LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –
Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –
Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –
Dott. PARISE Clotilde – rel. Consigliere –
Dott. SCALIA Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1678/2015 proposto da:
R.F., elettivamente domiciliato in Roma, Via Mantegazza n. 24, presso lo studio dell’avvocato Gardin Marco, rappresentato e difeso dall’avvocato Ventura Costantino, giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
Comune di Acquaviva delle Fonti, Iacp della Provincia di Bari, R.A.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 1727/2013 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 12/12/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 13/09/2019 dal cons. Dott. PARISE CLOTILDE.
FATTI DI CAUSA
1. Con atto di citazione notificato il 20.07.1983 al Comune di Acquaviva delle Fonti, L.M., al cui decesso subentravano in giudizio gli eredi R.F. e R.A., deduceva di essere proprietaria di un terreno sito in agro di *****, censito in catasto alla partita *****, e di aver subito una procedura espropriativa finalizzata alla realizzazione del P.E.E.P., approvato con D.P.G.R. 30 marzo 1979, n. 461. L’originaria attrice, assumendo l’illegittimità degli atti relativi alla procedura espropriativa, che si riservava di impugnare innanzi al TAR, e l’inosservanza dei termini previsti per la dichiarazione di pubblica utilità e per l’occupazione temporanea, chiedeva al Tribunale di dichiararsi “inesistenti, caducati, inefficaci e, se del caso, disapplicare il decreto del Sindaco di Acquaviva delle Fonti n. 4 del 1.04.1983, nonchè le Delib. G.M. 18 aprile 1980, n. 139 e Delib. 30 giugno 1980, n. 557 con cui è stata disposta l’espropriazione e l’occupazione del suolo di proprietà L.. Conseguentemente condannare il convenuto al pagamento di tutti i danni e, in particolare, al pagamento del controvalore del bene, dell’indennità di occupazione, dei frutti civili e naturali perduti e dei manufatti esistenti ed andati distrutti” con rivalutazione, interessi e spese di causa. All’esito della rituale costituzione del Comune, della chiamata in causa dell’IACP e dell’espletamento di C.T.U., con sentenza n. 1717/11 del 5/18 maggio 2011 il Tribunale di Bari rigettava tutte le domande, compensava le spese di causa fra le parti e poneva definitivamente a carico dell’attrice le spese di CTU.
2. Con sentenza n. 1727/2013 depositata il 12-12-2013 la Corte d’appello di Bari rigettava l’appello proposto da R.F. e R.A. avverso la citata sentenza del Tribunale di Bari. La Corte territoriale, nel condividere le argomentazioni espresse dal Giudice di primo grado, rilevava che a seguito di separato atto di citazione la L. aveva convenuto l’ente comunale innanzi alla Corte di Appello di Bari per la determinazione dell’indennità di esproprio e di occupazione legittima ed il relativo giudizio si era concluso con sentenza della suddetta Corte di condanna del Comune al pagamento delle indennità ivi determinate. Evidenziava altresì che con istanza del 10.12.2003 l’attrice aveva chiesto al Comune di Acquaviva la restituzione dell’area ricadente nell’alveo del P.E.E.P., nella parte non irreversibilmente trasformata, ottenendo un rigetto avverso il quale proponeva ricorso al TAR Puglia che, con sentenza confermata dal Consiglio di Stato, dichiarava inammissibile il ricorso, affermando che la dichiarazione di pubblica utilità riguardante i terreni espropriati e oggetto del contendere “in quanto mai gravata nè annullata doveva ritenersi pienamente efficace nei di lei confronti così come il successivo decreto di esproprio, non potendo nè l’uno nè l’altro ritenersi travolti dal successivo annullamento giurisdizionale del P.E.E.P. avvenuto – come si è detto – su ricorso di altri proprietari”. Riteneva, pertanto, la Corte territoriale che i giudici amministrativi si fossero già pronunciati sulla legittimità della dichiarazione di p.u. e del decreto di esproprio e di conseguenza non poteva trovare accoglimento la domanda diretta a trasferire il giudizio in sede amministrativa. Con riferimento alla domanda di risarcimento del danno per occupazione usurpativa, la Corte d’appello non ravvisava sussistente la suddetta fattispecie illecita, sia perchè il suolo non era stato irreversibilmente trasformato, per una gran parte dell’area espropriata, in base a quanto era emerso dalla C.T.U. espletata in primo grado, sia perchè la dichiarazione di p.u. di cui all’approvazione del P.E.E.P., rispetto alla parte attrice, esisteva ab origine e non era stata annullata in sede giurisdizionale con effetto nei confronti della L.. La Corte territoriale, in conformità a quanto già statuito dal Tribunale e dai giudici amministrativi, affermava che l’annullamento del P.E.E.P. su impugnazione di altri proprietari non poteva avere efficacia nei confronti dell’attrice e dei suoi aventi causa, perchè il P.E.E.P. doveva qualificarsi non come atto collettivo, ma come atto plurimo. Sia il TAR sia il Consiglio di Stato, investiti di questioni collegate direttamente all’esproprio in quanto aventi per oggetto proprio i terreni espropriati, si erano pronunciati sulla legittimità della dichiarazione di p.u. e del decreto di esproprio e la Corte d’appello riteneva che dette pronunce costituissero giudicato intangibile, con conseguente improponibilità di ogni questione relativa alla translatio iudicii in sede amministrativa.
