Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.142 del 08/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. IOFRIDA Giulia – rel. Consigliere –

Dott. LAMORGESE Antonio Pietro – Consigliere –

Dott. SCALIA Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 27612/2015 proposto da:

M.M., elettivamente domiciliata in Roma, Via Alberto Caroncini n. 51, presso lo studio dell’avvocato Scivoletto Corrado, rappresentata e difesa dall’avvocato Borrometi Roberto, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

Comune di Modica;

– intimato –

avverso la sentenza n. 792/2015 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, del 11/05/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 02/10/2019 dal cons. Dott. IOFRIDA GIULIA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’appello di Catania, con sentenza n. 792/2015, depositata in data 11/052005 – in controversia promossa, nel 2000, da M.M. nei confronti del Comune di Modica, al fine di sentire condannare l’Ente convenuto, previa disapplicazione di una Delib. Consiglio Comunale del settembre 1999, al pagamento di Lire 42.550.000, a titolo di differenza non corrisposta sulla somma di Lire 101.000.000, concordata tra le parti (a seguito di notifica da parte della M. al Comune di un atto, “di transazione integrativo”, del novembre 1997 e di una deliberazione del marzo 1999 del consiglio comunale che aveva, secondo l’assunto dell’attrice, riconosciuto il debito), ad integrazione di una transazione del 31/5/1996 (relativa al pagamento dell’indennità espropriativa per un suolo di proprietà dell’attrice, sito in *****, occupato in via d’urgenza nel 1977 per la realizzazione dei lavori di completamento ed ampliamento dell’Ospedale *****), essendo emerso che la superficie occupata non era di mq 936, come indicato nell’atto del 1996, ma di mq 1246, – ha confermato la decisione di primo grado, che aveva respinto le domande, in difetto di dimostrazione della conclusione di un atto di transazione tra le parti, e comunque aveva anche dichiarato prescritto il diritto al risarcimento del danno, in accoglimento di eccezione del convenuto, attesa l’irreversibile trasformazione dell’area occupata, avvenuta in data 20/5/1991.

In particolare, i giudici d’appello hanno ribadito, al pari dei giudici di primo grado, che difettava un contratto scritto (forma scritta ad substantiam richiesta) di transazione, essendo da qualificare la Delib. del 1999 come un mero atto prodromico (assunzione di un debito fuori bilancio) ad una futura eventuale transazione e quindi come atto di valenza interna, non vincolante per l’Ente; l’Ente, con successiva Delib. settembre 1999 (di cui l’attrice aveva chiesto la disapplicazione), aveva, a modifica della precedente delibera del marzo dello stesso anno, riconosciuti dovuti solo la sorte capitale delle originarie Lire 101 milioni, maggiorata degli interessi per occupazione illegittima riferita agli ultimi cinque anni, dovendosi considerare prescritto il diritto a percepire somme anteriori al quinquennio (e la M. aveva dichiarato di accettare, nel marzo 2000, la somma di Lire 58.450.000 solo in conto del maggiore importo spettantele), e tale delibera, cui non aveva fatto seguito la stipulazione di un contratto, non poteva essere disapplicata, trattandosi di legittima determinazione consiliare di modifica di un precedente atto deliberativo, privo di efficacia esterna; i giudici di merito confermavano anche la statuizione in punto di prescrizione del diritto al risarcimento del danno, ritenendo decorso il termine di cui all’art. 2947 c.c. a far data dall’ultimazione dell’opera pubblica, con conseguente irreversibile trasformazione del fondo, e quindi al più tardi dal 25/2/1991, in difetto di una formale rinuncia alla prescrizione (essendo rimasta la Delib. 4 marzo 1999, contenente la rinuncia, un mero atto interno, non indirizzato e non notificato alla M.).

