LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. VINCENTI Enzo – rel. Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8311-2018 proposto da:
D.G., elettivamente domiciliata in ROMA, LARGO SARTI 4, presso lo studio dell’avvocato BRUNO CAPPONI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato DOMENICO DI FALCO;
– ricorrente –
contro
B.L., B.B.M., in proprio e nella qualità di eredi di B.E., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CASSIODORO 9, presso lo studio dell’avvocato MARIO NUZZO, che li rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCA PACE, VINCENZO MARICONDA, ANTONINO MORVILLO;
– controricorrenti –
avverso la sentenza n. 5242/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 14/12/2017;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/10/2019 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. PATRONE IGNAZIO, che ha concluso per il rigetto del ricorso;
udito l’Avvocato MARCO RUSSO per delega;
udito l’Avvocato NICCOLO GALLITTO per delega.
FATTI DI CAUSA
1. – All’esito del procedimento penale instaurato nei confronti di D.D.G. per il reato di circonvenzione di incapace ex art. 643 c.p., il Tribunale penale di Milano, con sentenza del gennaio 2011, condannò quest’ultima alla pena di anni 2, mesi 6 di reclusione ed Euro 1.000,00 di multa, con provvisionale di Euro 1.500.000,00 in favore delle costituite parti civili, B.B. e B.L., figli della persona offesa, B.E., deceduto in data *****.
2.- La Corte di appello penale di Milano, investita del gravame interposto dalla D., con sentenza n. 5552/2014, in riforma della sentenza di primo grado, ne pronunciò l’assoluzione con la formula “perchè il fatto non sussiste” e revocò “ogni statuizione civile”.
3.- Avverso la sentenza di appello proposero ricorso per cassazione le parti civili B.B. e B.L., che fu accolto da questa Corte, Seconda Sezione penale, con sentenza n. 36424/2015, che annullò la decisione di gravame per “vizio della motivazione”, con rinvio al giudice civile, competente per valore in grado di appello, per il “giudizio ai fini civilistici del risarcimento del danno”.
4.- A seguito di riassunzione del giudizio da parte B.B. e B.L., “in proprio e quali eredi del defunto padre B.E.”, la Corte di appello civile di Milano, con sentenza resa pubblica in data 14 dicembre 2017, “accerta(va) la responsabilità civile di D.D.G. per i fatti illeciti commessi a decorrere dal luglio 2003 ai danni di B.E., di cui al giudizio penale conclusosi” con l’anzidetta sentenza n. 36424/15, e per l’effetto la condannava “al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili B.B. e L.”, che liquidava in Euro 704.703,44, oltre accessori, per danno patrimoniale, in Euro 500.000,00 per danno non patrimoniale, di cui Euro 300.000,00 iure hereditatis ed Euro 100.000,00 per ciascuno iure proprio, oltre le spese di lite dei giudizi di appello e di cassazione.
4.1.- La Corte territoriale, a fondamento della decisione, osservava che: a) le argomentazioni della difesa della D. circa l’intervenuta preclusione delle domande risarcitorie svolte dai fratelli B. per effetto di giudicato – formatosi sia (esternamente al giudizio) per l’accertamento sulla “insufficienza psichica di B.E.” a seguito della sentenza civile n. 451/2015 della Corte di appello di Milano, sia (internamente al giudizio) per l’assoluzione pronunciata dalla Corte di appello con la sentenza n. 5552/2014 – si ponevano “in palese contrasto” con la sentenza rescindente di questa Corte n. 36424/2015, che, pur non intaccando “gli effetti penali della decisione di secondo grado”, rimetteva al giudice civile l’accertamento e la determinazione del risarcimento dei danni provocati dalla condotta della stessa D.; b) i fatti “emersi nel giudizio penale” consistevano: nelle “continue e ingiustificate operazioni patrimoniali di B.E. a favore di D.”; nel “trasferimento della fiducia gestoria a costei, a danno dei figli fisicamente allontanati”; nell’ingravescente stato d’incapacità in cui versava all’epoca la vittima, di cui D. ebbe modo di avvedersi, in ciò facilitata dalla coabitazione e dalle sue competenze mediche”; nella “suadente e progressiva attività di spoliazione dell’anziano imprenditore, perpetrata da D., che con estrema abilità (lo) indusse… a credere che le immotivate e plurime elargizioni a suo favore fossero frutto della sua autonoma decisione di ricompensarla per la sua dedizione”; c) tali fatti, “in dettaglio già delineati