LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE 3
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –
Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – Consigliere –
Dott. GIAIME GUIZZA Stefano – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 22746-2019 proposto da:
B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CELIMONTANA 38, presso lo studio dell’Avvocato BENITO PANARITI, rappresentato e difeso dall’Avvocato MARIO AVENIA;
– ricorrente –
contro
T.M.I. SPA, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA PASQUALE STANISLAO MANCINI 2, presso lo studio dell’Avvocato PIETRO CICERCHIA, che la rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 1085/2019 della CORTE D’APPELLO di BARI, depositata il 13/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non partecipata del 15/10/2020 dal Consigliere Relatore Dott. GIAIME GUIZZI STEFANO.
RITENUTO IN FATTO
– che B.A. ricorre, sulla base di tre motivi, per la cassazione della sentenza n. 1085/19, del 13 maggio 2019, della Corte di Appello di Bari, che – accogliendo il gravame esperito dalla società Toyota Motor Italia S.p.a. (d’ora in poi, “Toyota Italia”) contro la sentenza n. 1819/15, del 17 aprile 2015, del Tribunale di Bari – ha dichiarato il difetto di legittimazione della predetta società, quanto alla domanda risarcitoria proposta dall’odierno ricorrente in relazione a lamentati difetti di fabbricazione della sua autovettura di marca Toyota;
– che, in punto di fatto, il ricorrente riferisce che, in data 21 novembre 2014, la propria automobile – parcheggiata in una strada del capoluogo pugliese – prendeva fuoco nella parte anteriore, segnatamente nel vano motore e fanaleria anteriore sinistra, subendo ingenti danni a causa del propagarsi dell’incendio anche alla parte posteriore;
– che il veicolo veniva condotto presso la concessionaria ove il B. lo aveva acquistato (società ***** S.r.l., allora ancora “in bonis”), per essere periziata da tecnici della società Toyota Italia, i quali, peraltro, concludevano per l’assenza di qualsiasi difetto di fabbricazione, senza, tuttavia, che nessuna contestazione fosse sollevata in merito alla legittimazione della società stessa;
– che adito il Tribunale barese per far valere la garanzia triennale prevista dal contratto di vendita, con conseguente domanda di risarcimento dei danni – previamente determinati a mezzo di accertamento tecnico preventivo – nei confronti delle società Toyota Italia e *****, il primo giudice istruiva la causa anche a mezzo di consulenza tecnica d’ufficio;
– che l’ausiliario del giudice, in particolare, suffragava la tesi attorca secondo cui l’incendio era stato causato da un corto circuito, attribuibile ad un difetto tecnico dell’impianto elettrico dell’auto;
– che all’esito del primo grado di giudizio – peraltro riassunto, a seguito di interruzione conseguente al fallimento della società ***** – la società Toyota Italia era condannata a pagare la somma di Euro 2.415,73 a titolo di risarcimento danni;
– che esperiva gravame la società Toyota Italia, non solo contestando nel merito la decisione del primo giudice, ma ribadendo l’eccezione di difetto legittimazione dallo stesso disattesa;
– che si costituiva in giudizio l’attore vittorioso, il quale – chiesta e ottenuta l’integrazione del contraddittorio nei confronti del diretto venditore dell’auto, ovvero la curatela del fallimento ***** (il cui atto di chiamata, tuttavia, veniva depositato telematicamente in cancelleria non entro il termine “ex lege” di dieci giorni, bensì quattro mesi e dieci giorni dopo la sua notificazione) – chiedeva, oltre al rigetto dell’appello, la declaratoria di improcedibilità c/o inammissibilità dello stesso in ragione dell’inadempimento dell’ordine di integrazione del contraddittorio;
– che il giudice di appello dichiarava il difetto di legittimazione passiva della società Toyota Italia, sul rilievo che essa risultava solo l’importatrice e distributrice sul territorio nazionale del veicolo per cui era causa, e non pure la costruttrice dello stesso, condannando il B. a restituire quanto corrispostogli in esecuzione della sentenza di primo grado;
