LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 2
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –
Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –
Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –
Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –
Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22074-2018 proposto da:
E.E.M., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato ETTORE BARTOLOMEI giusta procura in calce al ricorso;
– ricorrente –
contro
L.O., domiciliato in ROMA presso la Cancelleria della Corte di Cassazione, rappresentato e difeso dall’avvocato EMIDIO STRACCIA, giusta procura in calce al controricorso;
– ricorrente incidentale –
nonchè
D.A., F.K.K.W.G.;
– intimati –
avverso la sentenza n. 230/2018 della CORTE D’APPELLO di ANCONA, depositata il 21/2/2018;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/11/2020 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;
Lette le memorie depositate dalle parti.
MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE E.G. conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Ascoli Piceno, L.O. ed F.A.K.E. chiedendo, in via principale, che il contratto di compravendita immobiliare stipulato tra i due convenuti venisse dichiarato nullo per illiceità del motivo, ovvero per simulazione assoluta, o in quanto contrario alle norme di buona fede, o in subordine inefficace nei confronti dell’attrice, con il risarcimento del danno; in via residuale chiedeva la risoluzione del contratto di compravendita immobiliare da lei stipulato col F., adducendo il grave inadempimento di quest’ultimo, e, di conseguenza il diritto al risarcimento del danno.
L’attrice affermava, infatti, di aver acquistato dal F., con scrittura privata datata *****, un immobile al prezzo di novantacinque milioni di Lire, ed effettuato il pagamento dell’acconto dei primi venticinque milioni, veniva immessa nel godimento dell’appartamento.
A luglio del 1994, l’attrice aveva versato ulteriori cinquantacinque milioni al venditore che, trasferitosi all’estero, non rispondeva ai diversi solleciti con i quali gli si chiedeva, in vista del completamento del pagamento, di addivenire al rogito notarile.
Il ***** il F. faceva pervenire alla E. una diffida ad adempiere al pagamento dei mancanti quindici milioni di Lire entro il successivo *****, ma l’attrice rispondeva con una controdiffida nella quale lo invitava a presentarsi in data 10 ottobre 1994 davanti ad un notaio di Roma, con la documentazione necessaria per il perfezionamento dell’atto pubblico, ribadendo la disponibilità a pagare in detta sede quanto residuato.
A causa dell’assenza in detta data del venditore, E.G. contattava nuovamente il venditore il quale, tramite il proprio procuratore, la informava di aver venduto l’immobile ad L.O. il *****, e che l’atto di vendita era stato trascritto il giorno successivo e registrato in data *****. Pertanto, la E. agiva in giudizio proponendo nei loro confronti le domande di cui sopra.
Con comparsa di risposta si costituiva in giudizio solo L.O., il quale chiedeva il rigetto delle domande attoree nonchè, in via riconvenzionale, il rilascio dell’immobile ed un indennizzo per la sua occupazione sine titulo.
Al termine dell’istruttoria, il Tribunale di Ascoli Piceno, con sentenza n. 680 del 2011, perveniva al rigetto di tutte le domande proposte da parte attrice, alla quale era subentrato E.G.M., quale erede della originaria attrice; il giudice di primo grado rigettava altresì la domanda riconvenzionale spiegata dal L., compensava le spese e non statuiva nulla nei confronti di F.A.K.E., rimasto contumace.
E.E.M. – quale avente causa per atto inter vivos da D.A., erede di E.G.M., a sua volta subentrato in primo grado alla sorella G., quale erede della stessa – appellava la sentenza del Tribunale, riproponendo tutte le domande che dinanzi ad esso erano state avanzate.
L.O. si costituiva affinchè la Corte pervenisse al rigetto del gravame e riproponeva, con appello incidentale, quanto domandato in via riconvenzionale in primo grado, chiedendo l’integrazione del contraddittorio nei confronti di D.A. e degli eventuali eredi.
La Corte di Appello di Ancona con sentenza n. 230/2018, riformava parzialmente la sentenza di primo grado, dichiarando risolto il contratto di compravendita stipulato da E.G. con il F. per inutile decorso del termine intimato con la diffida ad adempiere, e condannando F.K.K.W.G. a restituire all’appellante la somma di Euro 41.316,55, oltre interessi, ed E.E.M. all’immediato rilascio dell’immobile illegittimamente occupato.