3. Avverso questa sentenza, R.F. propone ricorso, affidato a otto motivi. R.A., il Comune di Acquaviva delle Fonti e l’I.A.c.p. sono rimasti intimati. Il ricorrente ha depositato memoria illustrativa.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1.Con il primo motivo il ricorrente lamenta “Omesso esame del fatto, decisivo per il giudizio e ampiamente discusso, che le domande proposte con i due ricorsi al TAR n. 143 e n. 1532 dell’anno 2005 erano completamente diverse da quella proposta nel presente giudizio nell’anno 1983 e non potevano formare “giudicato intangibile” in quest’ultimo giudizio (art. 360 c.p.c., n. 5)”. Ad avviso del ricorrente la sentenza impugnata non ha valutato la differenza esistente tra la domanda proposta nel 1983 nel presente giudizio e quella proposta nei ricorsi al TAR n. 143 e n. 1532 del 2005. La prima domanda, infatti, era diretta, tra l’altro, ad impugnare il decreto sindacale di esproprio n. 4 dell’1.4.1983, del quale viene dedotta e richiesta la inesistenza, la caducazione, l’inefficacia e la disapplicazione; le altre domande proposte nel 2005 conseguenti alla Delib. Consiglio Comunale di Acquaviva delle Fonti n. 37 del 2002, che consentiva all’art. 1B del dispositivo la restituzione delle aree non utilizzate, erano invece dirette ad impugnare il provvedimento di rigetto dell’istanza di restituzione dell’area non utilizzata, nonchè la pretesa comunale di aver acquisito la proprietà dell’area, pur mancando la causa di pubblica utilità che la consente in violazione di quanto prevede l’art. 1 Prot. 1 CEDU. Secondo il ricorrente si tratta di domande del tutto differenti per quanto riguarda i presupposti, le causae petendi ed i petita, non avendo la Delib. n. 37 del 2002, la cui omessa applicazione costituisce il presupposto dei giudizi del 2005, nulla in comune col decreto di esproprio del 1983, che non era stato impugnato con i giudizi del 2005. Ad avviso del ricorrente il Consiglio di Stato non ha mai affermato che anche il decreto di esproprio non era mai stato gravato nè annullato, ed inoltre l’accertamento compiuto nella sentenza n. 156/09 era stato effettuato in relazione ad un giudizio avente la finalità di stabilire gli effetti dell’annullamento giurisdizionale del piano – avvenuto nella specie a distanza di tempo su ricorso proposto da altri ricorrenti – e le conseguenze sulla precedente dichiarazione di pubblica utilità derivanti dall’annullamento del PEEP e sul decreto di esproprio.
Nel presente giudizio, secondo il ricorrente, si deve stabilire la legittimità del decreto di esproprio, tempestivamente impugnato nel 1983 dinanzi al giudice ordinario, rispetto alle censure formulate dalla sig.ra L.M..