dalla Suprema Corte e da ritenersi nel loro complesso costitutivi dell’illecito ab origine contestato, non più sanzionabile in sede penale…, integra(va)no senza alcun dubbio la piena responsabilità civile del soggetto agente”; d) quanto al risarcimento del danno patrimoniale, da circoscrivere rispetto ai fatti verificatisi successivamente al luglio 2003 e da riconoscersi agli appellanti iure hereditatis, era ammontante ad Euro 704.703,44, quale “sommatoria degli importi da essi indicati” in riferimento ad “illecite elargizioni” (specificate in sentenza alle pp. 6 e 7); e) quanto al danno non patrimoniale: e.1) quello iure hereditatis, patito dal defunto B.E., andava liquidato in Euro 300.000,00, per esser stata la “vittima nei suoi ultimi anni di vita… raggirata e colpita sia sul piano patrimoniale, che negli affetti da una donna… che in virtù della lunga e stretta frequentazione avrebbe dovuto essergli amica e che invece non esitò ad approfittare dello stato di minorata difesa in cui si venne a trovare l’anziano imprenditore, inducendolo con estrema abilità a cospicue e continue elargizioni di denaro a sua favore e nel contempo isolandolo dai familiari e privandolo del loro affetto”: fatto, questo, di “eclatante gravità”, commesso per “esclusiva cupidigia e con totale spregio dei valori affettivi”; e.2) quello iure proprio, andava liquidato in Euro 100.000,00, in favore di ciascuno degli appellanti, avendo essi patito “sebbene in misura inferiore alle sofferenze subite dalla vittima del reato) un “significativo danno sul piano morale”, per la sofferenza “di vedere il padre irretito, raggirato e spogliato dei suoi beni” e per l’ingiustificato raffreddamento del loro rapporto affettivo nell’ultimo periodo della sua vita”.
5.- Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso D.D.G., affidando le sorti dell’impugnazione ad otto motivi, ai quali resistono con congiunto controricorso B.L. e B.B..
Entrambe le parti hanno depositato memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. – Con il primo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione degli artt. 99,100 e 112 c.p.c., per aver erroneamente la Corte territoriale omesso di rilevare d’ufficio il difetto di legitimatio ad causam degli attori nel giudizio di riassunzione in ordine alla domanda di risarcimento dei danni, patrimoniali e non patrimoniali, iure hereditatis e, conseguentemente, condannato l’appellata al relativo ristoro, pur essendo tale specifica domanda stata così formulata soltanto in sede di riassunzione, per essersi costituiti B.L. e B. quali parti civili nel procedimento penale unicamente “nella loro qualità di figli della persona offesa B.E.” e, quindi, avendo limitato la pretesa risarcitoria al solo danno loro spettante iure proprio.
2. – Con il secondo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione degli artt. 99,100,112 e 394 c.p.c., per aver erroneamente il giudice di rinvio deciso, accogliendola, sulla domanda risarcitoria iure hereditatis formulata dai B. solo in sede di riassunzione e, pertanto, su domanda nuova rispetto a quella spiegata con l’esercizio dell’azione civile nel procedimento penale e, dunque, inammissibile perchè in violazione delle preclusioni di cui all’art. 394 c.p.c..
2.1. – I motivi, da scrutinarsi congiuntamente per la loro stretta connessione, non possono trovare accoglimento.
2.1.1. – Essi, secondo il loro chiaro tenore argomentativo (e, quindi, anche a prescindere da eventuali erronee indicazioni delle norme che si assumono violate), pongono una questione di individuazione della domanda risarcitoria proposta da B.B. e B.L., se o meno comprensiva della pretesa di ristoro del danno patito quali eredi di B.E. ovvero soltanto in proprio, in siffatti termini postulando anche la presupposta indagine sulla relativa legittimazione attiva, ossia sulla titolarità del potere di promuovere il giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto, secondo la prospettazione della parte stessa (tra le tante, Cass., 27 marzo 2017, n. 7776).
In ogni caso, si tratta di questioni che sono rilevabili d’ufficio – in assenza di formazione di giudicato interno (come nella specie) – e che, denunciando un error in procedendo per difetto dell’attività valutativa del giudice a quo, impongono a questa Corte, in quanto giudice del fatto processuale, di deciderle mediante l’accesso diretto agli atti processuali (tra le molte, Cass., 12 marzo 2018, n. 5971).