Con riferimento all’azione proposta nei confronti del solo F., la Corte, riprendendo alcuni passaggi della sentenza impugnata, evidenziava che la diffida ad adempiere notificata dal F. il ***** era pienamente giustificata dal fatto che il preliminare, il quale si era risolto per effetto dell’inutile decorso del termine, e ciò in quanto il contratto prevedeva che il pagamento totale del prezzo sarebbe dovuto avvenire già il 28 settembre 1993, ossia un anno prima della diffida.
Dunque sosteneva la Corte che il F. aveva potuto disporre legittimamente dell’appartamento, dovendosi intendere risolto il preliminare ex artt. 1454 e 1455 c.c., a nulla valendo la controdiffida notificata da E.G. che, secondo i giudici di merito, mascherava unicamente un comportamento dilatorio della stessa, volto a procrastinare ulteriormente il termine per il pagamento del residuo del prezzo, ma dalla quale non si evincevano “motivi seri nè tanto meno precisi per giustificare la mancata ottemperanza”.
Diversamente, le domande proposte nei confronti del F. e del L., volte a ottenere la dichiarazione di nullità del secondo contratto, venivano rigettate, anche alla luce dei principi dettati da Cass. 23158/2014, in base ai quali non può in alcun modo dichiararsi la nullità di tale accordo per illiceità dei motivi o per violazione degli obblighi di correttezza e buona fede.
Relativamente all’azione volta ad ottenere la dichiarazione di simulazione assoluta del medesimo contratto, la Corte condivideva le affermazioni del giudice di primo grado in quanto tutte le deduzioni attoree non erano sufficienti a provare la nullità o l’inefficacia dell’atto pubblico di vendita; a detta dei giudici dell’appello, gli assunti del Tribunale apparivano logici e coerenti relativamente alla dimostrazione di un difetto di prova della simulazione, nonchè non suscettibili di condurre a conclusioni univoche, anche alla luce della considerazione complessiva dei fatti di causa.
Con riferimento all’azione revocatoria, la Corte territoriale richiamava il costante orientamento della giurisprudenza per rigettare la domanda, perchè l’attore non aveva fornito la prova del consilium fraudis; inoltre, mancando qualsiasi credito risarcitorio da parte dell’ E., veniva escluso in radice anche l’eventus damni.
Così deciso l’appello principale, la Corte passava ad analizzare l’appello incidentale proposto da L.O., relativo alla restituzione dell’immobile, ritenendolo parzialmente fondato, essendo venuto meno il titolo dell’ E. che lo legittimava ad occupare l’immobile; tuttavia non accoglieva la pretesa risarcitoria derivante dall’illegittima occupazione, risultando carente sotto il profilo probatorio, dal momento che, pur consapevole contrasto giurisprudenziale delineatosi in materia, non condivideva l’orientamento che considerava in re ipsa il danno subito dal proprietario a seguito dell’occupazione sine titulo, ma preferiva quello secondo cui, anche in suddetta ipotesi, il danneggiato debba provare l’effettiva entità del danno.
Poichè il L. si era limitato a riportare indicativamente il valore del canone di locazione, senza dimostrare di aver perso occasioni favorevoli per la locazione, nè di aver sofferto altre situazioni pregiudizievoli a causa dell’occupazione dell’appartamento, la pretesa non poteva trovare accoglimento.
Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Ancona, E.E.M. propone ricorso per cassazione, articolato in sette motivi.
L.O. ha resistito con controricorso e ha altresì proposto ricorso incidentale sulla base di due motivi.
Entrambe le parti hanno depositato memorie in prossimità dell’udienza.
F.K.K.W.G. e D.A. non hanno svolto difese in questa fase.
Il primo motivo di ricorso è relativo “agli artt. 1453,1454 e 1455 c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”.
Parte ricorrente ritiene che la sentenza d’appello sia da censurare nella parte in cui ha affermato che allo spirare del termine ultimo indicato nella diffida, il contratto stipulato il ***** doveva intendersi risolto in assenza del pagamento del saldo da parte della E., e che il F. potesse disporre nuovamente dell’appartamento.
