Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.538 del 15/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARMANO Uliana – Presidente –

Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. SCODITTI Enrico – rel. Consigliere –

Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4035/2018 proposto da:

D.F.A., TRIGON VERMOGENSVERWALTUNG DES FRANK DIEMER

& CO KG, in persona del legale rappresentante pro tempore D.F.A., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G. CUBONI 12 C/C ST. MACCHI, presso lo studio dell’avvocato CLAUDIO VISCO, che li rappresenta e difende unitamente all’avvocato SILVIA LAZZERETTI;

– ricorrenti –

contro

R.G., elettivamente domiciliato in ROMA, LUNGOTEVERE MARZIO 1, presso lo studio dell’avvocato LUCA VIANELLO, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ROCCO PAOLO PUCE;

UNICREDIT LEASING SPA, in persona dell’Amministratore Delegato Dott. V.E., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA EMANUELE GIANTURCO N. 6, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO CATAVELLO, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

ERIF-ONE SRL, COMUNE DI GALLARATE, M.M., B.L., IMPRESA EDILE F.A., S.E., S.M.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 758/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 22/02/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 06/11/2019 dal Consigliere Dott. ENRICO SCCDITTI.

RILEVATO

che:

Locat s.p.a. (poi UniCredit Leasing s.p.a.) convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Milano Trigon s.a.s. di F.D. & C. ed il socio accomandatario D.F.A. chiedendo l’accertamento della risoluzione per inadempimento a seguito di esercizio di clausola risolutiva espressa del contratto di locazione finanziaria e per l’effetto la condanna al rilascio degli immobili oggetto del contratto ed al pagamento della somma di Euro 985.044,60 a titolo di canoni scaduti non pagati e di clausola penale, oltre interessi. Si costituirono i convenuti proponendo in via riconvenzionale domanda di nullità del contratto di locazione finanziaria nonchè della compravendita, e relativo contratto preliminare, di acquisto degli immobili concessi in locazione finanziaria, con la restituzione degli importi ricevuti, ed in subordine di riduzione del prezzo; chiamarono inoltre in causa Immobiliare Milanese s.r.l. (che aveva ceduto a Locat gli immobili), l’impresa F.A. (costruttrice) il Comune di Gallarate, R.G. (progettista), B.L. (direttore dei lavori) e M.M.. Espose la parte convenuta che l’edificio era stato costruito ad una distanza inferiore a quella di dieci metri, prescritta dal D.M. n. 1444 del 1968, rispetto all’edificio antistante. In corso di causa, a seguito di provvedimento ai sensi dell’art. 700 c.p.c., i convenuti restituirono gli immobili alla società attrice. Il Tribunale adito, dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine alla restituzione del bene oggetto della locazione finanziaria, rigettò le domande proposti dai convenuti e condannò questi ultimi al pagamento della somma di Euro 947.801,32 oltre interessi.

Avverso detta sentenza proposero appello Trigon s.a.s. e D.F.A.. Con sentenza di data 22 febbraio 2017 la Corte d’appello accolse l’appello limitatamente all’importo delle spese processuali liquidate in primo grado e per il resto rigettò l’impugnazione. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, in relazione alla domanda di nullità dei contratti previa disapplicazione del regolamento edilizio del Comune di Gallarate e dei titoli abilitativi (concessione edilizia, permesso di costruire e certificato di agibilità), che la cognizione circa la legittimità di tali atti amministrativi, quale presupposto necessario della nullità del contratto, spettava al giudice amministrativo e che pertanto, non essendo possibile l’invocata disapplicazione da parte del giudice ordinario, doveva essere confermato il rigetto dell’azione di nullità negoziale. Aggiunse, con riferimento al motivo di appello avente ad oggetto l’improponibilità della domanda di risoluzione ai sensi dell’art. 1492 c.c. e la preclusione di quella di riduzione del prezzo nei confronti della terza chiamata Immobiliare Milanese, che il motivo era “inammissibile in quanto privo di specificità, non risultando altresì impugnato il punto di motivazione in cui il giudice afferma che la circostanza della trasformazione è pacifica (“gli opponenti…hanno ammesso di avere svolto ingenti lavori sull’immobile che lo hanno modificato e mutatone la destinazione”), e limitandosi gli appellanti a contestare nel merito la trasformazione, senza altresì contestare il significato, peraltro univoco, delle loro dichiarazioni”. Osservò ancora che “inammissibile per difetto di specificità deve ritenersi il motivo di gravame attinente ai presunti vizi e all’apparenza degli stessi, non essendo impugnata la sentenza di primo grado altresì in punto improponibilità, quale affermata dal primo giudice, della residuale domanda di riduzione prezzo e adempimento, proposta in via alternativa rispetto alla domanda di risoluzione del contratto di compravendita”. Concluse nel senso che era assorbita ogni consequenziale domanda relativa al contratto di leasing e nei confronti dei terzi chiamati.

