Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.808 del 16/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. SPENA Francesca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 21570-2017 proposto da:

DORECA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 25, presso lo studio dell’avvocato ETTORE PAPARAZZO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA AMENDOLA;

– ricorrente –

contro

C.M., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI MAGGIANI;

– controricorrente –

E SUL RICORSO SUCCESSIVO, SENZA NUMERO DI R.G. proposto da:

C.M., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato LUIGI MAGGIANI;

– ricorrente successivo –

contro

DORECA S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA CRESCENZIO 25, presso lo studio dell’avvocato ETTORE PAPARAZZO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato LUCA AMENDOLA;

– controricorrente al ricorso successivo –

avverso la sentenza n. 389/2017 della CORTE D’APPELLO di GENOVA, depositata il 18/07/2017 R.G.N. 631/2016;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 18/09/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCA SPENA;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CELENTANO Carmelo, che ha concluso per l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso della DORECA S.P.A. e accoglimento primi quattro motivi del ricorso C.;

udito L’Avvocato LUCA AMENDOLA.

FATTI DI CAUSA

La Corte d’Appello di Genova, giudice del reclamo L. n. 92 del 2912, ex art. 1, comma 58 e ss. con sentenza del 14- 18 luglio 2017 numero 389 riformava parzialmente la sentenza del Tribunale di Massa, che aveva dichiarato nullo in quanto ritorsivo il licenziamento intimato dalla società DORECA S.p.A. al dipendente C.M.; per l’effetto, riteneva il licenziamento illegittimo ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 7 e 5, dichiarava risolto il rapporto di lavoro e condannava la società al pagamento di un’indennità risarcitoria.

La Corte territoriale a fondamento della decisione premetteva che il licenziamento era stato adottato per gli stessi motivi posti a base della procedura di mobilità avviata e conclusa dalla società, da cui il C. era rimasto escluso ed osservava che il licenziamento individuale, sebbene intervenuto oltre i termini previsti dalla L. n. 223 del 1991, non poteva fondarsi sugli stessi motivi di quello collettivo, pena la frustrazione delle finalità sottese alla procedura di mobilità.

La identità dei motivi del licenziamento individuale rispetto a quelli del licenziamento collettivo risultava oltre che dalla lettera di licenziamento, dalle difese della società, laddove affermava che la necessità di adottare il licenziamento individuale era sorta per il fatto che il C. non aveva accettato quello collettivo, in una situazione in cui l’unico criterio di scelta concordato dall’azienda con i sindacati era quello della mancanza di opposizione al licenziamento collettivo.

In via incidentale, pur non essendo oggetto di causa, la Corte territoriale riteneva la invalidità del predetto criterio di scelta, in quanto non obiettivo; affermava, comunque, che esso nella logica di chi lo aveva concordato, doveva individuare i lavoratori da licenziare nell’ambito della procedura ex lege n. 223 del 1991 e non già fondare il licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo di chi non avesse accettato il licenziamento collettivo.

Il licenziamento, tuttavia, non si qualificava come ritorsivo: a questi fini rilevava la esclusività del motivo ritorsivo laddove era indubbio che alla base del licenziamento vi fossero anche motivi economici, viste le precarie condizioni in cui versava la società e di cui erano prova le varie procedure di cassa integrazione e licenziamento collettivo che si erano succedute nel periodo in considerazione.

Inoltre il C., che non aveva negato di avere rifiutato il licenziamento collettivo – ponendosi nelle condizioni di non essere collocato in mobilità – non poteva fondatamente sostenere che la società lo avesse discriminato, licenziandolo individualmente invece che nell’ambito della procedura di mobilità.

Avverso la sentenza hanno proposto separati ricorsi, riuniti nel presente procedimento, la società DORECA S p.a., articolato in due motivi, e C.M., articolato in otto motivi; ciascuna delle parti ha resistito con controricorso al ricorso avversario ed ha depositato memoria.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo di ricorso la società DORECA spa ha dedotto – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione o falsa applicazione della L. n. 223 del 1991, art. 24, della L. n. 604 del 1966, art. 3, dell’art. 41 Cost. nonchè della L. n. 183 del 2010, art. 30.