– che avverso la sentenza della Corte barese il B. ricorre per cassazione, sulla base – come detto – di tre motivi;
– che il primo motivo denunzia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma l, n. 3), – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 165,269 e 270 c.p.c. (applicabili anche in appello giusta gli artt. 347 e 359 c.p.c.), poichè l’atto di chiamata in causa della curatela fallimentare è stato depositato telematicamente solo quattro mesi e dieci giorni dopo la sua notificazione, e non entro i dieci giorni previsti dagli artt. 165 e 347 c.p.c., a nulla rilevando il deposito cartaceo, visto l’obbligo inderogabile del deposito telematico di cui al D.L. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 16, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 17 dicembre 2012, n. 22;
– che il secondo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), – violazione e/o falsa applicazione dell’art. 42 Cost., artt. 112,113,115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), nonchè degli artt. 1362,1363,1364,1366,1367,1368,1369, 1370,1372 e 1375 c.c., oltre che del cd. codice del consumo, art. 2, comma 2, lett. b), e), art. 33, comma 2, lett. b), m), q) ed s), artt. 35, 133 e 143 censurando la declaratoria di difetto di legittimazione passiva della società Toyota Italia anche perchè pronunciata dalla Corte territoriale omettendo l’esame sia del contratto di acquisto e del libretto di garanzia punto 4), che indicano detta società quale soggetto tenuto alla garanzia, sia del fatto che il libretto di garanzia prodotto dalla convenuta è del 20 maggio 2005, quindi successivo tanto all’acquisto dell’auto, avvenuto il 4 settembre 2002, quanto all’evento dannoso, risalente al 22 novembre 2004;
– che il terzo motivo denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – violazione e/o falsa applicazione degli artt. 111 Cost., artt. 112,113,115,116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4), nonchè degli artt. 1189,1992,2036 c.c. e del codice del commercio, art. 133, censurando la sentenza impugnata per aver ritenuto il difetto di legittimazione di Toyota Italia e per aver omesso anche l’esame del comportamento avuto dalla stessa prima dell’avvio del giudizio, facendo periziare l’auto dai propri tecnici e rigettando la richiesta risarcitoria (come da comunicazione del 30 dicembre 2004) senza eccepire il difetto di legittimazione e/o carenza di garanzia, e quindi presentandosi, in tutto o in parte, come legittimata passiva alla garanzia convenzionale sull’automezzo dell’odierno ricorrente, salvo poi sollevare strumentalmente l’eccezione in giudizio;
– che ha resistito all’impugnazione, con controricorso, la società Toyota Italia, chiedendo che lo stesso venga rigettato;
– che la proposta del relatore, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c., è stata ritualmente comunicata a entrambe le parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio per il 15 ottobre 2020;
– che entrambe le parti hanno presentato memoria, insistendo nelle proprie argomentazioni.
CONSIDERATO IN DIRITTO
– che il ricorso è manifestamente infondato;
– che il primo motivo – con il quale si ipotizza l’estinzione del giudizio per “tardiva” esecuzione del deposito, in via telematica, dell’atto di chiamata in causa, ad integrazione del contraddittorio verso il fallimento ***** – non è fondato, trovando applicazione il principio secondo cui la “integrazione del contraddittorio disposta “iussu iudicis” per ragioni di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c. comporta la necessità che l’atto integrativo venga notificato all’interessato nel termine perentorio fissato dal giudice, ovvero, qualora quest’ultimo abbia omesso tale indicazione, nel rispetto dei termini a comparire di cui all’art. 163-bis c.p.c., con la conseguenza che il rapporto processuale deve ritenersi validamente costituito con la notifica dell’atto integrativo, e non anche con il deposito dell’atto notificato in cancelleria nel termine di dieci giorni dalla notifica” (Cass. Sez. 3, sent. 12 marzo 2014, n. 5628, Rv. 63057301);
