Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.22986 del 16/09/2019

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La norma dettata dall’art. 24 c.c., secondo cui gli organi associativi possono deliberare l’esclusione dell’associato per gravi motivi, è applicabile anche alle associazioni non riconosciute, ed implica che il giudice davanti al quale sia proposta l’impugnazione della deliberazione di esclusione abbia il potere-dovere di valutare se si tratti di fatti gravi e non di scarsa importanza, cioè se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge e dall’atto costitutivo per la risoluzione del singolo rapporto associativo, prescindendo dall’opportunità intrinseca della deliberazione stessa.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VALITUTTI Antonio – Presidente –

Dott. MELONI Marina – Consigliere –

Dott. FEDERICO Guido – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

Dott. CAIAZZO Luigi Pietro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19288/2015 proposto da:

Istituto Medico Psico-Pedagogico Lucia Mangano, in persona del Presidente legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in Roma, Via dei Dardanelli n. 46, presso lo studio dell’avvocato Spinella Maurizio, rappresentato e difeso dall’avvocato Ferlito Luigi Edoardo, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

L.M.L., elettivamente domiciliata in Roma, Via della Giuliana n. 66, presso lo studio dell’avvocato Paternò Raddusa Pietro, rappresentata e difesa dagli avvocati Aiello Daniele, Reganati Lorenzo, giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 294/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 18/02/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 18/06/2019 dal cons. Dott. FEDERICO GUIDO.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Catania, con sentenza n. 2288/2015 pubblicata il 22 maggio 2015, ha rigettato l’appello proposto dall’Istituto Medico Psico-Pedagogico “Lucia Mangano” avverso la sentenza del Tribunale di Catania, che ha annullato la Delib. 6 aprile 2002 adottata dall’istituto con la quale era stata disposta l’esclusione di L.M.L. ed ha rigettato la domanda di risarcimento dei danni avanzata dallo stesso istituto nei confronti di quest’ultima.

La Corte territoriale, in particolare, per quanto in questa sede ancora interessa, ha ritenuto che i fatti imputati alla L. fossero generici, valutazione che non risultava superata neppure facendo riferimento alla lettera di contestazione degli addebiti del 4.4.2002.

Per la cassazione di tale pronuncia propone ricorso, con otto mezzi, l’Istituto Medico Psico-Pedagogico Lucia Mangano.

L.M.L. resiste con controricorso.

In prossimità dell’odierna adunanza entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo mezzo si denuncia la illogicità e contraddittorietà della motivazione della sentenza e la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2712 e 2724 c.c.

Il secondo motivo denuncia illogicità e contraddittorietà della sentenza con riferimento ai singoli motivi contenuti nella delibera di esclusione e la violazione dell’art. 2697 c.c.

Il terzo motivo denuncia violazione dell’art. 16 c.c. lamentando che il giudice di appello abbia omesso di valutare i comportamenti del socio quali indicati dallo Statuto dell’associazione come causa di esclusione.

Il quarto motivo denuncia travisamento del contenuto della prova orale, in ordine alla violazione dell’art. 23 c.c. e dell’art. 2721 c.c.

Il sesto motivo denuncia il vizio di omessa motivazione in punto di diritto, lamentando la assoluta carenza motivazionale in relazione a diverse questioni aventi carattere di essenzialità. I motivi, che, in quanto connessi, vanno unitariamente esaminati, sono fondati.

Conviene premettere che secondo il consolidato indirizzo di questa Corte l’indicazione della rubrica non è vincolante per la qualificazione del vizio denunciato, dovendo farsi riferimento al contenuto del mezzo al fine di desumere lo specifico vizio della sentenza in concreto fatto valere.

Deve infatti aversi riguardo alla qualificazione sostanziale del vizio denunciato, non avendo la rubrica carattere vincolante (Cass. Sez. U. 17931/2013; 12690/2018), purchè dal contenuto del motivo sia desumibile con chiarezza la censura, tre le ipotesi tassativamente previste dall’art. 360 c.p.c., comma 1, che si intende proporre avverso la sentenza impugnata.

Orbene, i motivi suesposti denunciano, in buona sostanza, la assoluta illogicità e dunque la carenza assoluta di motivazione della sentenza impugnata, anche in relazione alla violazione delle disposizioni specificamente indicate nei motivi di ricorso (artt. 2719,2721,2697 e 23 c.c.).

La censura è fondata.

La sentenza impugnata (a pagina 9) ha affermato che la genericità dei comportamenti imputati alla L. nella delibera di esclusione, seppure integrata per relationem con l’atto di contestazione degli addebiti del 4 aprile 2002, ne rendeva difficile la valutazione di conformità alle norme dello statuto, anche ai fini della compromissione del rapporto di fiducia tra associazione ed associati.

La Corte territoriale ha precisato che non risultavano indicati i necessari elementi costitutivi degli addebiti, nè l’incidenza sul rapporto fiduciario e che non era possibile individuare esattamente i fatti che la L. avrebbe posto in essere nei confronti dei lavoratori e che avevano determinato le proteste delle organizzazioni sindacali oltre che diverse denunce ed esposti da parte di avvocati.

