Corte di Cassazione, sez. II Civile, Ordinanza n.791 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SAN GIORGIO Maria Rosaria – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 3951-2015 proposto da:

M.G., L.V.R., elettivamente domiciliati in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso lo studio dell’avvocato MARIAGRAZIA CARUSO, che li rappresenta e difende;

– ricorrenti –

contro

CONDOMINIO *****, rappresentato e difeso dall’avvocato FRANCESCO BARBAGALLO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 880/2014 della CORTE D’APPELLO di CATANIA, depositata il 12/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 22/10/2019 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA.

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

M.G. e L.V.R. propongono ricorso articolato in due motivi avverso la sentenza n. 880/2014 della Corte d’appello di Catania, depositata il 12 giugno 2014.

Il Condominio *****, resiste con controricorso.

M.G. e L.V.R. impugnarono la Delib. assembleare 24 settembre 2003 del Condominio *****, avente ad oggetto lavori di manutenzione del tetto di copertura dell’edificio, deducendo la mancata convocazione dei condomini I..

Il Tribunale di Catania, sezione distaccata di Giarre, respinse l’impugnativa, assumendo che gli I. non fossero interessati alle opere, in quanto proprietari di unità immobiliari autonome rispetto a quelle interessate dai lavori.

La Corte d’appello di Catania ha poi rigettato il gravame di M.G. e L.V.R., argomentando dalla CTU integrativa espletata dall’ingegnere V., la quale aveva accertato che il tetto dell’edificio condominiale è frazionato in due distinti corpi di fabbrica, uno composto di falde di laterocemento, l’altro (quello sovrastante le unità immobiliari di proprietà I.) composto di falde lignee. Sotto il profilo dell’art. 1123 c.c., comma 3, gli I. non erano quindi interessati alla Delib. assembleare di rifacimento del tetto lato nord e non dovevano perciò essere convocati. La Corte d’appello negò altresì che la Delib. impugnata fosse affetta da eccesso di potere quanto al rifacimento delle tegole del tetto, finalizzato, in realtà, a creare una mansarda. Fu infine ritenuta nuova, e perciò inammissibile ex art. 345 c.p.c., la deduzione della lesione del decoro architettonico.

La trattazione del ricorso è stata fissata in camera di consiglio, a norma dell’art. 375 c.p.c., comma 2 e art. 380 bis.1 c.p.c.

I. Il primo motivo del ricorso di M.G. e L.V.R. denuncia la violazione degli artt. 1136 e 1137 c.c., nonchè degli artt. 112,113,115,116,191 e 196 c.p.c., dell’art. 132c.p.c., n. 4 e dell’art. 118 disp. att. c.p.c., ed ancora l’insufficiente ed illogica motivazione in ordine alla consulenza tecnica integrativa, recepita dalla Corte d’appello. Si riporta la relazione di CTU del 1 marzo 2007, che descriveva il tetto dell’edificio come unica struttura. Vengono anche richiamati documenti inerenti a pratiche urbanistiche intercorse con il Comune di *****.

Il secondo motivo del ricorso di M.G. e L.V.R. denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 345,115,191 e 196 c.p.c., nonchè degli artt. 1120,1121,1122,1138 c.c., art. 1135 c.c. e ss., art. 1130 c.c., n. 1 e art. 1133 c.c. Si assume l’omessa valutazione della presenza di finestre a tetto, deponente per il perseguimento di fini estranei alla comunità condominiale e la violazione di un vincolo assunto dal costruttore col Comune di *****, come allegato nell’atto di appello a pagina 27.

I.1. I due motivi di ricorso vanno esaminati congiuntamente, perchè connessi. Essi denunziano la violazione e falsa applicazione di numerose norme di diritto, senza, peraltro, che al richiamo in rubrica delle disposizioni di legge asseritamente violate corrispondano per ciascuna di esse specifiche argomentazioni intelligibili ed esaurienti, intese a dimostrare in qual modo determinate affermazioni contenute nella sentenza gravata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme. I motivi, per di più, denotano carenze dei necessari requisiti della specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata.

La sentenza della Corte di Catania ha accertato in fatto che il tetto oggetto dell’intervento di manutenzione approvato dalla impugnata Delib. 24 settembre 2003 del Condominio ***** non avesse funzione di copertura delle unità immobiliari di proprietà I., svolgendo sul punto un apprezzamento delle risultanze istruttorie espresso in una conseguente motivazione certamente fornita delle argomentazioni rilevanti per individuare e comprendere le ragioni della decisione, come prescritto dall’art. 132 c.p.c., n. 4.

L’infondatezza in diritto delle censure dei ricorrenti discende comunque dalle seguenti considerazioni.