Infatti, i giudici dell’appello non avrebbero considerato l’insegnamento dettato dalla Cassazione secondo cui “l’eccezione inadempienti contractus consente di paralizzare la domanda di adempimento della controparte e di escludere il diritto della stessa di fare accertare o domandare la risoluzione”, nonchè quello relativo “al giudizio di comparazione in ordine al comportamento delle parti contrattuali, al fine di stabilire quale di esse, in relazione ai rispettivi interessi e all’oggettiva entità degli inadempimenti si sia resa responsabile delle violazioni maggiormente rilevanti, perchè l’inadempimento dev’essere addebitato esclusivamente a quel contraente che, con il proprio comportamento abbia alterato il nesso di reciprocità che lega le obbligazioni assunte con il contratto, dando causa la giustificato inadempimento dell’altra parte”.
Il giudice a quo avrebbe altresì omesso di esaminare il fatto decisivo prospettato nella comparsa conclusionale, secondo cui a fronte dei numerosi solleciti della E. volti a rendere in forma pubblica l’atto di vendita, il F. restava inerte e ciò impedirebbe di qualificare come doloso o colposo, il ritardo della E. nell’adempimento della propria prestazione.
Con il secondo motivo si censura “l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 4), sia ex n. 5”.
La Corte avrebbe addebitato l’inadempimento in capo a E.G., attraverso una motivazione apparente laddove ha affermato che, avendo il F. e il L. stipulato davanti al notaio il loro contratto a poca distanza dalla scadenza del termine ultimo previsto nella diffida, anche la E. avrebbe potuto addivenire al rogito notarile, se solo avesse soddisfatto la richiesta del F. di pagare la parte restante del prezzo entro la data fissata nella diffida.
Inoltre, la Corte avrebbe omesso di valutare i fatti decisivi relativi alla mancata dimostrazione della disponibilità dell’intero immobile, “l’inverosimile tempistica e l’incredibile semplificazione dell’atto pubblico del secondo contratto”, malgrado vi fossero “oggettive difficoltà” relative all’esatta individuazione delle parti, dei beni e dei documenti relativi.
I primi due motivi di ricorso possono essere trattati congiuntamente e, in quanto infondati, devono essere rigettati. Costituisce orientamento consolidato di questa Corte (recentemente ribadito da Cass. n. 13627/2017), quello secondo il quale nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, il giudice del merito è chiamato a comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonchè della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato.
La Corte d’appello ha reso un’ampia e logica motivazione, nel ritenere che, nel caso di specie, la condotta da ritenersi decisiva ai fini della risoluzione per inadempimento fosse quella della E., e non quella del F., al quale per converso nessun addebito poteva essere imputato, essendosi egli attenuto ai termini dell’accordo stipulato nel 1991.
Sono stati ritenuti determinanti, infatti, ai fini dell’accertamento dell’inadempimento della E., la circostanza che la diffida era stata notificata dal F., dopo che era decorso un anno dalla data che le parti avevano concordato quale termine ultimo per il pagamento, e che l’ammontare del prezzo residuo di quindici milioni di lire impedisse di qualificare l’adempimento come di scarsa importanza.
La ratio della norma di cui all’art. 1454 c.c., è quella di fissare con chiarezza la posizione delle parti rispetto all’esecuzione del negozio, mediante un formale avvertimento alla parte diffidata che l’intimante non è disposto a tollerare un ulteriore ritardo nell’adempimento, pena la risoluzione ope legis del contratto (Cass. n. 27530/2016; Cass. n. 3477/2012).
Dunque, a nulla vale, nel caso di specie, l’aver opposto alla diffida una controdiffida, dal momento che è principio già statuito da questa Corte, che oggi si vuole ribadire, quello secondo il quale la controdiffida diretta a contestare la sussistenza di una qualsiasi delle condizioni cui è subordinata la risoluzione di diritto conseguente alla diffida ad adempiere, non sospende nè evita tale effetto (Cass. n. 974/1971).
Ciò, a maggior ragione nel momento in cui i giudici di merito hanno negato qualsiasi rilevanza nei termini di cui sopra alla controdiffida notificata dalla E., in quanto non solo non conteneva motivi apprezzabili tali da legittimare il mancato rispetto della diffida, ma lasciava trasparire unicamente un “comportamento dilatorio” dell’attrice, che ha acquistato ulteriore decisività anche “alla luce del pregresso contegno moroso”.