Da tali assunti il giudice di appello ha fatto discendere la nullità della Delib.

La statuizione non è conforme a diritto.

Conviene premettere che la norma dettata dall’art. 24 c.c. – secondo cui gli organi associativi possono deliberare l’esclusione dell’associato per gravi motivi – è applicabile anche alle associazioni non riconosciute, ed implica che il giudice davanti al quale sia proposta l’impugnazione della deliberazione di esclusione abbia il potere-dovere di valutare se si tratti di fatti gravi e non di scarsa importanza, cioè se si sia avverata in concreto una delle ipotesi previste dalla legge e dall’atto costitutivo per la risoluzione del singolo rapporto associativo, prescindendo dall’opportunità intrinseca della deliberazione stessa (Cass. 18186/2004).

La norma dettata dall’art. 24 c.c., dunque, nel condizionare l’esclusione dell’associato all’esistenza di gravi motivi, e nel prevedere, in caso di contestazione, il controllo dell’autorità giudiziaria, implica per il giudice davanti al quale sia proposta l’impugnazione della deliberazione di esclusione, il potere non solo di accertare che l’esclusione sia stata deliberata nel rispetto delle regole procedurali stabilite dalla legge o dall’atto costitutivo dell’ente, ma anche di verificarne la legittimità sostanziale, e quindi di stabilire se sussistono le condizioni legali e statutarie in presenza delle quali un siffatto provvedimento può essere legittimamente adottato. In particolare, la gravità dei motivi, che può giustificare l’esclusione di un associato, è un concetto relativo, la cui valutazione non può prescindere dal modo in cui gli associati medesimi lo hanno inteso nella loro autonomia associativa; di tal che, ove l’atto costitutivo dell’associazione contenga già una ben specifica descrizione dei motivi ritenuti così gravi da provocare l’esclusione dell’associato, la verifica giudiziale è destinata ad arrestarsi al mero accertamento della puntuale ricorrenza o meno, nel caso di specie, di quei fatti che l’atto costitutivo contempla come causa di esclusione. Quando, invece, nessuna indicazione specifica sia contenuta nel medesimo atto costitutivo, o quando si sia in presenza di formule generali ed elastiche, destinate ad essere riempite di volta in volta di contenuto in relazione a ciascun singolo caso, o comunque in qualsiasi altra situazione nella quale la prefigurata causa di esclusione implichi un giudizio di gravità di singoli atti o comportamenti, da operarsi necessariamente “post factum”, il vaglio giurisdizionale si estende necessariamente anche a quest’ultimo aspetto (giacchè, altrimenti, si svuoterebbe di senso la suindicata disposizione dell’art. 24 c.c.); in tal caso esso si esprime attraverso una valutazione di proporzionalità tra le conseguenze del comportamento addebitato all’associato e l’entità della lesione da lui arrecata agli altrui interessi, da un lato, e la radicalità del provvedimento espulsivo, che definitivamente elide l’interesse del singolo a permanere nell’associazione, dall’altro (Cass. 17907/2004).

Nel caso di specie, l’art. 6 dello Statuto, riprodotto nel ricorso (pagg. 29 e 30), prevedeva le seguenti cause di esclusione:

a) non aver ottemperato alle disposizioni dello Statuto o di ogni altra deliberazione o norma legalmente adottata dagli organi sociali;

b) aver abusato nella qualità di amministratore, della firma dei capitali sociali o aver commesso frodi nell’amministrazione o nella tenuta dei conti;

c) aver trascurato, se investito di cariche in seno all’associazione, i propri doveri, malgrado i richiami del presidente e del consiglio direttivo.

Tali disposizioni appaiono sufficientemente specifiche, tali da costituire idoneo parametro di valutazione degli addebiti indicati nella delibera di esclusione.

Orbene la Corte territoriale da un lato ha rilevato che alla L. era stata comunicata, in data 4.4.2002, una nota contenente una serie di addebiti rilevanti ai sensi dell’art. 6 dello Statuto così da configurare una vera e propria contestazione; dall’altro ha apoditticamente affermato che, pur facendo riferimento alla nota del 4.4.2002, non era possibile individuare esattamente le condotte che la L. avrebbe posto in essere in danno dei lavoratori.

Premesso che il diritto di un’associazione di escludere il singolo membro costituisce emanazione della potestà disciplinare sui propri associati, onde deve ritenersi necessaria la preventiva contestazione degli addebiti all’interessato (Cass. 3490/1969), nel caso di specie la Corte territoriale ha dunque accertato la contestazione degli addebiti, con nota (a firma del presidente e degli altri componenti del consiglio di amministrazione) comunicata il 4 aprile 2002, con la quale la L. era stata dunque messa in condizione di partecipare alla riunione del consiglio di amministrazione al fine di esercitare il proprio diritto di difesa.

