Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.113 del 07/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – rel. Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16675-2018 proposto da:

A.S.K., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ANTONIO DE VITI DE MARCO 50, presso lo studio dell’avvocato VESSELINA PANOVA, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

SAN NABORE COOPERATIVA A R.L. ONLUS, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA VIRGILIO 8, presso lo studio dell’avvocato ANDREA MUSTI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato ANDREA FORTUNAT;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1990/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 29/11/2017, R. G. N. 204/2017.

RILEVATO

1. Che la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso di A.S.K. inteso all’annullamento della delibera di esclusione dalla San Nabore Cooperativa a r.l. Onlus e del contestuale licenziamento intimato dalla Cooperativa in data 3.7.2015;

1.1. che il giudice di appello, premesso che la mancata impugnazione della delibera di esclusione, in quanto fondata sulle identiche ragioni disciplinari a base del licenziamento, non precludeva l’azione intesa ad ottenere la tutela L. n. 300 del 1970, ex art. 18 ha ritenuto la domanda non accoglibile nel merito per risultare accertato dalla espletata istruttoria l’addebito a carico del socio lavoratore, costituito dall’accusa rivolta all’ex presidente della cooperativa, P.G. di essersi indebitamente appropriato della somma di Euro 36.000,00; tale accusa, per la sua specificità e rilevanza, si configurava quale giusta causa di recesso rappresentando grave negazione dei doveri propri del socio lavoratore e primo fra tutti quello di subordinazione dovendo, quindi, ritenersi integrata l’ipotesi di ” grave insubordinazione verso i superiori” alla quale l’art. 42, lett. E) del contratto collettivo connetteva la sanzione espulsiva; la gravità dell’accusa profferita non consentiva, infatti, di ricondurre la fattispecie all’ipotesi di comportamento scorretto e offensivo verso gli utenti, i soggetti esterni e i colleghi, che l’art. 42, lett. D) del contratto collettivo sanzionava solo in via conservativa;

2. che per la cassazione della decisione ha proposto ricorso A.S.K. sulla base di sei motivi; la parte intimata ha resistito con tempestivo controricorso; parte ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 380- bis.1. c.p.c..

CONSIDERATO

1. Che con il primo motivo parte ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione all’art. 112 c.p.c.. Premesso che la sentenza di primo grado aveva respinto, senza esame nel merito, la originaria domanda sul rilievo della mancata tempestiva impugnazione della delibera di esclusione e premesso che la sentenza di appello aveva recepito la censura dell’appellante sul punto, assume che il giudice di appello, in dispositivo, avrebbe dovuto dare atto del parziale accoglimento dell’appello con riforma della sentenza di primo grado e, quindi, pronunziare nel merito del ricorso ex art. 414 c.p.c., circostanza questa che avrebbe inciso sul regolamento delle spese di lite determinandone la compensazione per soccombenza reciproca ai sensi dell’art. 92 c.p.c.;

2. che con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c. in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., censurando l’accertamento fattuale alla base del decisum sotto il profilo della attendibilità del teste escusso e della correttezza della relativa ricostruzione;

3. che con il terzo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in combinato disposto con l’art. 2119 c.c.. Osserva che poichè al dipendente erano state contestate una pluralità di condotte concatenate l’integrazione della giusta causa doveva ritenersi sussistente solo ove fosse stata acquisita la prova del complesso degli episodi addebitati e non, come avvenuto nel caso di specie, sulla base di uno solo di essi;

4. che con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, censurando la sentenza impugnata in quanto argomentata con motivazione solo apparente ed apodittica tale da non consentire la corretta individuazione delle ragioni alla base del decisum; rappresenta che comunque le somme delle quali era denunziata la indebita appropriazione avevano a che fare più con la cooperativa che con il rapporto di lavoro;

5. che con il quinto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione, rappresentato dalla circostanza relativa alla posizione del P. quale datore di lavoro o rappresentante dell’azienda. Dalla prova orale era emerso, infatti, che questi, già Presidente della cooperativa, era socio volontario e non, quindi un superiore; tanto conduceva ad escludere la grave insubordinazione verso i superiori ritenuta sussistente dal giudice di merito;