Queste dunque le motivazioni che hanno condotto all’addebito dell’inadempimento alla E., e non, come parte ricorrente adduce col presente ricorso, i vari impedimenti e inadempimenti legati alla stipula dell’atto pubblico, dedotti dalla stessa nella controdiffida, che, una volta ritenuti insussistenti dai giudici del merito, possono dirsi esaminati all’interno di una valutazione globale delle condotte delle parti e, pertanto, non risultano essere oggetto di un omesso esame, come prospettato dal ricorrente.
Il terzo motivo denunzia la violazione dell’art. 2644 c.c., comma 2, rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 3)”.
Il giudice a quo, citando il precedente costituito da Cass. n. 23518/2014, avrebbe frainteso la questione che si poneva, spostando l’attenzione sul problema della distinzione tra frode alla legge e frode ai creditori, ma senza esaminare la più pertinente questione della responsabilità del venditore e del secondo acquirente all’interno di una vicenda di doppia alienazione immobiliare, che il ricorrente, in grado di appello, aveva prospettato mediante numerosi richiami alla dottrina e alla giurisprudenza, mostrando come oggi sia pacifico che è sufficiente la mera conoscenza della precedente alienazione per determinare una responsabilità del secondo acquirente che abbia trascritto per primo.
Dunque, a prescindere dall’accoglimento o meno della domanda di nullità del secondo contratto di alienazione, parte ricorrente ritiene che il L. debba essere obbligato in solido al risarcimento dei danni nei confronti del ricorrente, e ciò sulla base di una giurisprudenza evolutasi a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, che ha sancito la responsabilità aquiliana del secondo acquirente per la semplice conoscenza della precedente vendita, senza richiedere l’ulteriore requisito della frode concertata con l’alienante.
Anche questo motivo di ricorso non è meritevole di accoglimento.
Va evidenziato che la censura, così come articolata, non appare in grado di dimostrare che vi siano gli estremi per rinvenire un’effettiva violazione della norma richiamata in rubrica.
Infatti, deve essere disattesa ogni affermazione volta a far ravvisare una responsabilità extracontrattuale in capo ad L.O. per il fatto di aver trascritto il secondo contratto di compravendita dell’immobile, dal momento che l’acquisto dell’appartamento, e la conseguente trascrizione dell’atto, sono avvenuti quando il termine indicato nella diffida era già spirato, e quindi in un momento successivo alla risoluzione di diritto della prima compravendita.
Invero, una volta confermata l’intervenuta risoluzione del contratto per inadempimento della stessa parte acquirente, con il venir meno dell’efficacia del contratto con effetti ex tunc tra le parti, la seconda alienazione è comunque intervenuta allorquando la prima era ormai priva di effetti, essendo quindi esclusa la stessa astratta configurabilità di una pretesa risarcitoria quale conseguenza della seconda vendita.
Non si versa, in effetti, in una situazione di doppia vendita immobiliare, dal momento che la conclusione del secondo accordo avvenne quando ormai il primo contratto si era risolto di diritto, per effetto del mancato adempimento entro il termine fissato nella diffida dal F.. Quest’ultimo, consapevole della funzione della diffida ad adempiere aveva ormai correttamente inteso come risolto il rapporto con la E. e, dunque, nuovamente suscettibile di alienazione l’immobile. La quarta censura “è relativa all’art. 2901 e ss. c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”. Con riferimento al n. 3, il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui ha statuito in modo contraddittorio, che l’unico rimedio che l’ordinamento appresta ai creditori in queste circostanze sia quello che conduce alla sanzione dell’inefficacia, salvo poi ritenere che l’azione revocatoria proposta nei confronti dell’atto F.- L. fosse infondata in quanto non si verteva in tema di revocatoria, non essendo dedotti e provati nè il consilium fraudis, nè l’eventus damni.
Infatti, nell’atto di appello l’ E. aveva ripetutamente indicato il pericolo di un’incapienza generica del patrimonio del debitore nella condotta consapevole del doppio-venditore-debitore F., tale da recare pregiudizio alle garanzie patrimoniali di E.G., nonchè prospettato la possibilità di avvalersi di tale istituto per una funzione restitutoria di un bene specifico.