2. Con il secondo motivo il ricorrente lamenta “Violazione e falsa applicazione degli artt. 2903 c.c. – 324 c.p.c. – nonchè della L. n. 69 del 2009, art. 59 (art. 360 c.p.c., n. 3)”. Deduce, richiamando la giurisprudenza di questa Corte (Cass. 3.8.2007 n. 17078; Cass.21.6.2004 n. 11493; Cass. 10.3.2009 n. 5723), che la sentenza impugnata è affetta dal vizio di violazione delle norme indicate in rubrica e, in particolare, ribadisce che il giudicato, ritenuto sussistente dalla Corte d’appello di Bari nella fattispecie, si pone del tutto al di fuori dei limiti di “petitum” e “causa petendi” tracciati dalla giurisprudenza di questa Corte.
3. Sono infondati i primi due motivi, da esaminarsi congiuntamente in quanto riguardano entrambi la doglianza, formulata sia in relazione a vizio motivazionale, sia con riferimento a vizio di violazione di legge, sulla sussistenza del giudicato amministrativo e, di conseguenza, sulla improponibilità di ogni questione relativa alla translatio iudicii davanti al giudice amministrativo.
3.1. Occorre premettere, per chiarezza espositiva e per quanto occorra, che le censure, espresse in forma non del tutto lineare, sono basate sul presupposto che fosse stata proposta dall’originaria attrice avanti al Tribunale di Bari la domanda di “annullamento” del decreto definitivo di esproprio n. 4 dell’1.4.1983. Invece la L. ne chiedeva la disapplicazione, deducendo la carenza di potere espropriativo, come peraltro dà atto lo stesso attuale ricorrente (cfr. pag. n. 4 del ricorso, che riporta il testo delle conclusioni dell’atto di citazione, con cui l’attrice affermava che avrebbe impugnato, anche a fini tuzioristici, avanti al TAR il decreto di esproprio, del quale chiedeva dichiararsi l’assoluta inesistenza e inefficacia o la totale disapplicazione, per mancanza della dichiarazione di pubblica utilità; a pag. n. 8 del ricorso si legge che solo all’udienza del 13-12009 gli eredi dell’originaria attrice assumevano che fosse stata proposta domanda di annullamento del decreto di esproprio e chiedevano la translatio judicii).
3.2. In disparte il suddetto profilo, pur se dirimente rispetto alla prospettazione dei motivi di cui trattasi, non ricorrono nè il vizio motivazionale, nè quello di violazione di legge denunciati. In particolare la Corte territoriale ha compiutamente esaminato il contenuto delle sentenze dei giudici amministrativi, ritenendo intervenuto il giudicato amministrativo sulle questioni inscindibilmente collegate, relative alla validità della dichiarazione di pubblica utilità e del decreto di esproprio. L’illegittimità dei provvedimenti amministrativi presupposti (per l’appunto dichiarazione di pubblica utilità e decreto di espropriazione) era stata prospettata dalla stessa L. come conseguenza dell’annullamento del P.E.E.P., che, tuttavia, era stato statuito in un giudizio amministrativo promosso da altri soggetti ed al quale la L. era rimasta estranea.
Nelle sentenze del T.A.R. e del Consiglio di Stato, successivamente aditi dalla L. con ricorso volto ad ottenere la restituzione dei beni ablati, si afferma non solo che l’annullamento del P.E.E.P. statuito nel giudizio tra altre parti non può avere alcuna incidenza nei distinti rapporti tra la L. e il Comune, ma si esplicita chiaramente altresì che nè la dichiarazione di pubblica utilità, nè il decreto di esproprio sono stati impugnati dalla suddetta parte.
Ciò posto, l’efficacia del giudicato si estende alle questioni che costituiscono presupposti logicamente e giuridicamente ineliminabili della statuizione finale, in considerazione dell’inscindibile rapporto di connessione che viene a crearsi tra oggetto del giudicato ed oggetto del processo nel quale questo si è formato (Cass. n. 3434/2011; Cass.n. 16824/2013; Cass. n. 9954/2017;Cass. n. 3669/2019; da ultimo Cass. S.U. n. 13434/2019).