Hanno proposto ricorso per cassazione Trigon Vermogensverwaltung des F.D. & C. KG e D.F.A. sulla base di nove motivi e resistono con distinti controricorsi UniCredit Leasing s.p.a., Comune di Gallarate e R.G.;

resistono con unico controricorso S.E. e S.M.. E’ stato fissato il ricorso in camera di consiglio ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c.. E’ stata presentata memoria.

CONSIDERATO

che:

con il primo motivo si denuncia violazione degli artt. 112 e 132 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha omesso di pronunciare in ordine alle domande di nullità contrattuale, essendosi limitata ad esaminare una mai formulata domanda di nullità degli atti amministrativi presupposti, e che, ove si ritenga che la corte abbia pronunciato, la motivazione è assente, non essendo comprensibile se la declaratoria di difetto di giurisdizione abbia ad oggetto la domanda mai formulata di nullità degli atti amministrativi o di nullità negoziali. Aggiunge che non vi è motivazione sul perchè alla carenza di giurisdizione in ordine alla legittimità degli atti amministrativi consegua il rigetto della domanda di nullità dei contratti.

Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies, art. 1418 c.c., D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46, nonchè del D.M. n. 1444 del 1968, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che i contratti, di compravendita e di leasing, sono nulli sia per violazione della norma imperativa di cui al D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 (norma primaria in quanto rinveniente la propria fonte nella L. n. 1150 del 1942, art. 41-quinquies), per essere l’edificio ad una distanza dagli edifici antistanti inferiore ai prescritti dieci metri, sia per illiceità o impossibilità dell’oggetto, per essere stato l’immobile costruito in violazione delle regole in tema di distanza fra pareti finestrate. Precisa a quest’ultimo proposito che, essendo illegittimi i titoli di abilitazione dell’attività costruttiva in quanto autorizzanti la costruzione di edificio in violazione delle distanze inderogabili fra pareti finestrate, l’immobile deve ritenersi abusivo e non commerciabile, con consequenziale nullità dei contratti.

Con il terzo motivo si denuncia omesso esame del fatto decisivo e controverso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Osserva la parte ricorrente che pacifica era la circostanza che dagli appellanti era stata contestata la circostanza della violazione delle distanze inderogabili fra edifici e che il giudice di appello ha omesso di esaminare tale decisiva circostanza.

Con il quarto motivo si denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di pronunciare sulla richiesta di prove in relazione alla circostanza della violazione delle distanze inderogabili fra edifici.

Con il quinto motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che non è stata mai proposta alcuna domanda di declaratoria di illegittimità degli atti amministrativi e nonostante ciò il giudice di appello ha rilevato il difetto di giurisdizione.

Con il sesto motivo si denuncia l’erroneo rilievo del difetto di giurisdizione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1. Osserva la parte ricorrente che erroneamente è stata applicata la regola della c.d. pregiudizialità amministrativa in quanto il giudice civile doveva semplicemente disapplicare l’atto amministrativo senza necessità che questo fosse preventivamente posto nel nulla dal giudice amministrativo, come affermato dalla giurisprudenza a proposito delle controversie fra privati in materia di distanze fra edifici.

Con il settimo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 2248 del 1865, art. 4 e art. 5, all. E, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che la Corte d’appello avrebbe dovuto, stante l’evidente illegittimità degli atti amministrativi per violazione delle distanze minime inderogabili, limitarsi alla loro disapplicazione.

Con l’ottavo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1492 c.c. e art. 342 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Osserva la parte ricorrente che, in relazione alla rilevata inammissibilità per carenza di specificità del motivo di appello, nell’atto di impugnazione era stato affermato che “non è vero che l’immobile sia stato “trasformato in toto””, con richiamo sul punto della giurisprudenza di legittimità, e che era stato anche affermato che non corrispondeva a verità che i vizi denunciati fossero apparenti, essendo stati dalla Tigon scoperti solo a seguito di consulenza tecnica disposta in altri giudizi.