Ha censurato la dichiarazione di illegittimità del licenziamento, osservando che la Corte di merito avrebbe dovuto esaminare esclusivamente la sua motivazione ed accertare se la posizione del lavoratore fosse stata o meno effettivamente soppressa e se questi fosse altrimenti ricollocabile.

Ha assunto che la sentenza impugnata, affermando che le motivazioni sottese ad una procedura di mobilità costituiscono un vincolo per il datore di lavoro anche successivamente al decorso dei termini per collocare in mobilità i dipendenti e che non è consentito porre a base del licenziamento individuale, in tutto o in parte, i medesimi motivi di crisi sottesi alla procedura di mobilità, aveva enucleato un divieto non previsto nè dalla L. n. 223 del 1991 – (che con l’art. 24 prevedeva la sola necessità di attivare la procedura di licenziamento collettivo in caso di licenziamenti di almeno cinque dipendenti nell’arco di 120 giorni successivi al termine della procedura)- nè dalla L. n. 604 del 1966, art. 3.

La compressione del diritto del datore di lavoro al licenziamento per giustificato motivo oggettivo configurava una lesione anche della libertà di iniziativa economica tutelata dall’art. 41 Cost., insindacabile dall’autorità giudiziaria, come riaffermato dalla L. n. 183 del 2010, art. 30.

La società ha esposto che nella fattispecie di causa sussisteva la necessità di sopprimere la posizione del C., unica unità lavorativa addetta ad un deposito non più operativo.

Con il motivo si censura altresì l’incidentale dichiarazione di illegittimità del criterio di scelta concordato nell’ambito della procedura di mobilità (la adesione volontaria), trattandosi di questione non rilevante in causa e, comunque, per essere del tutto immotivata l’assunta mancanza di oggettività del criterio di scelta.

Il motivo è infondato.

In una ricostruzione di sistema occorre muovere dal principio della centralità ai fini della verifica di legittimità del licenziamento collettivo del rispetto delle procedure di comunicazione preventiva, di consultazione sindacale e di comunicazione dell’elenco dei lavoratori licenziati; per costante orientamento di questa Corte i profili attinenti alle ragioni giustificative del recesso collettivo sono infatti assorbiti dal controllo sulla regolarità di tale procedura.

I residui spazi devoluti alla sede contenziosa non riguardano, quindi, gli specifici motivi della riduzione del personale- (a differenza di quanto accade in relazione ai licenziamenti per giustificato motivo obiettivo) – ma la correttezza procedurale dell’operazione, con la conseguenza che non possono trovare ingresso in tale sede le censure con le quali si investa l’autorità giudiziaria di un’indagine sulla presenza di “effettive” esigenze di riduzione o trasformazione dell’attività produttiva, salva l’ipotesi di maliziose elusioni dei poteri di controllo delle organizzazioni sindacali e delle procedure di mobilità al fine di operare discriminazioni tra i lavoratori (per tutte, Cassazione civile sez. lav., 21/01/2019, n. 1515 e giurisprudenza ivi citata).

La procedura diretta a ridimensionare l’organico si scompone, infine, nei singoli licenziamenti, ciascuno giustificato dal rispetto dei criteri di scelta, legali o stabiliti da accordi intervenuti con il sindacato.

I principi qui ribaditi resterebbero del tutto privi di effettività ove – all’esito della gestione “procedimentalizzata” dei motivi di riduzione del personale rappresentati nella comunicazione di avvio della procedura-fosse consentito al datore di lavoro di ritornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero ovvero quanto ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali per giustificato motivo oggettivo.

I licenziamenti individuali così effettuati, infatti, sebbene riconducibili agli stessi motivi oggetto della comunicazione iniziale, risulterebbero sottratti al confronto con il sindacato, con l’inevitabile effetto di rendere quel confronto incompleto in ordine al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali del personale eccedente e non attendibile quanto alla successiva partecipazione, all’atto dei licenziamenti, delle concrete modalità di applicazione dei criteri di scelta.