Con riferimento al n. 5, invece, la Corte avrebbe omesso di esaminare i fatti decisivi relativi al consilium fraudis, sia con riferimento al fatto che l’avv. Moriconi fosse inizialmente avvocato del F. e successivamente procuratore del L., sia relativamente alla circostanza per cui la seconda alienazione si era perfezionata in tempi eccezionalmente rapidi rispetto allo spirare del termine previsto nella diffida, e senza alcuna traccia di modalità di pagamento del prezzo, con ciò dimostrando che in realtà vi fosse già da tempo un accordo tra le parti.
Tale motivo di ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
Va premesso che la vendita a terzi con atto trascritto di un bene immobile che abbia già formato oggetto, da parte del venditore, di una precedente alienazione si risolve nella violazione di un obbligo contrattualmente assunto nei confronti del precedente acquirente, determinando la responsabilità contrattuale dell’alienante con connessa presunzione di colpa ex art. 1218 c.c.; per converso la responsabilità del successivo acquirente, rimasto estraneo al primo rapporto contrattuale, può configurarsi soltanto sul piano extracontrattuale, ove trovi fondamento in una dolosa preordinazione volta a frodare il precedente acquirente o almeno nella consapevolezza dell’esistenza di una precedente vendita e nella previsione della sua mancata trascrizione e quindi nella compartecipazione all’inadempimento dell’alienante in virtù dell’apporto dato nel privare di effetti il primo acquisto, al cui titolare incombe di conseguenza la relativa prova a norma dell’art. 2697 c.c. (cfr. Cass. n. 8403/1990 e 4090/1988).
Per conservare la garanzia patrimoniale relativa a questo suo credito, il primo acquirente può esercitare l’azione revocatoria in merito alla seconda alienazione dell’immobile. Poichè, però, la revocanda alienazione è anteriore al credito da tutelare (che nasce solo con la trascrizione), la revocatoria può trovare accoglimento non per la mera consapevolezza della precedente vendita, bensì solo se sia provata la partecipazione del secondo acquirente alla dolosa preordinazione, in base a quanto previsto dall’art. 2901 c.c., n. 2, ossia alla specifica intenzione di pregiudicare la garanzia del futuro credito, che può essere desunta da obiettive circostanze (Cass. n. 759/1982).
Nel caso di specie, contrariamente a quanto deduce il ricorrente, non solo i giudici del merito hanno ritenuto che difettasse di prova la circostanza della partecipazione del L. alla dolosa preordinazione dell’alienante, ma avendo dichiarato la risoluzione del primo accordo e ordinato la restituzione del prezzo da parte del F., sono pervenuti alla corretta conclusione per cui manchi un credito risarcitorio che l’ E. possa vantare, escludendo così a monte l’esistenza di un eventus damni, che rappresenta uno dei due indefettibili presupposti per la proposizione dell’azione.
Inoltre le medesime considerazioni svolte in ordine alla conferma della statuizione dei giudici di merito quanto alla risoluzione per inadempimento della dante causa dell’odierno ricorrente, fa sì che fosse venuto meno il contratto che rappresenta la prima vendita, il che, oltre a confortare la legittimità della seconda alienazione, avvenuta come detto allorquando la risoluzione di diritto si era già perfezionata, conferma quanto asserito dalla sentenza di appello circa l’assenza di una qualsivoglia pretesa risarcitoria nei confronti sia del venditore che del secondo acquirente, mancando quindi l’esistenza del diritto di credito a garanzia del quale sarebbe dato il ricorso all’azione revocatoria.
La quinta censura “è relativa all’art. 2729 c.c., rilevante art. art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 3), sia ex n. 5)”.
La sentenza sarebbe da censurare nella parte in cui ha statuito, conformemente alla decisione di primo grado, che la simulazione assoluta dell’atto notarile sia rimasta indimostrata e comunque urterebbe contro le risultanze processuali circa la condotta del L., volta a conseguire il possesso dell’immobile. In particolare, la Corte affermando che il pagamento del prezzo della vendita non era contestato, che il L. avesse manifestato una condotta costantemente volta a recuperare l’immobile e che non fossero stati dedotti comportamenti successivi alla stipula della compravendita, volti a far trasparire una volontà collusiva per recuperare indirettamente il bene, avrebbe omesso la valutazione sul contenuto della eccezione di simulazione, che viceversa non poteva che essere dimostrata se non mediante un insieme di presunzioni.