Nel caso di specie costituisce cosa giudicata fra le parti la statuizione emessa dal Giudice amministrativo relativa al rigetto della domanda di restituzione dei beni, che indubbiamente fa stato anche in ordine alla persistente validità ed efficacia del decreto di espropriazione, in quanto costituisce un’indispensabile premessa logica di detta statuizione (così Cass. S.U. n. 13434/2019 citata, in un caso in cui, peraltro, era intervenuto giudicato sull’illegittimità della dichiarazione di pubblica utilità; Cass.n. 25269/2016; Cass. n. 15339/2016; Cass., Sez. U- n. 13916/ 2006).
Correttamente, quindi, la Corte territoriale ha rilevato che sia il TAR sia il Consiglio di Stato si erano pronunciati sulla piena validità nei confronti della L. della dichiarazione di p.u. e del decreto di esproprio, come risulta dal testo della sentenza del Consiglio di Stato riportato nel ricorso e nella sentenza impugnata, con la conseguente improponibilità della richiesta di trasferimento della controversia in sede amministrativa, risultando, all’evidenza, detto trasferimento “precluso” dal giudicato amministrativo già intervenuto sulla questione.
4. Con il terzo motivo lamenta “Omesso esame del fatto, decisivo per il giudizio e ampiamente discusso, che il presente giudizio era stato introdotto in data 20.7.1983, entro il termine di sessanta giorni dalla notifica del decreto di esproprio eseguito in data 15.6.1983 (art. 360 c.p.c., n. 5)”. Deduce il ricorrente che la notifica del decreto di esproprio è del 15.6.1983, quella della citazione è del 20.7.1983, assume che sia incomprensibile il riferimento di cui alla sentenza della Corte territoriale al rispetto del termine di impugnazione e sia stato omesso l’esame del fatto decisivo consistente nella proposizione del giudizio entro sessanta giorni dalla notifica del decreto di esproprio.
5. Con il quarto motivo lamenta “Violazione e falsa applicazione della L. n. 69 del 2009, art. 59 – successivamente riprodotto dall’art. 11 c.p.a. (art. 360 c.p.c., n. 3)”. Sostiene il ricorrente che la sentenza impugnata abbia basato la statuizione di rigetto della richiesta di translatio iudicii sulla finalità di non consentire l’elusione dei termini previsti a pena di decadenza dalle norme in epigrafe indicate. Nel ribadire che nessuna decadenza si era verificata, stante la tempestività della citazione, denuncia la violazione anche delle norme indicate in rubrica. Ad avviso del ricorrente la L. n. 69 del 2009, art. 59 e art. 11 c.p.A., nello stabilire che “restano ferme le preclusioni e decadenze intervenute”, si riferiscono al giudizio che, dopo la declaratoria di difetto di giurisdizione, viene riproposto dinanzi al giudice indicato e l’accertamento di un’eventuale decadenza spettava al TAR, e non alla Corte d’appello.
6. I motivi terzo e quarto, da esaminarsi congiuntamente per la loro connessione, sono inammissibili.
L’unica ratio decidendi espressa nella sentenza impugnata, idonea da sola a sostenere la decisione adottata di rigetto della richiesta di translatio iudicii, è quella dell’esistenza del giudicato amministrativo sulla validità del decreto di esproprio. I Giudici d’appello richiamano la disciplina dei termini di decadenza, nel dar conto del principio della translatio iudicii, solo come obiter dictum insuscettibile di trasformarsi nel giudicato, e non come seconda, autonoma, ratio decidendi (Cass. n. 21490/20005 sulla distinzione tra obiter dictum e seconda ratio decidendi).
Ciò si desume sia dal tenore letterale della motivazione, in particolare dall’utilizzo dell’avverbio “infatti” per collegare le considerazioni espresse sulla L. n. 69 del 2009, art. 59 con quelle, immediatamente precedenti, relative al “giudicato intangibile” (penultima riga pag. n. 3 della sentenza impugnata), sia dal fatto che manca nella motivazione ogni riferimento concreto al rispetto, o al mancato rispetto, dei termini di decadenza nel caso di specie.
Dunque i Giudici d’appello hanno richiamato la disciplina sui termini a fini descrittivi della fattispecie legale, senza farne applicazione nel caso concreto, tanto che non vi è statuizione alcuna circa preclusioni o decadenze verificatesi, peraltro in coerenza con l’assunto fondante la ratio decidendi, secondo cui, essendo improponibile ogni questione relativa alla translatio iudicii, era inconferente il controllo sul rispetto dei termini di decadenza.