Avverso la suddetta pronuncia, M.M. propone ricorso per cassazione, affidato a tre motivi, nei confronti del Comune di Modica (che non svolge attività difensiva). La ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. La ricorrente lamenta: 1) con il primo motivo, la violazione del protocollo addizionale della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, dell’art. 10 Cost., artt. 2934, 2935 e 2937 c.c., deducendo che, alla data di proposizione della domanda (giugno 2000), non era decorso il termine quinquennale di prescrizione in relazione al diritto al risarcimento del danno, attesa la pacifica irreversibile trasformazione del terreno occupato, in difetto di decreto di esproprio, e considerata l’istanza presentata nell’ottobre 1997, al fine della richiesta di integrazione dell’indennizzo liquidato con la transazione del 1996, e doveva essere disapplicata la Delib. consiglio comunale del settembre 1999, illegittima; 2) con il secondo motivo, la violazione della L.R. siciliana n. 16 del 1963 e del D.L. Presidente Regione Sicilia n. 6 del 1955, essendo competente, in base alla suddetta normativa tuttora vigente, il Consiglio comunale alla stipula di transazioni, con conseguente piena validità della Delib. consiliare marzo 1999, n. 22 con la quale era stato deliberato il riconoscimento di debito fuori bilancio per la somma di Lire 101 milioni; 3) con il terzo motivo, la violazione del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e) dovendo ritenersi che la Delib. Consiglio comunale del marzo 1999 aveva valenza piena di riconoscimento del debito di 101 milioni di vecchie lire, quale indennizzo effettivamente dovuto alla ricorrente, e non di mero atto prodromico.

2. La prima censura è inammissibile in quanto non pertinente al decisum.

La Corte d’appello, esaminando il secondo motivo di appello, con il quale si denunciava l’erroneità della decisione di primo grado per avere escluso la configurabilità della rinuncia alla prescrizione desumibile dal riconoscimento di debito contenuto nella deliberazione del marzo 1999, ha rilevato che nessuna doglianza era stata sollevata dalla M. circa l’individuazione, nel febbraio 1991, della data di irreversibile trasformazione del fondo dell’attrice, fatto questo accertato dal Tribunale, ed ha confermato la statuizione del giudice di primo grado in ordine al decorso del termine di prescrizione quinquennale per l’azione di risarcimento del danno al 25/2/1996, cosicchè, a causa della maturazione del termine prescrizionale, non poteva rilevare alcuna interruzione nè poteva ritenersi che l’ente avesse inteso rinunciare all’evento estintivo dell’altrui diritto.

Tali statuizioni vengono censurate, deducendosi che, alla data della citazione, nel 2000, il termine quinquennale di prescrizione non era decorso, atteso che, alla luce dei principi posti dalle Sezioni Unite nel 2015, con la sentenza n. 735, l’illecito spossessamento e l’irreversibile trasformazione di un’area non comportano l’acquisizione da parte dell’amministrazione, tanto che il privato può chiederne la restituzione salvo che non decida di abdicare al suo diritto di proprietà, chiedendo il risarcimento del danno, nel qual caso la prescrizione quinquennale per la richiesta di risarcimento del danno da occupazione decorre, quanto alla reintegrazione per equivalente, dalla data della domanda e, per il pregiudizio da mancato godimento, dalle singole annualità. Nella specie, alla data di proposizione della domanda nel 2000, il termine quinquennale di prescrizione non era dunque maturato ed era L’1/ efficace l’atto interruttivo del 10/10/1997.