Dalla Delib. di esclusione riprodotta nella sentenza impugnata, inoltre, risulta che venivano contestati comportamenti della L. lesivi della dignità dei lavoratori e delle stesse organizzazioni sindacali, i quali avevano determinato proteste delle medesime organizzazioni nonchè denunce scritte ed esposti da parte di diversi avvocati; la Delib. faceva poi espresso riferimento alla nota di contestazione degli addebiti ricevuta dalla L. in data 4.4.2002.

La Delib. afferma in particolare che il rapporto di fiducia era irrimediabilmente venuto meno sulla base delle seguenti considerazioni:

“l’associata non ha ottemperato ripetutamente alle disposizioni dello statu associativo e non si è conformata alle decisioni degli organi sociali; ha amministrato nella qualità di legale rappresentante dell’associazione con contrarietà all’interesse generale, omettendo di fornire chiarimenti sulla tenuta dei conti; ha trascurato, malgrado i richiami del Presidente, i propri doveri di procuratore dell’associazione, non fornendo ad oggi alcuna relazione scritta in ordine all’attività svolta.”.

Le contestazioni come sera riportate, oltre ad avere un sufficiente grado di specificità e consentire dunque il pieno esercizio del diritto di difesa, risultano sostanzialmente corrispondenti alle ipotesi di esclusione di cui all’art. 6 dello statuto.

La contestata violazione dell’art. 6 dello Statuto, oltre che sul comportamento antisindacale, risulta dunque fondata su una serie di addebiti specifici, riportati nella sentenza impugnata (a pag. 8 e 9), mossi dal consiglio di amministrazione alla L. nella nota del 4.4.2002, tra cui sono indicate operazioni compiute in conflitto di interessi, percezione anticipata degli emolumenti e gestione non oculata, avuto riguardo in particolare alla individuazione dei fornitori.

La Corte d’appello ha dunque dato atto delle condotte imputate alla L. nella Delib. di esclusione, anche alla luce della nota del 4.4.2002, richiamata per relationem, salvo poi ribadire la genericità della delibera stessa.

Tale valutazione non è condivisibile, atteso che gli addebiti come riportati risultano sufficientemente specifici ed idonei a consentire alla socia il pieno esercizio del diritto di difesa, consentendole la contestazione, nel merito, della sussistenza e gravità delle condotte ascritte e la riconducibilità alla previsione statutaria di esclusione(ai sensi dell’art. 6) o comunque la loro rilevanza al fine di compromettere il rapporto fiduciario.

Il giudice di appello ha inoltre ritenuto irrilevanti le dichiarazioni testimoniali assunte nel giudizio di primo grado e riprodotte nel corpo del ricorso, dirette proprio a chiarire e circostanziare le contestazioni della Delib., che risultano al contrario, come già rilevato, sufficientemente precise e riconducibili alle previsioni dell’art. 6 dello Statuto.

La statuizione della Corte, che ha affermato la nullità della delibera per genericità della contestazioni risulta dunque contraddittoria e fondata su motivazione meramente apparente, attesa la sussistenza di addebiti specifici, corredati da una analitica contestazione di condotte lesive sostanzialmente corrispondenti alla previsione dell’art. 6 dello statuto.

Il quinto motivo, che denuncia l’omessa pronuncia sulle altre contestazioni, mosse alla signora L. con atto notificato il 12.3.2002 e la falsa applicazione dell’artt. 23 c.c., è assorbito in conseguenza dell’accoglimento dei motivi su menzionati.

Il settimo motivo denuncia l’omessa pronuncia sulla domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni.

Il motivo è inammissibile, per difetto di autosufficienza, poichè la ricorrente non ha riprodotto il motivo di impugnazione sul quale il giudice di appello non si sarebbe pronunciato.

Come questa Corte ha già affermato, è inammissibile, per violazione del criterio dell’autosufficienza, il ricorso per cassazione col quale si lamenti la mancata pronuncia del giudice di appello su uno o più motivi di gravame, se essi non siano compiutamente riportati nella loro integralità nel ricorso, sì da consentire alla Corte di verificare che le questioni sottoposte non siano “nuove” e di valutare la fondatezza dei motivi stessi senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte. (Cass. 17049/2015).

Nel caso di specie il ricorrente non ha adempiuto a tale onere processuale.

L’ottavo motivo, che denuncia l’errata statuizione sulle spese di lite, quale conseguenza della erroneità della pronuncia impugnata, è assorbito dalla reiezione dei motivi che precedono.

In conclusione, vanno accolti il primo, secondo, terzo, quarto e sesto motivo di ricorso, assorbiti il quinto e l’ottavo, inammissibile il settimo.

La sentenza impugnata va dunque cassata in relazione ai motivi accolti e la causa va rinviata, anche per la regolazione delle spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo, secondo, terzo, quarto e sesto motivo di ricorso, assorbiti il quinto e l’ottavo, inammissibile il settimo.

Cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia la causa, anche per la regolazione delle spese, ad altra sezione della Corte d’Appello di Catania.

Così deciso in Roma, il 19 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 settembre 2019

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