6. che con il sesto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2104,2105,1175,1375 c.c. in combinato disposto con l’art. 2119 e con l’art. 2967 c.c., censurando la sentenza impugnata per avere ritenuto che la condotta dell’ A. sarebbe sconfinata nella violazione dei basilari doveri propri del socio lavoratore, primo fra tutti quello di subordinazione. Le dichiarazioni contestate, infatti, erano state rivolte ad una persona del tutto estranee, alla compagine sociale; era, inoltre, necessario verificare sulla base dei parametri indicati dal giudice di legittimità, se il socio lavoratore aveva trasmodato dai limiti prescritti nell’esercizio del proprio diritto di critica;

7. che preliminarmente occorre esaminare, per il rilievo dirimente collegato al relativo accoglimento, il quarto motivo di ricorso con il quale si denunzia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, per “motivazione apparente”;

7.1. che il motivo è infondato. E’ noto che la motivazione meramente apparente – che la giurisprudenza parifica, quanto alle conseguenze giuridiche, alla motivazione in tutto o in parte mancante – sussiste allorquando pur non mancando un testo della motivazione in senso materiale, lo stesso non contenga una effettiva esposizione delle ragioni alla base della decisione, nel senso che le argomentazioni sviluppate non consentono di ricostruire il percorso logico -giuridico alla base del decisum. E’ stato, in particolare, precisato che la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. Sez. Un. 22232 del 2016), oppure allorquando il giudice di merito ometta ivi di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento ovvero li indichi senza un’approfondita loro disamina logica e giuridica, rendendo, in tal modo, impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragionamento (Cass. n. 9105 del 2017) oppure, ancora, nell’ipotesi in cui le argomentazioni siano svolte in modo talmente contraddittorio da non permettere di individuarla, cioè di riconoscerla come giustificazione del decisum (Cass. n. 20112 del 2009). Tali carenze, che l’odierna parte ricorrente assume sulla base di considerazioni del tutto generiche ed assertive, non sono riscontrabili nella sentenza in esame della quale sono agevolmente ricostruibili i percorsi argomentativi che hanno condotto, sulla base della esperita istruttoria, all’accertamento della condotta contestata (accusa rivolte dall’ A. al P.), ed alla valutazione della riconducibilità della stessa (specificità e rilevanza dell’accusa) alla ipotesi configurante giusta causa di recesso alla stregua di specifica previsione del contratto collettivo;

8. che il primo motivo di ricorso è inammissibile alla luce giurisprudenza di questa Corte secondo la quale, in tema di spese processuali, la facoltà di disporne la compensazione tra le parti rientra nel potere discrezionale del giudice di merito, il quale non è tenuto a dare ragione con una espressa motivazione del mancato uso di tale sua facoltà, con la conseguenza che la pronuncia di condanna alle spese, anche se adottata senza prendere in esame l’eventualità di una compensazione, non può essere censurata in cassazione, neppure sotto il profilo della mancanza di motivazione (Cass. n. 11329 del 2019, Cass. Sez. Un. 1489 del 2005);

9. che il secondo motivo di ricorso è inammissibile in quanto non verte sul significato e sulla portata applicativa dell’art. 2697 c.c. ma risulta inteso alla sollecitazione di una revisione del materiale probatorio, operazione non consentita in sede di legittimità neppure sotto forma di denuncia di vizio di motivazione, alla stregua del novellato art. 360 c.p.c., n. 5 (applicabile, ratione temporis, alla fattispecie qui scrutinata), come interpretato dalle Sezioni Unite di questa Corte (v. Cass. Sez. Un. 8053 del 2014);