Ove, poi, come nella fattispecie di causa, venga raggiunta una intesa con le organizzazioni sindacali, il vulnus riguarderebbe anche il rispetto di tali accordi (in ordine al numero degli esuberi ed ai criteri di scelta), la cui obbligatorietà non può esaurirsi nel tempo all’atto della conclusione della procedura; diversamente le intese con il sindacato si ridurrebbero ad un passaggio formale del procedimento e non ad una gestione partecipata della situazione aziendale rappresentata dall’imprenditore.

Il negoziato con il sindacato realizza, invece, un effettivo coinvolgimento del soggetto collettivo nelle scelte organizzative della impresa, che vincola l’imprenditore al rispetto delle scelte concordate, anche dopo la chiusura della procedura; gli impegni assunti vengono meno soltanto per effetto del modificarsi della situazione aziendale che costituisce il presupposto dell’accordo raggiunto.

In sostanza, il datore di lavoro, completata la procedura di licenziamento collettivo, non può procedere sulla base delle medesime ragioni negoziate con la controparte sindacale all’ulteriore licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo di uno o più lavoratori.

E’ l’identità dei motivi che determinano la situazione di eccedenza – nonchè dei motivi tecnici, organizzativi e produttivi, per i quali si ritiene di non poter adottare misure alternative – che impone all’imprenditore di veicolare la libertà di impresa nell’ambito del controllo sindacale, senza poter procedere a successivi licenziamenti individuali; identità da intendere, naturalmente, non in senso formale ma in senso sostanziale ovvero come parità delle situazioni di fatto poste a base, rispettivamente, della procedura di licenziamento collettivo e del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Resta da aggiungere che l’indagine circa la identità delle predette “ragioni” costituisce un accertamento di fatto rimesso al giudice del merito; nelle sue valutazioni egli dovrà utilizzare tanto le risultanze documentali (atti della procedura di licenziamento collettivo e lettera di licenziamento per giustificato motivo oggettivo) che ogni altro elemento di prova della sovrapponibilità delle due situazioni a confronto, fermo restando che lo stesso decorso del tempo rispetto alla data di chiusura della procedura di licenziamento collettivo potrebbe configurare, tenuto conto delle concrete circostanze, un mutamento della situazione di fatto.

Una conferma indiretta della indicata ricostruzione emerge dalla disposizione della L. n. 223 del 1991, art. 17. Dalla norma risulta, infatti, che il datore di lavoro dopo la conclusione della procedura di licenziamento collettivo può procedere alla risoluzione di altri rapporti di lavoro – senza dover esperire una nuova procedura – soltanto qualora i lavoratori il cui rapporto sia stato risolto vengano reintegrati a norma della L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 18 sempre con il rispetto del vincolo numerico (licenziamento di un numero di lavoratori pari a quello dei lavoratori reintegrati) e dei criteri di scelta di cui alla L. n. 223 del 1991, art. 5, comma 1. A fronte di ciò, inoltre, egli ha l’obbligo di preventiva comunicazione del licenziamento alla propria rappresentanza sindacale aziendale.

Nella fattispecie di causa risulta pacifico: che tra i posti indicati in esubero nella comunicazione di avvio della procedura di mobilità (del 24.4.2014) vi era quello occupato dal C. ed altresì che quest’ultimo non era stato licenziato in ragione del criterio di scelta concordato con il sindacato, consistente nella volontà di non opporsi al licenziamento manifestata dal lavoratore entro il 30 settembre 2014. Correttamente, dunque, la sentenza impugnata, sulla base del preliminare accertamento della identità delle ragioni del successivo licenziamento individuale del C., del 21 novembre 2014, ha affermato la illegittimità del medesimo licenziamento.