Quanto affermato non consente di comprendere come la Corte abbia potuto condividere le conclusioni del Tribunale, in quanto non si potrebbe sostenere validamente che difetti in assoluto la prova di una simulazione se tale fatto sia dimostrabile mediante altri fatti a carattere presuntivo dedotti dall’attrice.
Anche tale motivo di ricorso non risulta essere fondato e deve essere rigettato.
Ancorchè prima facie la conferma della risoluzione per fatto imputabile al ricorrente potrebbe far propendere per una carenza di interesse all’accertamento della simulazione, posto che anche ove dimostrata la parte non ne trarrebbe alcun vantaggio, essendo venuto meno il suo titolo negoziale, l’interesse deve però ravvisarsi in relazione all’accoglimento della domanda riconvenzionale di rilascio del bene formulata dal L., che evidentemente presuppone il riconoscimento dell’avvenuto acquisto della proprietà da parte di questi, sicchè ove l’acquisto fosse accertato come privo di effetti, verrebbe meno anche la giustificazione della condanna al rilascio.
Ai fini del rigetto del motivo, va condiviso l’orientamento di questa Corte (Cass. n. 28224/2008; Cass. n. 22801/2014), secondo cui, in tema di simulazione assoluta del contratto, nel caso in cui la relativa domanda sia proposta da terzi estranei al negozio, spetta al giudice del merito valutare l’opportunità se fondare la decisione su elementi presuntivi, da considerare, non solo analiticamente, ma anche nella loro convergenza globale, così che l’apprezzamento è incensurabile in sede di legittimità, se sorretto da adeguata e corretta motivazione sotto il profilo logico e giuridico, presupposti che ricorrono nell’accertamento svolto, prima dal Tribunale, e poi dalla Corte d’Appello.
In particolare, i giudici di secondo grado hanno ritenuto che nessuno degli elementi forniti dall’appellante presentasse un grado di decisività tale da consentire di giungere a conclusioni univoche, anche alla luce di una considerazione complessiva degli stessi fatti, i quali al contrario contrastavano con una serie di condotte idonee a escludere l’esistenza di una simulazione assoluta.
Con il sesto motivo si censurano gli “artt. 1175,1176,1366 e 1375, c.c., rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, ex n. 3).
La Corte avrebbe errato nel negare la violazione degli obblighi di buona fede sulla base del fatto che le norme richiamate abbiano a oggetto un regolamento contrattuale, mentre la E. e il L. non sono legati da alcun vincolo negoziale, in quanto sarebbe orientamento ampiamente condiviso dalla giurisprudenza di legittimità quello secondo cui il rispetto del principio di buona fede si pone a presidio di valori fondamentali dell’ordinamento da cui non si potrebbe prescindere anche nei casi in cui si versi al di fuori dei rapporti obbligatori diversi da quelli indicati dal legislatore.
Con il settimo motivo di ricorso si censura “l’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), rilevante l’art. 360 c.p.c., comma 1, sia ex n. 4), sia ex n. 5”.
La motivazione della Corte di Ancona risulterebbe apparente nella parte in cui qualifica come corretta la condotta del L. per il solo fatto che si fosse affidato a un pubblico ufficiale il quale, procedendo alla stipula, ha escluso l’esistenza di qualsiasi ostacolo all’acquisto dell’immobile.
Inoltre, la Corte avrebbe omesso di esaminare il fatto decisivo attinente alla condotta del notaio che, nel momento in cui ha dovuto accertare che il bene immobile fosse libero da qualsiasi peso e impedimento, si è limitato ad affermare che “l’appartamento appartiene al venditore per metà…per l’altra metà in forza di successione della defunta moglie, asfaltando così ogni e qualsiasi difficoltà”, relativa alla persona della moglie, nazionalità e figli della stessa.
Il rigetto dei due motivi in esame, da trattare congiuntamente per la loro connessione, discende evidentemente dalle considerazioni svolte in occasione della disamina del terzo motivo di ricorso, in quanto, una volta ribadito che l’acquisto da parte del controricorrente è avvenuto allorquando il contratto in base al quale il ricorrente agisce in giudizio aveva ormai perso efficacia per l’avvenuta risoluzione di diritto, risulta preclusa in radice la possibilità di individuare nella condotta del L. la violazione di principio di buona fede tale da legittimare una pretesa di carattere risarcitorio ovvero conseguenze in ordine alla sorte del contratto di acquisto del bene.