Ne consegue l’inammissibilità delle censure in quanto non colgono l’unica ratio decidendi espressa nella sentenza impugnata nel senso precisato.
7. Con il quinto motivo denuncia “Violazione e falsa applicazione di legge (art. 1 prot. 1 cedu), ratificata con L. 4 agosto 1955, n. 848 – L. n. 167 del 1962, artt. 3 e 9 – L. n. 1150 del 1942, art. 16 – (art. 360 c.p.c., n. 3)”. Il ricorrente, nel richiamare il secondo motivo d’appello, che sostanzialmente ripropone, assume la sussistenza, nel caso di specie, del fenomeno illecito, suscettibile di risarcimento del danno in sede civile, e censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha qualificato come atto plurimo, e non come atto collettivo, il P.e.e.p.. Ad avviso del ricorrente l’interpretazione giurisprudenziale secondo cui l’annullamento giudiziale del Piano di Zona non abbia efficacia erga omnes, ma solo nei confronti dei soggetti che hanno proposto il ricorso, in quanto il Piano di Zona deve considerarsi non atto collettivo, ma atto plurimo, comporta la violazione di varie norme, sia internazionali che interne. Sotto il profilo delle norme internazionali, secondo il ricorrente è ravvisabile la violazione dell’art. 1 Prot. 1 CEDU, a norma del quale nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità. Nella specie, a oltre trent’anni, il Comune ha (solo formalmente) acquisito una superficie estesa mq. 2.731 di proprietà della sig.ra. L. – R., ma a causa dell’annullamento giudiziale del Piano di Zona ne ha utilizzato solo 87 mq, e non ha mai potuto realizzare le altre opere in esso previste, sicchè oggi l’immobile è ancora nella massima parte non trasformato e non trasformabile, e dunque acquisito in assenza di causa di pubblica utilità dal Comune espropriante. Sotto il profilo della normativa interna, l’opzione interpretativa accolta dalla Corte territoriale si pone in contrasto con la L. n. 167 del 1962, art. 3 che disciplina l’estensione della zona da includere nel piano in relazione alle esigenze dell’edilizia economica e popolare per un decennio, nonchè con la L. n. 167 del 1962, art. 9 che disciplina l’efficacia dei piani approvati, che hanno valore di piani particolareggiati di esecuzione ai sensi della L. n. 1150 del 1942 e la cui approvazione equivale anche a dichiarazione di indifferibilità e urgenza di tutte le opere, impianti ed edifici in esso previsti.
Ad avviso del ricorrente, poichè il TAR Puglia, con la sent. n. 147/84, confermata dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 36/94 ha accolto la censura di sovradimensionamento del P.d.Z. proposta da altro proprietario, detta statuizione ha efficacia erga omnes.
8. Il quinto motivo è manifestamente infondato.
8.1. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte “La parte che non ha partecipato al giudizio amministrativo non può avvalersi del giudicato relativo all’annullamento di un plano di zona per l’edilizia economica e popolare, al fine di ottenere in sede di giudizio ordinario la cancellazione della trascrizione del decreto di espropriazione e il risarcimento dei danni, in quanto la dichiarazione di pubblica utilità, implicita nell’approvazione del piano di zona, non è un atto collettivo, ma deve essere inquadrato nella categoria degli atti plurimi, caratterizzati dall’efficacia soggettivamente limitata ai destinatari individuabili in relazione alla titolarità delle singole porzioni immobiliari oggetto della potestà ablatoria, con la conseguenza che il suo annullamento non spiega efficacia “erga omnes”” (tra le tante Cass. n. 11920/2009, riguardante il P.e.e.p. del Comune di Acquaviva delle Fonti; Cass. n. 16728/2004).
Nel caso di specie, peraltro, sulla questione vi è il giudicato amministrativo tra le stesse parti, considerato che con le più volte citate sentenze del T.A.R. e del Consiglio di Stato è stato qualificato come atto plurimo il P.E.E.P. di cui si sta trattando, statuendo espressamente i giudici amministrativi l’inefficacia nei confronti della L. dell’annullamento del medesimo P.E.E.P. disposto in altro giudizio amministrativo intercorso tra parti diverse.