E tanto non muta anche alla luce del condivisibile orientamento, recentemente seguito da questa Corte (Cass., 12 giugno 2019, n. 15859, Cass., 25 giugno 2019, n. 16916, Cass., 10 settembre 2019, n. 22525 e n. 22516), per cui “il giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. è solo formalmente una mera prosecuzione del processo penale e si configura, invece, come sostanziale transiatio iudicii dinanzi al giudice civile, per cui, seppur tecnicamente regolato dagli artt. 392-394 c.p.c., non è affatto ipotizzabile un vincolo come quello che consegue all’enunciazione di un principio di diritto ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Pertanto, la Corte di appello civile, competente per valore, alla quale è stato rimesso il procedimento ai soli effetti civili, è tenuta a seguire le regole, processuali e sostanziali, proprie del giudizio civile, vertendo il giudizio di rinvio su azione civile che si svolge in autonomia rispetto alla fase penale che, rimasta ormai priva di qualsivoglia interesse, si è definitivamente esaurita a seguito della pronuncia emessa dalla Corte di cassazione ai sensi dell’art. 622 c.p.p.”.
Ne consegue che la morfologia del giudizio di rinvio, ricostruita in termini di autonomia strutturale e funzionale rispetto al processo penale ormai conclusosi, deve consentire di ritenere legittima, oltre alla possibilità di formulazione di nuove conclusioni sorte in conseguenza di quanto rilevato dalla sentenza di cassazione penale, anche l’emendatio della domanda ai fini della prospettazione degli elementi costitutivi dell’illecito civile, sia pur nel limite del sistema generale delle preclusioni fissato dall’art. 183 c.p.c. alla luce del recente insegnamento delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass., S.U., 15 giugno 2015, n. 12310).
Difatti, rimane pur sempre l’azione civile esperita con la originaria costituzione di parte civile nel giudizio penale, imponendosi al giudice civile l’esame del contenuto della domanda così formulata, secondo modalità “contenutistiche e formali sostanzialmente omologhe a quelle previste dal codice di rito civile per il contenuto della citazione” (Cass. n. 15859/2019, cit.).
2.1.2. – Contrariamente a quanto opinato da parte ricorrente, il tenore della costituzione di parte civile nel giudizio penale instaurato contro la D. per il reato ex art. 643 c.p. (presente in atti – cfr. anche doc. n. 6 fascicoletto ricorrenti – e, peraltro, riportata solo in stralcio nel ricorso) rende evidente che essa era volta a conseguire non solo i danni patiti in proprio, ma anche quali eredi del defunto padre, essendo ivi posta in risalto la funzionalizzazione dell’azione civile esercitata rispetto al ristoro di tutti i danni, patrimoniali e non, diretti e indiretti, subiti e subendi, in “qualità di figli della persona offesa”, già defunta all’epoca dell’esercizio di detta azione, là dove tale compendio, in uno con la relazione parentale costitutiva di per se stessa di rapporto successorio legittimo, depone nei termini, per l’appunto, di domanda risarcitoria anche iure hereditatis.
3. – Con il terzo mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 99,100 e 112 c.p.c.; violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c. e art. 324 c.p.c., nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.
La Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione di giudicato civile formatosi a seguito della sentenza n. 451/2015 della Corte di appello Civile di Milano, che aveva accertato la piena capacità e libera determinazione di B.E. in relazione ad un atto di compravendita del dicembre 2003; in ogni caso, la motivazione resa dal giudice di appello sarebbe “meramente apparente” ovvero viziata per omesso esame del giudicato anzidetto inteso come fatto storico.
3.1. – Il motivo è infondato.
Premesso che sull’eccezione di giudicato formatosi a seguito della sentenza n. 451/2015 della Corte di appello di Milano il giudice di appello si è pronunciato (cfr. pp. 4 e 5 sentenza impugnata), escludendone la sussistenza, va, comunque, osservato (anche con riferimento agli ulteriori profili di doglianza) che l’accertamento di un giudicato esterno, al pari del giudicato interno, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione; ne deriva che, a prescindere quindi dalla posizione assunta in giudizio dalle parti, l’esistenza di un giudicato esterno (così come del giudicato interno) è rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del processo, con la conseguenza che il giudice di legittimità può direttamente accertare l’esistenza e la portata del giudicato stesso con cognizione piena, che si estende al riesame, alla valutazione ed all’interpretazione degli atti processuali, richiedendosi però (ai fini della verifica del giudicato esterno) la presenza in atti (come è nella specie) della sentenza che si intenda far valere, munita dell’attestazione dell’intervenuto passaggio in giudicato (tra le molte, Cass., 9 settembre 2008, n. 22883, Cass., 3 aprile 2017, n. 8607, Cass., 26 giugno 2018, n. 16847).