Il nesso di condominialità, presupposto dalla regola di attribuzione di cui all’art. 1117 c.c., è ravvisabile in svariate tipologie costruttive, sia estese in senso verticale, sia costituite da corpi di fabbrica adiacenti orizzontalmente, purchè le diverse parti siano dotate di strutture portanti e di impianti essenziali comuni, come appunto quelle res che sono esemplificativamente elencate nell’art. 1117 c.c., con la riserva “se il contrario non risulta dal titolo”. E’ dunque agevole ipotizzare come possano esservi, nell’ambito dell’edificio condominiale, delle parti comuni, quali, ad esempio, il tetto (come nella specie), o l’area di sedime, o i muri maestri, o le scale, o l’ascensore, o il cortile, che risultino destinati al servizio o al godimento di una parte soltanto del fabbricato.

Secondo la giurisprudenza, è in siffatte ipotesi automaticamente configurabile la fattispecie del condominio parziale “ex lege”: tutte le volte, cioè, in cui un bene, come detto, risulti, per le sue obbiettive caratteristiche strutturali e funzionali, destinato al servizio e/o al godimento, in modo esclusivo, di una parte soltanto dell’edificio in condominio, esso rimane oggetto di un autonomo diritto di proprietà, venendo in tal caso meno il presupposto per il riconoscimento di una contitolarità necessaria di tutti i condomini su quel bene (Cass. Sez. 2, 24/11/2010, n. 23851; Cass. Sez. 2, 17/06/2016, n. 12641). Mancano, quindi, i presupposti per l’attribuzione, ex art. 1117 c.c., della proprietà comune a vantaggio di tutti i partecipanti se le cose, i servizi e gli impianti di uso comune, per oggettivi caratteri materiali, appaiano necessari per l’esistenza o per l’uso, ovvero siano destinati all’uso o al servizio non di tutto l’edificio, ma di una sola parte (o di alcune parti) di esso. Come venne autorevolmente chiarito da Cass. Sez. U, 07/07/1993, n. 7449, in tema di condominio negli edifici, l’individuazione delle parti comuni, risultante dall’art. 1117 c.c. – il quale non si limita a formulare una mera presunzione di comune appartenenza a tutti i condomini, vincibile con qualsiasi prova contraria -, e che può essere superata soltanto dalle opposte risultanze di un determinato titolo, non opera affatto con riguardo a cose che, per le loro caratteristiche strutturali, risultino destinate oggettivamente al servizio esclusivo di una o più unità immobiliari.

Il fondamento normativo, che limita in tal senso la proprietà di cose, servizi ed impianti dell’edificio, si rinviene nell’art. 1123 c.c., comma 3. Lo stesso art. 1123 c.c., comma 1 elabora il principio generale secondo cui l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione e per il godimento delle parti comuni si suddivide in proporzione alle quote di ciascuno; il comma 3 consente, allora, di aggiungere che l’obbligazione di contribuire alle spese per la conservazione ed il godimento grava, invece, soltanto su taluni condomini, come conseguenza della delimitazione della loro appartenenza. A tale parziale attribuzione della titolarità delle parti comuni corrispondono conseguenze di rilievo per quanto attiene alla gestione, nonchè all’imputazione delle spese. Relativamente alle cose, di cui non hanno la titolarità, per i partecipanti al gruppo non sussiste il diritto di partecipare all’assemblea, dal che deriva che la composizione del collegio e delle maggioranze si modifica in relazione alla titolarità delle specifiche parti oggetto della concreta delibera da adottare (cfr. Cass. Sez. 2, 27/09/1994, n. 7885; Cass. Sez. 2, 02/03/2016, n. 4127; Cass. Sez. 2, 17/06/2016, n. 12641).

Correttamente perciò, la Corte d’Appello di Catania ha ritenuto validamente approvata la Delib. 24 settembre 2003 senza necessità di convocazione dei condomini I.. Ad eliminare ogni decisività delle doglianze dei ricorrenti, basterebbe poi considerare l’orientamento giurisprudenziale secondo cui un condomino regolarmente convocato non può impugnare la Delib. per difetto di convocazione di altro condomino, trattandosi di vizio che inerisce all’altrui sfera giuridica, come conferma l’interpretazione evolutiva fondata sull’art. 66 disp. att. c.c., comma 3 modificato dalla L. 11 dicembre 2012, n. 220, art. 20 pur nella specie non applicabile ratione temporis (Cass. Sez. 2, 18/04/2014, n. 9082; Cass. Sez. 2, 13/05/2014, n. 10338; Cass. Sez. 2, 23/11/2016, n. 23903).

Peraltro, la deduzione che il tetto del Condominio ***** costituisce “un’unica unità strutturale”, su cui insiste il primo motivo di ricorso, postula una valutazione in fatto sottratta al giudizio di legittimità. L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54 conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Non è quindi più configurabile il vizio di “insufficiente ed illogica motivazione” della sentenza, come invece suppongono i ricorrenti. Nè l’omesso esame di elementi istruttori integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053). Costituisce un “fatto”, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 05/03/2014, n. 5133).