Con il nono motivo si denuncia violazione dell’art. 112 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. Osserva la parte ricorrente che il giudice di appello ha omesso di pronunciare sul seguente motivo di impugnazione: la sentenza di primo grado, con la condanna al pagamento della somma di Euro 947.801,32, è incorsa nel vizio di ultrapetizione perchè mentre nella domanda era stata chiesta la condanna al pagamento della somma di Euro 985.044,60 a titolo di canoni scaduti non pagati e di clausola penale, in sede di precisazione delle conclusioni tale istanza era stata eliminata essendo rimasta solo la richiesta di rilascio degli immobili, nonchè la domanda risarcitoria proposta in via subordinata per l’ipotesi di accoglimento della domanda riconvenzionale.

Il primo ed il quinto motivo, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono infondati. Il giudice di appello ha pronunciato sul motivo di appello relativo all’azione di nullità contrattuale avendo rilevato che, essendo la dedotta nullità fondata sull’illegittimità degli atti amministrativi, la cognizione su quest’ultimo profilo spettava al giudice amministrativo e che pertanto, non essendo possibile l’invocata disapplicazione da parte del giudice ordinario, doveva essere confermato il rigetto dell’azione di nullità negoziale. La statuizione non è priva di motivazione essendo stato confermato il rigetto in primo grado della domanda riconvenzionale per non potere essere accertata dal giudice ordinario l’illegittimità degli atti amministrativi, allegata quale presupposto necessario della nullità negoziale.

Non coglie la ratio decidendi il quinto motivo, ed è pertanto privo di decisività, posto che la corte territoriale non ha rilevato un difetto di giurisdizione rispetto ad una domanda di declaratoria di illegittimità degli atti amministrativi, ma ha solo affermato che non era consentita la disapplicazione degli atti amministrativi e che era onere della parte proporre impugnativa innanzi al giudice amministrativo.

Il secondo, il terzo, il quarto, il sesto ed il settimo motivo, da valutare unitariamente in quanto connessi, sono infondati. In relazione alla rilevanza, ai fini della validità della compravendita immobiliare, dei profili attinenti la regolarità urbanistica del bene oggetto del contratto, le Sezioni Unite di questa Corte (Cass. Sez. U. 22 marzo 2019, n. 8230) sono pervenute ad una nozione di nullità negoziale testuale e non virtuale (art. 1418 c.c., comma 1), riconoscendo quale tipica causa di invalidità solo quella prevista dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46 (“gli atti tra vivi, sia in forma pubblica, sia in forma privata, aventi per oggetto trasferimento o costituzione o scioglimento della comunione di diritti reali, relativi ad edifici, o loro parti, la cui costruzione è iniziata dopo il 17 marzo 1985, sono nulli e non possono essere stipulati ove da essi non risultino, per dichiarazione dell’alienante, gli estremi del permesso di costruire o del permesso in sanatoria. Tali disposizioni non si applicano agli atti costitutivi, modificativi o estintivi di diritti reali di garanzia o di servitù”) ed escludendo l’esistenza di una norma imperativa, rilevante quale nullità virtuale, e di un generale divieto di stipulazione di atti aventi ad oggetto immobili abusivi al fine di renderli giuridicamente non utilizzabili.

Sono quindi stati enunciati i seguenti principi di diritto: “la nullità comminata dal D.P.R. n. 380 del 2001, art. 46 e dalla L. n. 47 del 1985, artt. 17 e 40, va ricondotta nell’ambito dell’art. 1418 c.c., comma 3, di cui costituisce una specifica declinazione, e deve qualificarsi come nullità “testuale”, con tale espressione dovendo intendersi, in stretta adesione al dato normativo, un’unica fattispecie di nullità che colpisce gli atti tra vivi ad effetti reali elencati nelle norme che la prevedono, volta a sanzionare la mancata inclusione in detti atti degli estremi del titolo abilitativo dell’immobile, titolo che, tuttavia, deve esistere realmente e deve esser riferibile, proprio, a quell’immobile”; “in presenza nell’atto della dichiarazione dell’alienante degli estremi del titolo urbanistico, reale e riferibile all’immobile, il contratto è valido a prescindere dal profilo della conformità o della difformità della costruzione realizzata al titolo menzionato”.

I motivi di censura in esame, con i quali si invoca la nullità contrattuale per irregolarità urbanistica dell’immobile in base alla illegittimità degli atti amministrativi (per violazione della norma inderogabile sulle distanze), il vizio motivazionale relativo a tale prospettazione della nullità, il mancato esame di istanze istruttorie e la mancata disapplicazione degli atti amministrativi (sempre in relazione all’azione di nullità), assumono una concezione virtuale (e non testuale), ovvero sostanziale, della nullità la quale non è compatibile con i principi di diritto enunciati dalle Sezioni Unite.