Il ricorso principale è quindi rigettato.
Con il primo motivo del ricorso incidentale si denunzia “violazione ed errata o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., dell’art. 132c.p.c., comma 2, nn. 2, 4 e 5, e ex art. 360 c.p.c., n. 4. Omessa pronuncia nei confronti di una delle parti chiamate in giudizio: litisconsorte processuale necessario D.A.”.
La sentenza di primo grado venne pronunciata nei confronti di E.G. quale erede dell’originaria attrice E.G.. Tuttavia, l’atto di appello fu promosso da E.E.M. quale avente causa per atto inter vivos di D.A., moglie ed erede di E.G.; la D. aveva ceduto all’appellante i diritti litigiosi ad essa spettanti, ma il L., tanto in comparsa di costituzione in appello, quanto in sede di precisazioni delle conclusioni, dichiarava di non voler liberare la D., chiedendo e ottenendo che il contraddittorio fosse integrato anche nei suoi confronti. In base a ciò, L.O. ritiene che D.A. sia tuttora parte all’interno del presente giudizio; pertanto, avendo il giudice dell’appello omesso il suo nome tra i soggetti condannati in solido, si ritiene che ciò integri una violazione dell’art. 112 c.p.c..
Tale doglianza risulta essere fondata.
In base a quanto stabilisce il codice di rito, art. 111, il successore a titolo particolare per atto tra vivi di una delle parti del processo può intervenire volontariamente nel processo o esservi chiamato, ma ciò non comporta automaticamente l’estromissione dell’alienante o del dante causa, potendo questa essere disposta dal giudice solo se le altre parti vi consentano. Ne consegue che, nel giudizio di impugnazione contro la sentenza, il successore intervenuto in causa e l’alienante non estromesso sono litisconsorti necessari e che, se la sentenza è appellata da uno solo soltanto o contro uno soltanto dei medesimi, deve essere ordinata, anche d’ufficio, l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’altro, a norma dell’art. 331 c.p.c., dovendosi, in difetto, rilevare, anche d’ufficio, in sede di legittimità, il difetto di integrità del contraddittorio con rimessione della causa al giudice di merito per la eliminazione del vizio (cfr. Cass. n. 15905/2018).
Dal momento, dunque, che il L. ha espressamente dichiarato in tutti i suoi scritti difensivi di appello di non voler liberare la D. all’interno del processo oggi pendente davanti a questa Corte, non vi è spazio per ritenere che la stessa sia stata estromessa, ma al contrario deve tuttora considerarsi litisconsorte necessaria.
Effettivamente la sentenza impugnata ha omesso ogni riferimento alla sua presenza in giudizio, nonostante fosse stata disposta l’integrazione del contraddittorio, e tale omissione si è ripercossa anche sulla corretta regolamentazione delle spese di lite.
Infatti, atteso che la medesima, ancorchè contumace in appello, risulta essere soccombente rispetto alle sorti del giudizio, in accoglimento del motivo la sentenza impugnata deve essere cassata in parte qua, ma non palesandosi la necessità di ulteriori accertamenti in fatto, ritiene la Corte che la causa possa essere decisa nel merito, con la condanna della D., in solido con l’odierno ricorrente principale al rimborso delle spese del giudizio di appello per la misura di quattro quinti (e con compensazione del residuo quinto), come liquidate dalla Corte distrettuale).
Con il secondo motivo di ricorso incidentale si deduce “violazione ed errata o falsa applicazione dell’art. 820 c.c., comma 3, dell’art. 821c.c., comma 3, degli artt. 832 e 1499c.c., e ex art. 360, comma 1, n. 3”.
La Corte, sebbene abbia ordinato il rilascio dell’appartamento in favore del L., costatando altresì l’illegittimità dell’occupazione dello stesso, ha respinto per mancanza di prova la domanda di risarcimento del danno patito dall’odierno controricorrente a seguito dell’illegittima occupazione, dal momento che lo stesso si sarebbe unicamente limitato a riportare in termini indicativi il valore del canone di locazione senza dimostrare la perdita di occasioni favorevoli per locarlo. Tale interpretazione sarebbe non condivisibile atteso il contrasto a cui perverrebbe con i principi, anche costituzionali, in materia di proprietà privata.