Erra, invece, la società ricorrente nel sostenere che un siffatto divieto di licenziamento individuale non è previsto dalla legge e viola la liberta di impresa; piuttosto, la interpretazione da essa patrocinata non tiene conto dei limiti alla iniziativa economica privata che lo stesso art. 41 Cost. impone e prevede per fini sociali ed altresì porrebbe seri dubbi di conformità dell’ordinamento nazionale alla direttiva 98/59/CE (che codifica il testo della direttiva 75/129/CEE)-considerando numero dodici ed art. 2, paragrafo 3 – sotto il profilo del conseguimento dell'”effetto utile”.

Con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – la ricorrente ha denunziato l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio ed oggetto di discussione tra le parti nonchè la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c..

Si assume l’omessa valutazione delle risultanze istruttorie, dalle quali sarebbe emersa la soppressione della posizione del C. (per chiusura del deposito cui era assegnato) e la impossibilità del suo reimpiego.

Tali circostanze risultavano dagli atti della procedura di mobilità, non erano state mai contestate da controparte ed erano state confermate dai testi escussi.

Dal materiale probatorio si evinceva anche il rifiuto già manifestato dal lavoratore ad una diversa collocazione, essendosi egli opposto al trasferimento ad altro deposito.

Il motivo è infondato.

Dal principio di diritto affermato nell’esame del primo motivo di ricorso deriva la mancanza di decisività, nel senso auspicato dalla società ricorrente, del fatto che la effettiva chiusura del deposito cui il C. era addetto fosse emersa nell’ambito della procedura di mobilità, conducendo piuttosto, tale circostanza ad esiti opposti a quelli attesi dal datore di lavoro. Nè assume rilievo l’eventuale mancanza di disponibilità del lavoratore ad un diverso impiego a fronte delle sopra evidenziate ragioni di illegittimità del licenziamento, che attengono, a monte, alla potestà di recesso del datore di lavoro.

Il ricorso della società deve essere conclusivamente respinto; restano da esaminare le ragioni del ricorso del lavoratore.

Il ricorrente C.M. ha denunziato:

– con il primo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4 – nullità della sentenza e del procedimento in riferimento agli artt. 132 (numero 3 e 4) e 112 c.p.c..

Ha dedotto che il giudice del reclamo non aveva riportato correttamente le sue conclusioni, con conseguente violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 3.

Ha esposto che nel ricorso introduttivo e nella comparsa di costituzione in appello veniva allegata la nullità del licenziamento per contrarietà a norme imperative. Tale domanda era stata assorbita nel primo grado, per la dichiarazione della natura ritorsiva del licenziamento mentre nel grado di reclamo non era stata esaminata nè poteva dirsi assorbita, con conseguente nullità della sentenza per omessa pronuncia.

Si denunzia, altresì, la inesistenza della motivazione giacchè l’omesso esame di numerosi fatti decisivi determinava sostanzialmente la decisione di una questione di fatto diversa da quella dedotta e discussa.

– con il secondo motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 – omesso esame della vicenda giudiziaria e sostanziale antecedente al licenziamento.

Il ricorrente ha lamentato l’omessa considerazione della motivazione formale del licenziamento ed il mancato confronto di essa con le ragioni di un precedente licenziamento che gli era stato intimato nel novembre 2011 e che era stato dichiarato nullo con sentenza divenuta definitiva, senza che egli venisse mai effettivamente reintegrato (in quanto dapprima trasferito invalidamente a ***** per due volte consecutive, poi collocato in aspettativa ed in cassa integrazione ed, infine, posto in ferie e licenziato individualmente).

L’esame di tali circostanze appariva indispensabile a fondare il giudizio di nullità del licenziamento perchè ritorsivo o contrario a norme imperative;

– con il terzo motivo, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, relativo al contenuto degli accordi sulla cassa integrazione guadagni e sulla mobilità siglati dalla società tra il 2012 ed il 2014, con particolare riferimento all’accordo del 30 giugno 2014.