Il “fatto” della esistenza di due autonome porzioni di tetto, e non di una unica unità strutturale, è stato esaminato dalla Corte di Catania, sicchè i ricorrenti si limitano a chiedere una valutazione delle emergenze peritali diversa da quella data dai giudici del merito e conforme a quella da loro auspicata, prescegliendo non la CTU integrativa, come fatto dalla Corte d’appello, ma la relazione del 1 marzo 2007. Tale operazione è estranea alle regole del giudizio di legittimità, in quanto suppone un accesso diretto agli atti e una delibazione degli stessi in via inferenziale.

Le vicende inerenti all’abitabilità ed alle concessioni edilizie dell’immobile di proprietà G. e I., o ancora al vincolo assunto dal costruttore dell’edificio nei confronti del Comune di *****, delineano questioni di fatto di cui non vi è cenno nella sentenza impugnata, comunque postulanti indagini ed accertamenti non compiuti dai giudici di merito e non eseguibili nel procedimento di cassazione mediante diretto accesso agli atti. Il ricorrente per cassazione, che, come nella specie, proponga questioni che implicano accertamenti di fatto e delle quali non si faccia menzione alcuna nella sentenza impugnata -, ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, agli effetti dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, non solo di allegare l’avvenuta tempestiva deduzione delle questioni dinanzi al giudice di merito, nel rispetto dei termini di operatività delle preclusioni relative al “thema decidendum” previsti nell’art. 183 c.p.c., ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto (e cioè di specificare il “dato”, testuale o extratestuale, da cui essa risulti devoluta, nonchè il “come” e il “quando” tali questioni siano stati oggetto di discussione processuale tra le parti), onde dar modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito le questioni stesse. I ricorrenti al riguardo genericamente richiamano documenti che si assumono inseriti nei fascicoli di parte delle pregresse fasi di merito, e dei quali viene sintetizzato il contenuto, senza comunque rispettare la previsione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, ovvero senza indicare specificamente il “dato” in cui le circostanze comprovate dalla richiamata documentazione risultassero dedotte nei pregressi gradi di giudizio, in maniera da essere oggetto di discussione processuale tra le parti, ovvero senza specificare quali istanze la parte avesse rivolto al Tribunale ed alla Corte d’Appello nei propri scritti difensivi per chiarire gli scopi dell’esibizione di quei documenti (arg. da Cass. Sez. 1, 24/12/2004, n. 23976). Il giudice ha, infatti, il potere – dovere di esaminare i documenti prodotti solo nel caso in cui la parte interessata ne faccia specifica istanza, esponendo nei propri atti introduttivi, ovvero nelle memorie di definizione del “thema decidendum”, quali siano gli elementi di fatto e le ragioni di diritto comprovate dall’allegata documentazione.

Circa la deduzione di lesione del decoro architettonico, con riguardo alla quale la Corte di Catania ha ravvisato l’inosservanza del divieto di introdurre una domanda nuova in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., i ricorrenti espongono di aver prospettato detta questione “a pag. 27 dell’atto di appello”, senza perciò censurare specificamente tale “ratio decidendi”, il che avrebbe imposto di denunziare che la deduzione in questione si basasse su una “causa petendi” e un “petitum” sostanziale e formale non diversi dalle domande formulate in primo grado.

La Corte d’appello ha altresì escluso la ravvisabilità di un eccesso di potere assembleare, consistente nell’ipotizzto fine che l’intervento di rifacimento del tetto preludesse una sua utilizzazione a mansarda. Per i giudici di secondo grado, le opere di manutenzione approvate erano state adeguatamente motivate dall’assemblea.

Sul punto, i ricorrenti contestano l’omesso esame della risultanza emergente dalla CTU del 1 marzo 2007, secondo cui nel tetto era stato praticato l’inserimento di finestre. Si tratta ancora una volta di “fatto” del quale i ricorrenti non specificano, agli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 e art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, se esso aveva costituito oggetto di discussione tra le parti, e, in ogni caso, di fatto privo di carattere decisivo (che, cioè, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Non è infatti dato comprendere perchè l’inserimento di finestre nel tetto, presumibilmente per assicurare luce e ventilazione, dovrebbe deporre per un grave pregiudizio alla cosa comune, ex art. 1109 c.c., tale da consentire l’invalidazione della decisione approvata dalla maggioranza assembleare (cfr. Cass. Sez. 2, 05/11/1990, n. 10611). Ove l’assemblea avesse in realtà approvato una trasformazione di parte del sottotetto in mansarda, i ricorrenti avrebbero potuto impugnare la Delib. con riguardo ai limiti posti dall’art. 1120 c.c. per le innovazioni.

II. Conseguono il rigetto del ricorso e la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di cassazione in favore del controricorrente nell’ammontare liquidato in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater – da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della sezione seconda civile della Corte Suprema di Cassazione, il 22 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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