Ciò posto, giova rammentare che, sotto il profilo della individuazione di detto giudicato, qualora due giudizi tra le stesse parti si riferiscano al medesimo rapporto giuridico ed uno di essi sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l’accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il petitum del primo (tra le altre, Cass., sez. un., 16 giugno 2006, n. 13916; Cass., 12 aprile 2010, n. 8650; Cass., 9 dicembre 2016, n. 25269; Cass., 15 maggio 2018, n. 11754).
Il rapporto giuridico implicato dalla citata sentenza n. 451/2015 (cfr. in atti, doc. n. 8 “fascicoletto” ricorrente) riguardava una vendita immobiliare intervenuta il ***** tra B.E. e la D., della quale B.L. e B., in proprio e quali eredi dell’alienante, ne chiedevano la nullità (oltre che per simulazione, dissimulando la stessa una donazione) “per effetto della consumazione… del reato di circonvenzione di incapace” in danno dell’alienante o, comunque, l’annullamento (anche della donazione dissimulata) per “stato di incapacità di intendere e volere” del medesimo B.E.: domande tutte rigettate dalla Corte di appello di Milano con la predetta sentenza.
Tuttavia, in base a tale sentenza, l’accertata validità della vendita immobiliare anzidetta e (in particolare) il relativo presupposto accertamento sulla assenza di incapacità di intendere e volere di B.E. rispetto a siffatto atto di disposizione o, comunque, sempre in relazione ad esso, l’assenza dei presupposti per dirsi integrato il reato di circonvenzione di incapace non costituiscono giudicato esterno nel presente giudizio, in cui non è oggetto la compravendita del *****.
Inoltre, occorre rammentare che il giudicato formatosi sull’insussistenza dell’incapacità naturale richiesta per l’annullamento contrattuale ex art. 428 c.c. è inopponibile nel giudizio volto a far dichiarare la nullità del medesimo contratto per circonvenzione di incapace, atteso che, mentre l’art. 428 c.c. richiede l’accertamento di una condizione espressamente qualificata di incapacità di intendere e di volere, ai fini dell’art. 643 c.p. è, invece, sufficiente che l’autore dell’atto versi in una situazione soggettiva di fragilità psichica derivante dall’età, dall’insorgenza o dall’aggravamento di una patologia nEurologica o psichiatrica anche connessa a tali fattori o dovuta ad anomale dinamiche relazionali che consenta all’altrui opera di suggestione ed induzione di deprivare il personale potere di autodeterminazione, di critica e di giudizio (Cass., 19 maggio 2016, n. 10329).
Sicchè, non è dato apprezzare nella sentenza n. 451/2015 un accertamento, con valore di giudicato, sull’anzidetta situazione soggettiva, integrante elemento costitutivo del reato ex art. 643 c.p., che riguardi atti dispositivi diversi dalla predetta vendita immobiliare, quali, segnatamente, quelli oggetto del presente giudizio risarcitorio (cfr. le somme indicate nella sentenza impugnata alle pp. 6 e 7, con riferimento al capo di imputazione elevato contro la D. nel giudizio penale).
4. – Con il quarto mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3, 4 e 5, violazione e falsa applicazione degli artt. 99,100 e 112 c.p.c., art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4 e art. 394 c.p.c., violazione e falsa applicazione degli artt. 622,651 e 652 c.p.p., nonchè omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.
La Corte territoriale, a fronte della mancata impugnazione da parte del pubblico ministero della sentenza della Corte di appello di penale di Milano che aveva assolto l’imputata con la formula “perchè il fatto non sussiste”, avrebbe omesso di pronunciarsi sull’eccezione di giudicato interno ritualmente sollevata; in ogni caso, la motivazione resa dal giudice di appello sarebbe “meramente apparente” ovvero viziata per omesso esame del giudicato anzidetto inteso come fatto storico.
4.1. – Il motivo è infondato.