Il ricorrente ha esposto che nel periodo novembre 2012 – settembre 2014 la società aveva effettivamente avviato alcune procedure di licenziamento collettivo, nell’ambito delle quali le parti addivenivano ad accordi in sede ministeriale. Nell’ultima procedura di mobilità nazionale, con accordo ministeriale del 30 giugno 2014, era previsto un incentivo all’esodo, con collocazione in mobilità a favore dei soli lavoratori che avessero manifestato l’intenzione di non opporsi al licenziamento.

Ha dedotto che l’esame di tale accordo avrebbe consentito alla Corte territoriale di comprendere che la ratio della mobilità volontaria non era quella di escludere i lavoratori che non vi aderissero dalle tutele della L. n. 223 del 1991 ma quella di privilegiare la salvaguardia dei posti di lavoro;

– con il quarto motivo: omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, relativo a quanto accaduto contestualmente al licenziamento impugnato e nell’epoca immediatamente successiva.

Il ricorrente ha esposto che in epoca pressochè coeva al termine dell’ultima procedura, con lettere in data 26 settembre 2014 per la regione Lombardia ed in data 15 ottobre 2014 per la regione Lazio la società aveva avviato nuove procedure di licenziamento collettivo, su base regionale. Tali circostanze erano state dedotte nel ricorso introduttivo, ammesse nella memoria di costituzione di controparte ed accertate dal giudice di primo grado.

Nella comunicazione di avvio del 26.09.2014 non si segnalava alcun esubero con riferimento allo stabilimento di *****, cui egli era ancora addetto come unico dipendente; in data 25 settembre 2014 la società gli aveva comunicato che al termine del periodo di cassa integrazione in deroga egli sarebbe stato collocato in ferie e poi in aspettativa.

Dall’esame di tali fatti risultava che la società era consapevole di avere numerosi esuberi dislocati su più regioni e che la mancata adesione alla procedura conclusa non escludeva i lavoratori dalle tutele della L. n. 223 del 1991, tanto da avviare due distinte procedure di mobilità regionali ed al suo unico licenziamento individuale.

– con il quinto motivo – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3 – violazione della L. n. 604 del 1966, art. 3.

Con il motivo si assume l’errore commesso dalla Corte territoriale laddove, pur pronunciando l’illegittimità del licenziamento, aveva affermato, al fine di escluderne il carattere ritorsivo, che esso fosse sostenuto da una valida motivazione economica.

Il giustificato motivo oggettivo indicato nella lettera di recesso era inesistente, in quanto la soppressione della posizione lavorativa era già stata attuata nell’anno 2011 ed anche sul piano formale il recesso costituiva una replica del precedente.

Nulla era stato provato anche con riferimento all’obbligo di repechage mentre la società ammetteva di avere assunto nuovo personale dopo il licenziamento.

Alla mancanza di prova del giustificato motivo oggettivo doveva conseguire l’esame della sua possibile natura ritorsiva.

– Con il sesto motivo, violazione e falsa applicazione degli artt. 1324,1345,1375,1418 c.c., impugnando la statuizione di rigetto della domanda di nullità del licenziamento fondata sulla sua natura ritorsiva.

Il ricorrente ha assunto che, una volta accertata l’inesistenza di una legittima motivazione del licenziamento individuale, si imponeva il vaglio delle circostanze relative alla sua reale motivazione; i fatti descritti in riferimento ai precedenti motivi dal secondo al quinto del ricorso, analizzati nella loro connessione logica e temporale, ne rivelavano la connotazione ritorsiva.

– Con il settimo motivo: violazione e falsa applicazione – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 (rectius: 3) – della L. n. 223 del 1991, artt. 4, 5 e 24 e dell’art. 1418 c.c..

Con il motivo si deduce la nullità del licenziamento per violazione delle norme imperative poste dalla L. n. 223 del 1991, domanda non indicata dalla Corte d’Appello nella esposizione delle conclusioni delle parti e non esaminata. Si assume che la vicenda, correttamente ricostruita, determinava la nullità del licenziamento per violazione delle norme imperative poste dalla L. n. 223 del 1991.

Ulteriore profilo di nullità era ravvisabile nella reiterazione del precedente licenziamento, dichiarato nullo con precedente giudicato.