In effetti, le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 735/2015, hanno affermato, superando, alla luce della giurisprudenza della Corte EDU (che aveva fatto cadere il presupposto della possibilità di affermare in via interpretativa che da una attività illecita della P.A. potesse derivare la perdita del diritto di proprietà da parte del privato), la distinzione tra occupazione illegittima usurpativa ed occupazione illegittima appropriativa, che “l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte della P.A., allorchè il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, integra un illecito di natura permanente che dà luogo ad una pretesa risarcitoria avente sempre ad oggetto i danni per il periodo, non coperto dall’eventuale occupazione legittima, durante il quale il privato ha subito la perdita delle utilità ricavabili dal bene sino al momento della restituzione, ovvero della domanda di risarcimento per equivalente che egli può esperire, in alternativa, abdicando alla proprietà del bene stesso. Ne consegue che la prescrizione quinquennale del diritto al risarcimento dei danni decorre dalle singole annualità, quanto al danno per la perdita del godimento del bene, e dalla data della domanda, quanto alla reintegrazione per equivalente”. Si legge, in motivazione, che, quando il decreto di esproprio non sia stato emesso o sia stato annullato, l’occupazione e la manipolazione del bene immobile di un privato da parte dell’Amministrazione “si configurano, indipendentemente dalla sussistenza o meno di una dichiarazione di pubblica utilità, come un illecito di diritto comune, che determina non il trasferimento della proprietà in capo all’Amministrazione, ma la responsabilità di questa per i danni”, cosicchè, con riguardo alle fattispecie già ricondotte alla figura dell’occupazione acquisitiva, “viene meno la configurabilità dell’illecito come illecito istantaneo con effetti permanenti e, conformemente a quanto sinora ritenuto per la c. d. occupazione usurpativa, se ne deve affermare la natura di illecito permanente, che viene a cessare solo per effetto della restituzione, di un accordo transattivo, della compiuta usucapione da parte dell’occupante che lo ha trasformato, ovvero della rinunzia del proprietario al suo diritto, implicita nella richiesta di risarcimento dei danni per equivalente”, dovendosi escludere “che il proprietario perda il diritto di ottenere il controvalore dell’immobile rimasto nella sua titolarità”, essendo, in alternativa alla restituzione, sempre concessa al proprietario l’opzione per una tutela risarcitoria, con una implicita rinuncia al diritto dominicale sul fondo irreversibilmente trasformato, rinuncia a carattere abdicativo e non traslativo: ragione questa per cui da essa non consegue, quale effetto automatico, l’acquisto della proprietà del fondo da parte dell’Amministrazione (cfr. Cass. 20231/2016). Nella fattispecie, quindi, l’illecito permanente posto in essere dalla pubblica amministrazione con l’occupazione, non seguita da decreto di esproprio, e l’irreversibile trasformazione dell’area illegittimamente occupata era venuto, solo in parte, a cessare con l’accordo transattivo del maggio 1996, con il quale la M. ed il Comune avevano concordato l’indennizzo dovuto dall’Ente in relazione al suolo di proprietà della seconda, in Modica, per l’estensione di mq 930, corrispondente a quella indicata al momento dell’occupazione d’urgenza del 1977.

Tuttavia, con la domanda del 2000, la M. non ha azionato una pretesa risarcitoria di danno, nei confronti del Comune di Modica, per un’eccedenza di mq 316 irreversibilmente occupata e non indennizzata dall’ente, facendo seguito ad una nota da essa trasmessa al Comune nell’ottobre 1997, nella quale essa già aveva chiesto l’indennizzo dovutole in ragione di tale causale, domanda di risarcimento del danno sempre correlata all’illecito permanente posto in essere dalla PA, non venuto a cessare per la superficie di terreno non ricompresa nell’accordo transattivo del 1996, con conseguente inoperatività della prescrizione del sotteso diritto al risarcimento del danno, con tale domanda azionato, alla luce dell’insegnamento delle Sezioni Unite del 2015.

Dalla decisione impugnata, si deduce che la M. aveva, con la citazione del 2000, inteso invocare una transazione integrativa, stipulata tra essa e l’amministrazione, il 14/11/1997, con approvazione da parte del Comune di Modica per effetto della Delib. consigliare 4 marzo 1999, n. 22 contenente riconoscimento del debito e rinuncia a far valere la prescrizione dell’altrui dritto o comunque interruzione del decorso del termine prescrizionale.

La Corte d’appello (confermando la statuizione del Tribunale) ha respinto la domanda, ritenendo che non era stata dimostrata la stipula di una transazione integrativa. La questione del decorso del termine prescrizionale costituiva solo un’argomentazione ad abundantiam del giudice di primo grado, confermata dal giudice di appello, al fine di escludere, in ogni caso, stante il ritenuto decorso al febbraio 1996, del termine di prescrizione quinquennale, che, con la Delib. marzo 1999, l’amministrazione avesse potuto validamente rinunciare a detta prescrizione, essendo rimasta la delibera un mero atto interno non comunicato alla beneficiaria M..