10. che il terzo motivo di ricorso è infondato alla luce della giurisprudenza di questa Corte secondo la quale qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro (Cass. n. 18836 del 2017, Cass. n. 12195 del 2014). Tanto premesso in relazione all’episodio accertato dalla Corte di merito e ritenuto da questa idoneo ad integrare la giusta causa di licenziamento, parte ricorrente, pur denunziando violazione e falsa applicazione dell’art. 2119 c.c., non chiarisce con riguardo all’attività di integrazione del precetto normativo in oggetto (norma cd. elastica), compiuta dal giudice di merito – ai fini della individuazione della giusta causa- le ragioni per le quali la stessa debba ritenersi incoerente con gli standards esistenti nella realtà sociale che costituiscono il parametro al quale deve essere ancorata la verifica della dedotta violazione (ex plurimis Cass. n. 7426 del 2018) ma si limita in termini apodittici a sostenere che solo la integrazione di tutte le condotte addebitate conduceva alla configurazione della giusta causa di licenziamento senza in alcun modo argomentare sulle ragioni di tale assunto;

11. che il quinto ed il sesto motivo di ricorso, esaminati congiuntamente per connessione, sono infondati. Il giudice di appello, in punto di fatto, ha accertato che il P., ex Presidente della cooperativa era all’epoca della contestazione consigliere della stessa (sentenza, pag. 5, penultimo capoverso). Tale accertamento non è stato incrinato dalla deduzione di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, formulata con il quinto motivo dall’odierno ricorrente, riferito alla circostanza dichiarata dal teste F. dell’essere ” P.G., socio volontario e in precedenza a lungo Presidente della cooperativa”; ciò in quanto il fatto omesso, rilevante ai fini del novellato l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, applicabile ratione temporis, come chiarito da questa Corte (Cass. n. 18560 del 2019, Cass. Sz. Un. 8053/2014 cit.), è costituito da un fatto inteso nella sua accezione storico fenomenica, principale o primario (ossia costitutivo, impeditivo, estintivo o modificativo del diritto azionato) o secondario (cioè dedotto in funzione probatoria) e deve essere decisivo; le prescritte caratteristiche non sono declinabili in relazione alla circostanza indicata dal ricorrente sia perchè trattandosi di circostanza riferita da un teste l’apprezzamento della relativa valenza probatoria è frutto di valutazione rimessa al giudice del merito, sia perchè, comunque, essa intrinsecamente non smentisce l’accertamento del giudice di merito; l’essere il P. socio della cooperativa, dopo essere stato Presidente della stessa, non esclude, infatti, che lo stesso fosse all’epoca dei fatti anche consigliere della Cooperativa medesima e rivestisse, quindi, quel ruolo sovraordinato rispetto all’ A. che giustificava la configurazione della condotta ascritta come di ” grave insubordinazione verso i superiori”, sanzionata dal contratto collettivo con il licenziamento;

11.1. che alla luce di quanto sopra si rivela insussistente la dedotta violazione e falsa applicazione delle norme di diritto indicate nel sesto motivo con riferimento alla violazione degli obblighi di fedeltà, collaborazione e diligenza gravanti sul lavoratore;

11.2. che parimenti infondata è l’ulteriore censura con la quale si denunzia la mancata applicazione dei parametri destinati a scriminare la condotta del lavoratore sotto il profilo del legittimo esercizio del diritto di critica avendo il giudice del merito espressamente dato atto dell’esito negativo di tale verifica alla luce della gravità e specificità delle accuse rivolte al P., e quindi del superamento dei limiti di continenza formale e sostanziale, in coerenza con la giurisprudenza di legittimità secondo la quale l’esercizio del diritto di critica del lavoratore nei confronti del datore di lavoro è legittimo se limitato a difendere la propria posizione soggettiva, nel rispetto della verità oggettiva, e con modalità e termini inidonei a ledere il decoro del datore di lavoro o del superiore gerarchico e a determinare un pregiudizio per l’impresa (Cass. n. 21649 del 2016), rilevando i limiti della continenza sostanziale e formale, superati i quali la condotta assume carattere diffamatorio (Cass. 26.9.2017 n. 22375, Cass. n. 19092 del 2018, Cass. n. 14527 del 2018, Cass. n. 21362 del 2013);

11.3. che in base alle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto e il ricorrente condannato alla rifusione delle spese di lite;

11.4. che sussistono i presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis (Cass. Sez. Un. 23535 del 2019).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese di lite che liquida in Euro 4.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 17 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2020

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