9. Con il sesto motivo denuncia “Omesso esame del fatto decisivo della controversia, discusso in giudizio, che tutte le ipotesi descritte nell’atto introduttivo del giudizio costituiscono esempi di “occupazioni usurpative” che inficiano e rendono inefficace la dichiarazione di p. u. (art. 360 c.p.c., n. 5)”. Deduce il ricorrente che con l’atto introduttivo del presente giudizio erano state formulate le censure di mancata occupazione entro il termine trimestrale, mancata indicazione dei termini di inizio e compimento delle espropriazioni e dei lavori, nonchè di mancata esecuzione dei lavori entro i termini previsti dalla legge e dal P.d.Z..
Secondo il ricorrente dette censure rientrano tra quelle che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, se verificate, integrano ipotesi di occupazione “usurpativa”, mentre la Corte territoriale, facendo riferimento alle note sentenze delle Sezioni Unite sulla pregiudiziale amministrativa (n. 30254 del 2008), nonchè sulla risarcibilità degli interessi legittimi (n. 500 del 1999), non ha considerato che la situazione giuridica dedotta non è di interesse legittimo ma di diritto soggettivo e non si è pronunciata sui fatti e sulle censure effettivamente prospettati nel giudizio. Afferma che il giudizio di opposizione alla determinazione dell’indennità di espropriazione era stato instaurato per finalità meramente tuzioristiche e non può costituire argomento idoneo a sostenere il riconoscimento, da parte del ricorrente, della validità della procedura ablatoria, contestata nel presente giudizio.
10. Con il settimo motivo lamenta “Omesso esame del fatto decisivo della controversia, discusso in giudizio, che la statuizione di primo grado sul mancato annullamento della dichiarazione di p. u. insita nel peep risponde ai principi sulla “pregiudiziale amministrativa” superati da Cass. s.u. 30254 del 2008 (art. 360 c.p.c., n. 5)”. Rileva il ricorrente che secondo i giudici di merito non si verte in ipotesi di occupazione usurpativa perchè la dichiarazione di p. u. insita nel P.E.E.P., sicuramente esistente ab origine, non è stata utilmente annullata in sede amministrativa. Ad avviso del ricorrente la mancata impugnazione del P.d.Z., infatti, non può esimere il Giudice dall’esigenza di esaminare la domanda risarcitoria proposta in via autonoma, a meno di incorrere nell’ipotesi di violazione di norme sulla giurisdizione, con conseguente ricorribilità in Cassazione, come previsto dall’ordinanza delle S.U. n. 30254 del 2008.
11. I motivi sesto e settimo sono inammissibili.
La Corte territoriale ha preso in esame i motivi d’appello concernenti la pretesa risarcitoria azionata sul presupposto della sussistenza di fenomeno illecito e di occupazione usurpativa, nonchè ha, motivatamente, escluso la ricorrenza degli elementi costitutivi di cui all’art. 2043 c.c..
Il ricorrente si duole genericamente del mancato esame di fatti che assume essere decisivi, ma non spiega la ragione della decisività e neppure specifica in dettaglio quali siano detti fatti.
Inoltre il ricorrente nulla adduce sull’allegazione del pregiudizio, a confutazione della specifica motivazione della sentenza impugnata sul punto, che, richiamando l’orientamento di questa Corte in tema di risarcimento del danno ex art. 2043 c.c. nei confronti della P.A. per esercizio illegittimo della funzione pubblica, rilevava essersi limitati i ricorrenti a prospettare un’automatica derivazione del pregiudizio denunciato dall’affermata illegittimità dell’atto amministrativo, senza provare, e neppure allegare, l’esistenza degli elementi costitutivi della fattispecie risarcitoria dedotta.