Il motivo dev’essere rigettato.
Come correttamente affermato dalla Corte territoriale, in tema di occupazione abusiva di immobili sussiste un contrasto giurisprudenziale che vede contrapporsi un orientamento che considera il danno in re ipsa (cfr. ex multis Cass. 9137/2018), ad un altro per cui il danno da occupazione abusiva debba comunque essere oggetto di dimostrazione da parte del danneggiato, richiedendo a tal fine che egli provi l’effettiva lesione derivante dall’abusiva occupazione (cfr. da ultimo, Cass. n. 13071/2018).
Ritiene il Collegio di dover dare continuità alla più recente giurisprudenza di questa Corte (Cass. N. 32108/2019; Cass. N. 1657/2019), che, ha rilevato che nel caso di occupazione illegittima di un immobile, il danno subito dal proprietario è in realtà oggetto di una presunzione correlata alla normale fruttuosità del bene, presunzione che, tuttavia, essendo basata sull’id quod plerumque accidit, ha carattere relativo, iuris tantum, e quindi ammette la prova contraria (Cass. 7 agosto 2012, n. 14222; Cass. 15 ottobre 2015, n. 20823; Cass. 9 agosto 2016, n. 16670), non potendosi quindi correttamente sostenere che si tratti di un danno la cui sussistenza sia irrefutabile, posto che la locuzione “danno in re ipsa” va tradotta in altre (“danno normale” o “danno presunto”), più adatte ad evidenziare la base illativa del danno, collegata all’indisponibilità del bene fruttifero secondo criteri di normalità, i quali onerano l’occupante alla prova dell’anomala infruttuosità di uno specifico immobile.
Avuto riguardo a tali principi, la sentenza impugnata appare incensurabile avendo evidenziato che il convenuto in realtà non solo non aveva provato ma ancor prima nemmeno allegato le circostanze dalle quali far discendere in via presuntiva l’esistenza del danno richiesto.
Il motivo, lungi dal contrastare la correttezza di tale affermazione, si riduce ad una riproposizione della nozione di danno in re ipsa, ma in un’accezione, per quanto sopra esposto, che non può trovare riconoscimento nel nostro ordinamento, atteso che il danno da occupazione “sine titulo”, in quanto particolarmente evidente, può essere agevolmente dimostrato sulla base di presunzioni semplici, ma un alleggerimento dell’onere probatorio di tale natura non può includere anche l’esonero dalla allegazione dei fatti che devono essere accertati, ossia l’intenzione concreta del proprietario di mettere l’immobile a frutto (Sez. 3, n. 13071, 25/5/2018, Rv. 648709).
Nel caso di specie, il L. non ha mai provato – nè adeguatamente allegato le circostanze idonee a fondarlo alcun danno derivante dall’occupazione sine titulo dell’immobile da parte delle sue controparti, ma ha semplicemente “riportato in maniera del tutto indicativa il valore del canone di locazione”, senza mai dimostrare di aver perso occasioni favorevoli per locare l’immobile, ovvero di aver sofferto altri pregiudizi patrimoniali, lasciando così la sua pretesa sfornita di allegazione e prova, che correttamente i giudici di merito hanno provveduto a respingere.
Le spese del presente giudizio seguono la prevalente soccombenza del ricorrente principale e dell’intimata D. e si liquidano come da dispositivo, nulla dovendosi disporre quanto all’altro intimato che non ha svolto attività difensiva in questa sede.
Poichè il ricorso principale è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
La Corte accoglie il primo motivo del ricorso incidentale e rigetta il ricorso principale ed il secondo motivo del ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, dispone che le spese del giudizio di appello, previa compensazione di un quinto, siano poste per la residua quota, come liquidate dal giudice di appello, in solido a carico di D.A. e E.E.M.;
Condanna, in solido tra loro, D.A. e E.E.M. al rimborso delle spese del presente giudizio in favore di L.O., liquidandole nel complessivo importo di Euro 5.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% suì compensi, ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato per il ricorso principale a norma dell’art. 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 20 novembre 2020.
Depositato in Cancelleria il 7 gennaio 2021
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