A tal riguardo, è dirimente rilevare che, sia nel vigore dell’art. 541 c.p.c. del 1930, sia in base al vigente art. 622 c.p.c. la sentenza penale assolutoria della responsabilità penale dell’imputato con rinvio al giudice civile per la decisione sul risarcimento del danno, determina la separazione del rapporto penale da quello civile, sul quale non ha effetti il giudicato penale (Cass., 24 novembre 1998, n. 11897; Cass., 22 maggio 2006, n. 11936; Cass., n. 15859/2019).
5. – Con il quinto mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e/o falsa applicazione degli artt. 99,100,112 e 394 c.p.c. e dell’art. 622 c.p.p., violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., per aver la Corte territoriale omesso di procedere ad autonomo accertamento dei fatti, adottando una motivazione “per relationem meramente apparente”, senza procedere ad alcuna valutazione in relazione all’an debeatur, basandosi solo sulle dichiarazioni degli attori rese in sede penale (e, quindi, non utilizzabili in quella civile) e senza valutare “gli elementi probatori emergenti dall’istruttoria penale”(segnatamente, secondo quanto argomentato in ricorso da p. 33 a p. 42: gli esami di parti e testi indicati dalla lett. a) alla lett. m); i documenti indicati alla lett. n); la sentenza della Corte di appello di Milano n. 415/2014 indicata alla lett. o)), ma limitando il proprio esame al quantum debeatur, con conseguente erronea percezione dei poteri ed essa riconosciuti ex art. 622 c.p.p..
5.1. – Il motivo è in parte infondato e in parte inammissibile.
Premesso quanto già innanzi evidenziato in riferimento alla natura e portata del giudizio di rinvio ex art. 622 c.p.p. (alla stregua dei citati precedenti: Cass. n. 15859/2019, Cass. n. 16916/2019, Cass. n. 22525/2019 e Cass. n. 22516/2019), è, quindi, da escludersi, proprio in applicazione del combinato disposto dell’art. 622 c.p.p. e art. 384 c.p.c., comma 2, un vincolo per il giudice di rinvio derivante dalla sentenza rescindente emessa dalla Cassazione penale.
Di qui, per quanto riguarda il profilo di censura che investe la dedotta assenza di un autonomo accertamento, da parte della Corte di appello civile, sulla responsabilità civile della D., adducendo, in sostanza, che la decisione sarebbe il frutto di una motivazione per relationem alla sentenza rescindente e non già di una valutazione propria del giudice di rinvio, occorre rilevare che, se è vero che la Corte ha ritenuto dover richiamare quanto dalla Suprema Corte ricostruito nei fatti, una affermazione di tal genere non elide l’autonomo accertamento di responsabilità che pur è dato cogliere nella sentenza impugnata in questa sede e che è idoneo a sorreggere la statuizione di condanna della D..
Difatti, il giudice di appello ha inteso riaffermare, con integrale richiamo, quei fatti evidenziati dalla Corte penale rescindente, ritenendoli, nel loro complesso, elementi costitutivi dell’illecito ab origine contestato e, pertanto, idonei ad integrare la piena responsabilità civile del soggetto agente.
Sicchè, l’affermazione della responsabilità civile della D. risulta frutto di un autonomo accertamento dei fatti della Corte territoriale in quanto del relativo convincimento si radica in una propria valutazione delle prove raccolte del precedente processo penale e ricavate direttamente dalla sentenza rescindente, ben potendo il relativo iter argomentativo guidare anche da solo il razionale convincimento del giudice di merito (Cass., 5 agosto 2005, n. 16559; Cass., S.U., 27 maggio 2009, n. 12243; Cass., 29 ottobre 2010, n. 22200; Cass., 24 settembre 2015, n. 18899).
Sentenza, quella rescindente, che, dunque, in tale ottica – e ancor prima in quella evidenziata per cui essa non crea alcun vincolo al giudice del rinvio ex art. 622 c.p.p., restando autonomo il relativo giudizio civile – riveste idonea prova atipica, rimessa al prudente apprezzamento del giudice del merito e pienamente utilizzabile, giacchè, al di fuori dei casi di prova legale, non esiste nel nostro ordinamento una gerarchia delle prove, per cui i risultati di talune di esse debbano necessariamente prevale nei confronti di altri dati probatori (Cass., 17 giugno 2013, n. 15112; Cass., 20 gennaio 2017, n. 1593).