Sotto diverso profilo, va aggiunto che l’occupazione usurpativa presuppone carenza di potere e invece, nella specie, come reiteratamente si è rimarcato, c’è il giudicato amministrativo sulla validità della dichiarazione di pubblica utilità nei confronti della Larezzi e dei suoi aventi causa e sulla validità del decreto di esproprio. Il giudicato amministrativo tra le stesse parti sulla legittimità di un atto della P.A. preclude la disapplicazione del medesimo atto da parte del giudice ordinario (Cass. n. 13400/2005 e Cass. n. 22492/2006). Infatti costituisce eccezione alla regola generale che attribuisce al giudice ordinario il potere di disapplicazione dell’atto amministrativo presupposto soltanto l’ipotesi in cui, relativamente alla legittimità dell’atto amministrativo, sia prospettabile l’intervenuta formazione di un giudicato tra le parti, in quanto la disapplicazione sia stata richiesta in un giudizio di cui sia parte la P.A., nei confronti della quale sia stata precedentemente proposta la domanda di annullamento dinanzi al giudice amministrativo (Cass. n. 22492/2006 citata). In particolare “la pronuncia di rigetto della domanda dichiarativa dell’illegittimità copre il provvedimento impugnato sia sotto l’aspetto dell’esistenza del potere dell’organo che ha emesso il provvedimento, sia della sostanza dello stesso, precludendo al giudice ordinario ogni indagine al riguardo” (Cass. n. 13400/2005 citata).
Infine, sotto ultimo ed ulteriore profilo, resta da precisare che ha effetto liberatorio il pagamento dell’indennità di espropriazione e di occupazione legittima, che il ricorrente ha ottenuto a seguito di separato giudizio di opposizione alla stima (cfr. pag.n. 5 della sentenza impugnata), se il decreto di esproprio è legittimo, come per l’appunto è nel caso di specie (Cass. n. 22923/2013).
12. Con l’ottavo motivo il ricorrente denuncia “Violazione di norme sulla giurisdizione (art. 103 Cost. – artt. 7, comma 4 e art. 30, comma 3 c.p.a. – approvato con D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104 – art. 360 c.p.c., n. 1)”. Richiama il ricorrente il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte con l’ordinanza n. 30254 del 23.12.2008, secondo il quale “Proposta al giudice amministrativo domanda risarcitoria autonoma, intesa alla condanna al risarcimento del danno prodotto dall’esercizio illegittimo della funzione amministrativa, è viziata da violazione di norme sulla giurisdizione ed è soggetta a cassazione per motivi attinenti alla giurisdizione la decisione del giudice amministrativo che nega la tutela risarcitoria degli interessi legittimi sul presupposto che l’illegittimità dell’atto debba essere stata precedentemente richiesta e dichiarata in sede di annullamento”. Nel caso di specie, la domanda era stata proposta al giudice ordinario, che aveva negato la tutela risarcitoria perchè l’illegittimità del P.d.Z. non era stata in precedenza richiesta e dichiarata in sede amministrativa, sebbene altri proprietari, e non i sigg.ri L. – R., ne avessero ottenuto l’annullamento. Ad avviso del ricorrente sussiste la denunciata violazione delle norme sulla giurisdizione, considerando altresì che il legislatore si è adeguato alla giurisprudenza di questa Corte sulla “pregiudiziale amministrativa” introducendo nell’ordinamento l’art. 7, comma 4 e art. 30, comma 3 c.p.a., che consentono e disciplinano espressamente, senza bisogno del preventivo annullamento dell’atto ritenuto illegittimo, la proposizione in via autonoma delle controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e dagli altri diritti patrimoniali consequenziali. Deduce il ricorrente che erroneamente i giudici di merito abbiano ritenuto esclusa dalla propria sfera giurisdizionale la cognizione di una domanda risarcitoria per mancata impugnazione del Piano di Zona, dovendo applicarsi i principi di cui alla sentenza delle S.U. n. 30254/08, che erano stati erroneamente interpretati dalla Corte territoriale.
13. L’ottavo motivo è inammissibile.
Le argomentazioni svolte con la censura di cui trattasi non colgono la ratio decidendi, atteso che i Giudici di merito si sono pronunciati sulla domanda risarcitoria, ritenendola motivatamente priva di fondamento sotto plurimi profili, sicchè non ricorre alcuna violazione delle norme sulla giurisdizione nel senso prospettato, invero in modo non del tutto lineare, in ricorso.
14. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato, nulla disponendosi circa le spese del presente giudizio, essendo rimaste intimate le parti resistenti.
15. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto (Cass. n. 23535/2019).
PQM
La Corte rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso per cassazione, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis ove dovuto.
Così deciso in Roma, il 13 settembre 2019.
Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2020
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