018); iv) non è sufficiente allegare condizioni di indigenza o problemi di salute, ma è necessario che tali condizioni siano l’effetto della grave violazione dei diritti umani subita dal richiedente nel Paese di provenienza, in conformità al disposto degli artt. 2, 3 e 4 della CEDU (Cass. 28015/2017, 26641/2016); v) generiche condizioni di povertà del soggetto, rapportate alla situazione di povertà del Paese di provenienza, non giustificano la concessione della protezione umanitaria D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, in assenza delle condizioni di vulnerabilità di cui al successivo art. 19 (Cass. 31670/2018); vi) anche con riferimento a motivi di salute, la protezione umanitaria tutela situazioni di vulnerabilità ancorate ai presupposti di legge e ad idonee allegazioni del richiedente, sicchè “non è ipotizzabile nè un obbligo dello Stato italiano di garantire allo straniero “parametri di benessere”, nè quello di impedire, in caso di ritorno in patria, il sorgere di situazioni di “estrema difficoltà economica e sociale”, in assenza di qualsivoglia effettiva condizione di vulnerabilità che prescinda dal risvolto prettamente economico” (Cass. 3681/2019).

10. L’ottavo ed ultimo motivo censura la “nullità della sentenza ex art. 161 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 4, in merito alla omessa pronuncia sulla richiesta subordinata di riconoscimento del diritto di asilo, ex art. 10 Cost. e i relativi benefici e omessa pronuncia di ulteriore richiesta subordinata di concessione dei benefici della protezione temporanea e/o di concessione di un permesso di soggiorno non inferiore ad un anno, valido anche per lo svolgimento di attività lavorativa”.

10.1. La censura, oltre a difettare di autosufficienza – poichè nella sua estrema sintesi non dà conto di dove, come e quando siano state formulate le ulteriori istanze cui fa riferimento – va comunque disattesa alla luce della giurisprudenza di questa Corte per cui il diritto di asilo risulta ormai “interamente regolato attraverso la previsione delle situazioni finali previste dai tre istituti dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e del diritto al rilascio di un permesso umanitario, ad opera dell’esaustiva normativa di cui al D.Lgs. n. 19 novembre 2007, n. 251 e di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 5, comma ; con la conseguenza che non vi è più alcun margine di residuale diretta applicazione del disposto di cui all’art. 10 Cost., comma 3, in chiave processuale o strumentale, a tutela di chi abbia diritto all’esame della sua domanda di asilo alla stregua delle vigenti norme sulla protezione” (Cass. 30105/2018, 16362/2016, 10686/2012).

11. Al rigetto della domanda non segue la condanna alle spese, in assenza di difese del Ministero intimato.

12. Non sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato, risultando il ricorrente ammesso al patrocinio a spese dello Stato (ex multis, Cass. 28433/2018, 13935/2017, 9938/2014).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 29 marzo 2019.

Depositato in Cancelleria il 27 giugno 2019

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