Quanto, poi, al denunciato omesso esame delle risultanze probatorie, esso si risolve in una richiesta rivalutazione del merito, senza che vengano evidenziati (alla stregua di quanto enunciato da Cass. S.U., 7 aprile 2014, n. 8053), fatti storici, materiali, bensì solo prove (orali e documentali) che di per sè non integrano la nozione di fatto di cui al vigente n. 5 dell’art. 360 c.p.c..
Infine, si palesa generica la doglianza sulla inutilizzabilità in sede civile delle dichiarazioni delle parti, giacchè non trova puntuale specificazione il relativo contenuto, tale da poter esser scrutinato come decisivo nell’economia complessiva della valutazione del giudice del merito circa le prove idonee, e sufficienti, ad aver fondato il convincimento sull’esistenza dell’illecito civile.
6. – Con il sesto mezzo è prospettata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 115,394 e 622 c.p.p. e artt. 12231226 e 2059 c.c., per aver la Corte territoriale, “compiendo un errore di percezione nella ricognizione del contenuto oggettivo dei documenti”, quantificato il danno patrimoniale senza accertare l’effettivo beneficiario degli assegni e prelievi rilevanti, nonchè la riconducibilità di tali somme a favore della D..
6.1. – Il motivo è inammissibile.
La ricorrente pone a sostegno del motivo il principio di diritto secondo cui, in materia di ricorso per cassazione, mentre l’errore di valutazione in cui sia incorso il giudice di merito – e che investe l’apprezzamento della fonte di prova come dimostrativa, o meno, del fatto che si intende provare – non è mai sindacabile in sede di legittimità, l’errore di percezione, cadendo sulla ricognizione del contenuto oggettivo della prova, qualora investa una circostanza che ha formato oggetto di discussione tra le parti, è sindacabile ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per violazione dell’art. 115 c.p.c., norma che vieta di fondare la decisione su prove reputate dal giudice esistenti, ma in realtà mai offerte (Cass., 12 aprile 2017, n. 9356; in senso conforme anche Cass., 19 luglio 2018, n. 19293 e Cass., 24 ottobre 2018, n. 27033).
Tuttavia, là dove (sempre inammissibilmente) le doglianze non attingano piuttosto ad una rivalutazione delle emergenze probatorie, senza che sia veicolata una denuncia di omesso esame ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (nei termini indicati dalla citata Cass., S.U., n. 8053/2014), la prospettazione dell’erronea percezione di circostanze di fatto che hanno formato oggetto di discussione tra le parti è affatto carente del supporto di idonea indicazione, e di congrua localizzazione processuale ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di dove (ossia con quali atti difensivi) e quando le parti abbiano discusso, in sede di giudizio di rimessione ex art. 622 c.p.p., sulle circostanze tratte dai documenti, assegni, bonifici e prelievi assunti come rilevanti ai fini del decidere.
7. – Con il settimo mezzo è denunciata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4; nonchè, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione artt. 115,1223,1226 e 2059 c.c., per aver la Corte territoriale liquidato il danno non patrimoniale iure hereditatis in Euro 300.000,00 senza alcuna valida giustificazione e motivazione per non aver esplicitato i presupposti ed i parametri sui quali fonda tale determinazione.
8. – Con l’ottavo mezzo è dedotta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4, nonchè ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, violazione e falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e artt. 1223,1226 e 2059 c.c., per aver erroneamente la Corte territoriale quantificato il danno non patrimoniale iure proprio in Euro 100.000,00 ciascuno a favore dei sig.ri B.L. e B., senza una valida giustificazione.
8.1. – I motivi, che possono essere congiuntamente scrutinati per la loro stretta connessione, sono infondati.
L’esercizio, in concreto, del potere discrezionale conferito al giudice di liquidare il danno in via equitativa non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità quando la motivazione della decisione dia adeguatamente conto dell’uso di tale facoltà, indicando il processo logico e valutativo seguito (tra le altre, Cass., 13 ottobre 2017, n. 24070).
Nella specie, la Corte territoriale, con motivazione affatto intelligibile (cfr. sintesi al p. e) dei “Fatti di causa”, cui si rinvia integralmente), ha dato contezza del percorso logico valutativo seguito nell’individuare i criteri ai quali ha ancorato la liquidazione del danno morale patito iure hereditatis e iure proprio dagli attori in conseguenza dell’illecito civile sostanziato dal fatto reato ex art. 643 c.p..
9. – Il ricorso va, dunque, rigettato e la ricorrente condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo.
PQM
rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 12.200,00, per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, e agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, il 4 ottobre 2019.
Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020
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