Con riferimento in particolare alla questione della disapplicazione degli atti amministrativi, diversamente da quanto affermato dal giudice di merito (sul punto la motivazione della sentenza impugnata va corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c.), non viene in rilievo un problema di rapporto fra negozio e provvedimento amministrativo per la risoluzione della controversia perchè pregiudiziale è la non configurabilità di una nullità, nel campo della regolarità urbanistica del bene oggetto del contratto, che non abbia la natura testuale così come delineata dalle Sezioni Unite.

L’ottavo motivo è infondato. Il giudice di merito ha rilevato che il motivo di appello era “inammissibile in quanto privo di specificità, non risultando altresì impugnato il punto di motivazione in cui il giudice afferma che la circostanza della trasformazione è pacifica (“gli opponenti…hanno ammesso di avere svolto ingenti lavori sull’immobile che lo hanno modificato e mutatone la destinazione”), e limitandosi gli appellanti a contestare nel merito la trasformazione, senza altresì contestare il significato, peraltro univoco, delle loro dichiarazioni”. Rispetto a tale statuizione i ricorrenti si limitano a riportare la parte dell’atto di appello nella quale si afferma che “non è vero che l’immobile sia stato “trasformato in toto””, cui avrebbe fatto seguito nell’atto di impugnazione, secondo quanto affermato con il motivo in esame, la menzione della pertinente giurisprudenza. Il rilievo di assenza di specificità mosso dal giudice di appello va confermato in questa sede in quanto, rispetto alla ratio decidendi basata sull’ammissione della parte di avere svolto ingenti lavori sull’immobile che ne hanno mutato la destinazione, non raggiunge l’obiettivo della critica della decisione la mera affermazione che “non è vero che l’immobile sia stato “trasformato in toto”” sia perchè la decisione di primo grado risulta basata sul rilievo, non impugnato, di una dichiarazione ammissiva sia perchè, avuto riguardo alla riconosciuta rilevanza di tale dichiarazione, generico è il mero contrapporre alla valutazione del giudice di primo grado l’affermazione che l’immobile non sarebbe stato trasformato in toto.

Infine, quanto alla questione del vizio apparente, la ratio decidendi della sentenza impugnata non viene intercettata dal motivo. Il giudice di appello ha rilevato l’inammissibilità del motivo di appello per difetto di specificità non essendo stata impugnata la sentenza di primo grado sotto il profilo dell’improponibilità della residuale domanda di riduzione prezzo e adempimento.

Il nono motivo è infondato. In effetti la corte territoriale ha omesso di pronunciare in ordine al motivo di appello indicato nella censura. Va tuttavia rammentato che alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, nonchè di una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 384 c.p.c., una volta verificata l’omessa pronuncia da parte del giudice di appello, la Corte di cassazione può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata ed esaminare il merito del ricorso, allorquando la questione posta con il motivo di appello sia infondata, essendo in tal caso inutile il ritorno della causa in fase di merito (Cass. 11 aprile 2012, n. 5729).

Va così osservato che anche nel vigore dell’attuale art. 189 c.p.c., come modificato dalla L. n. 353 del 1990, affinchè una domanda possa ritenersi abbandonata, non è sufficiente che essa non venga riproposta in sede di precisazione delle conclusioni, dovendosi avere riguardo alla condotta processuale complessiva della parte antecedente a tale momento, senza che assuma invece rilevanza il contenuto delle comparse conclusionali (Cass. Sez. U. 24 gennaio 2018, n. 1785). Nell’atto di appello, così come richiamato nel motivo di ricorso, la denuncia di abbandono verteva esclusivamente su quanto dedotto in sede di precisazione delle conclusioni, senza alcun riferimento alla condotta processuale complessiva della parte antecedente a tale momento.

Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Non può essere accolta l’istanza di liquidazione delle spese per il procedimento incidentale di cui all’art. 373 c.p.c., proposta da S.E. e S.M., da una parte, e dal Comune di Gallarate, per l’altra, non essendo stata documentata la partecipazione al procedimento mediante la produzione dei relativi atti.

Poichè il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 e viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, che ha aggiunto del Testo Unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di UniCredit Leasing s.p.a., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di R.G., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del Comune di Gallarate, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.700,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore di S.E. e S.M., delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.100,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 6 novembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 gennaio 2020

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