– Con l’ottavo motivo, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18.

La censura investe la statuizione di risoluzione del rapporto di lavoro ed applicazione della sola tutela indennitaria, assumendosi che la corretta ricostruzione in fatto, con il riconoscimento della nullità del licenziamento per motivo illecito determinante ovvero per violazione delle norme imperative di cui alla L. n. 223 del 1991 – artt. 4 e 24 ovvero art. 5 – comportava l’applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1.

Ritiene il Collegio debba essere esaminato in via preliminare il sesto motivo di ricorso, relativo al rigetto della domanda di nullità del licenziamento in quanto ritorsivo.

Il motivo è fondato.

La sentenza impugnata dopo avere affermato la illegittimità del licenziamento individuale del C. – perchè adottato per gli stessi motivi posti a base della procedura di licenziamento collettivo- ha respinto la domanda di nullità per la natura ritorsiva del medesimo licenziamento sul rilievo della assenza di esclusività (rectius: del carattere determinante) del motivo ritorsivo, in quanto al licenziamento avevano concorso quegli stessi motivi economici posti a base della procedura di licenziamento collettivo.

Tale statuizione è in contraddizione con il principio, già enunciato da questa Corte (Cass., sezione lavoro 04/04/2019, n. 9468; 23 novembre 2018 n. 30429), secondo cui affinchè resti escluso il carattere determinante del motivo illecito del licenziamento ex art. 1345 c.c. ed L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, non è sufficiente che il datore di lavoro alleghi l’esistenza di un giustificato motivo oggettivo ma è necessario che quest’ultimo risulti comprovato e che, quindi, possa da solo sorreggere il licenziamento, malgrado il concorrente motivo illecito.

In particolare, la ragione economica posta a base del licenziamento individuale non può escludere il carattere determinante del motivo illecito dedotto dal lavoratore tanto nei casi in cui manchi la prova della sua effettività che nei casi in cui la esigenza organizzativa, pur esistente, non configuri un giustificato motivo oggettivo L. n. 604 del 1966, ex art. 3; in entrambe le ipotesi, invero, la ragione allegata dal datore di lavoro non sarebbe idonea a sorreggere il licenziamento.

Nella fattispecie di causa la Corte territoriale, avendo escluso la sussistenza del giustificato motivo oggettivo, avrebbe dovuto procedere all’accertamento in fatto della sussistenza o meno del motivo illecito, indagine che ha ritenuto superflua alla luce della erronea affermazione, in punto di diritto, della sua natura non determinante ex art. 1345 c.c.

La sentenza impugnata deve essere conclusivamente cassata in accoglimento del sesto motivo del ricorso del lavoratore e la causa va rinviata alla Corte di Appello di Genova in diversa composizione affinchè, alla luce del principio di diritto sopra esposto, provveda ad un nuovo esame della domanda di nullità del licenziamento in quanto ritorsivo.

Dalla cassazione della pronuncia che ha escluso il motivo ritorsivo del licenziamento deriva l’assorbimento delle ulteriori censure inerenti alla statuizione cassata.

Le restanti ragioni del ricorso, relative alla domanda di nullità del licenziamento per violazione della L. n. 223 del 1991, artt. 4,5 e 24 restano assorbite secondo l’ordine logico: dal loro eventuale accoglimento non deriverebbero per il lavoratore – nel vigente regime della L. n. 223 del 1991, art. 5 ratione temporis applicabile – le medesime conseguenze utili assicurate dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 1, poichè la norma citata non collega alla loro violazione alcun effetto in termini di nullità del licenziamento.

Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (che ha aggiunto il comma 1 quater al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13) – della sussistenza dei presupposti processuali dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente DORECA spa dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la impugnazione integralmente rigettata, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso di DORECA spa. Accoglie il sesto motivo del ricorso di C.M., assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia – anche per le spese – alla Corte d’appello di Genova in diversa composizione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente DORECA spa dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 18 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 16 gennaio 2020

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