La ricorrente, con il motivo, mira invece a spostare il tiro della domanda originariamente proposta, introducendo un thema decidendum nuovo.

3. Il secondo motivo è inammissibile. Deduce la ricorrente che il Consiglio comunale era pienamente legittimato a concludere, in base alla normativa regionale speciale, transazioni, del valore in oggetto.

Ma la Corte d’appello ha interpretato, con accertamento in fatto insindacabile in questa sede di legittimità, in quanto esaustivamente motivato, la delibera in questione come un atto con il quale il Consiglio comunale manifestava la sola disponibilità alla contrazione di un debito fuori bilancio, nell’ottica di riconoscimento della proposta transattiva avanzata dalla M., senza che poi ad essa facesse seguito la stipula della transazione scritta, avendo anzi il Consiglio comunale modificato la pregressa Delib. settembre 1999, riconoscendo dovuta una minore somma costituita dalla sorte capitale maggiorata degli interessi per occupazione illegittima maturati negli ultimi cinque anni, stante l’intervenuta prescrizione per il periodo precedente.

La Corte di merito ha fatto applicazione del principio di diritto affermato da questa Corte (Cass. 1510/2015; Cass. 25373/2013; Cass. 9412/2011) secondo il quale: “il riconoscimento di un debito fuori bilancio, D.Lgs. 15 settembre 1997, n. 342, ex art. 5 poi trasfuso nel D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, art. 194, comma 1, lett. e), costituisce un procedimento discrezionale che consente all’ente locale di far salvi nel proprio interesse – accertati e dimostrati l’utilità e l’arricchimento che ne derivano, per l’ente stesso, nell’ambito dell’espletamento di pubbliche funzioni e servizi di competenza – gli impegni di spesa per l’acquisizione di beni e servizi in precedenza assunti tramite specifica obbligazione, ancorchè sprovvista di copertura contabile, ma non introduce una sanatoria per i contratti nulli o, comunque, invalidi – come quelli conclusi senza il rispetto della forma scritta “ad substantiam” – nè apporta una deroga al regime di inammissibilità dell’azione di indebito arricchimento di cui al D.L. 2 marzo 1989, n. 66, art. 23 convertito, con modificazioni, dalla L. 24 aprile 1989, n. 144". Del pari consolidato è il principio secondo cui la volontà di obbligarsi da parte della P.A. non può desumersi da atti o fatti concludenti, dovendo, per converso, manifestarsi attraverso la forma scritta, ed esso trova integrale applicazione anche con riferimento alle transazioni concluse dagli enti pubblici, le quali debbono, a pena di nullità, assumere forma scritta, in quanto prevale, sulla regola generale di cui all’art. 1967 c.c., che richiede, per tale tipo di contratto, detta forma solo “ad probationem”, il principio, avente carattere di specialità, secondo il quale i contratti della P.A. richiedono la forma scritta “ad substantiam” (Cass. 638/2019; Cass. 26047/2005).

La Corte d’appello ha precisato che, nella specie, non risultava alcuna transazione integrativa conclusa con atto scritto, tale non potendosi definire la Delib. n. 22 del 1999.

La doglianza non coglie la ratio della statuizione, con sua conseguente inammissibilità.

4. Il terzo motivo è assorbito, stante il rigetto del pregresso motivo, in quanto la Corte di merito, come detto sopra, ha interpretato la delibera come atto comunque insufficiente a provare la conclusione di una transazione vincolante per l’ente.

5. Per tutto quanto sopra esposto, va respinto il ricorso. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

PQM

La Corte respinge il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali del presente giudizio di legittimità, liquidate in complessivi Euro 2.500,00, a titolo di compensi, oltre 200,00 per esborsi, nonchè al rimborso forfetario delle spese generali, nella misura del 15%, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della ricorrenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, del comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 2 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 8 gennaio 2020

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