– che, del resto, nessuna norma sanziona – salvo quanto specificamente previsto per il giudizio di legittimità dall’art. 371-bis c.p.c. (che prevede la declaratoria di improcedibilità dell’impugnazione, allorchè il ricorso notificato in esecuzione dell’ordine di integrazione impartito da questa Corte non venga depositato nella cancelleria della Corte stessa entro venti giorni dalla scadenza del termine assegnato) – la mancata osservanza del termine per il “deposito” dell’atto di chiamata in causa;
– che difatti, già in passato, si è affermato che “in mancanza di una norma la quale prescriva il deposito in un termine perentorio dell’atto integrativo del contraddittorio in causa inscindibile, deve ritenersi sufficiente che il deposito stesso avvenga prima della discussione della causa davanti al collegio, per consentire al giudice dell’impugnazione di controllare la ritualità e la tempestività della relativa notifica” (Cass. Sez. 3, sera. 10 aprile 1979, n. 2069, Rv. 398444-01; Cass. Sez. 1, sent. 9 luglio 2003, n. 10779, Rv. 569259-01), dal momento che in caso di “chiamata di un terzo in causa (ad integrazione del contraddittorio) il termine di dieci giorni entro il quale, ai sensi dell’art. 269 c.p.c., deve essere depositata la citazione integrativa, ha natura ordinatoria”, sicchè, “se non rispettato”, non comporta neppure “l’improcedibilità della domanda nei confronti del chiamato” (Cass. Sez. 2, sent. 12 dicembre 1983, n. 7341; Rv. 431934-01);
– che, pertanto, i rilievi svolti dal ricorrente, sul punto, nella memoria ex art. 380-bis c.p.c., vanno disattesi, macchè la giurisprudenza di questa Corte (anche a Sezioni Unite) citati nella stessa si riferiscono, rispettivamente, al termine per la costituzione dell’appellato (Cass. Sez. Un., sent. 18 maggio 2011, n. 10864) e a quello per la “ripresa” del procedimento di notificazione dell’ordine di integrazione del contraddittorio (Cass. Sei. 6-1, ord. 9 aprile 2018, n. 8639; Cass. Sei. Un., sent. 24 maggio 2019, n. 14266), non per il deposito della citazione notificata;
– che il secondo motivo è, invece, inammissibile in ciascuna delle censure in cui si articola;
– che, infatti, quanto alla dedotta violazione delle norme sull’interpretazione del contratto (operata citando pressochè tutti gli artt. 1362 al 1371 c.c.), deve rilevarsi come essa sia formulata senza neppure specificare – al di là di un generico e pleonastico riferimento alla necessità che l’interpretazione ed esecuzione del contratto debbano essere effettuate secondo buona fede, indagandone la reale volontà delle parti, desunta dall’intero rapporto contrattuale, conservando l’effetto reale che possa discenderne e privilegiando quelle più favorevoli al consumatore – quali siano, esattamente, i canoni ermeneutici violati e, soprattutto, in che modo la violazione sia stata realizzata, disattendendo, così, il principio secondo cui, ove il ricorrente “intenda denunciare un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale, non può limitarsi a richiamare le regole di cui agli artt. 1362 e s.s. c.c., avendo invece l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati, ed in particolare il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi discostato” (Cass. Sei. 3, sent. 28 novembre 2017, n. 28319, Rv. 646649-01; Cass. sez. 1, ord. 27 giugno 2018, n. 16987, Rv. 649677-01);
– che, pertanto, la censura va ritenuta inammissibile, anche a fronte della puntualizzazione operata dal ricorrente, nella già citata memoria ex art. 380-bis c.p.c., ovvero di aver censurato l’interpretazione del contratto per cui è causa, giacchè posta in essere in violazione dei principi di buona fede, senza indagare la reale intenzione dei contraenti, oltre che in violazione della disciplina consumieristica, visto che “anche il motivo di ricorso per cassazione che denunci la violazione, da parte del giudice del merito, dei criteri di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e s.s. c.c., deve essere formulato attraverso la puntuale e precisa enunciazione delle ragioni per le quali un dato criterio sarebbe stato erroneamente applicato, non assumendo rilievo la circostanza che nella sentenza impugnata risulti omesso l’espresso riferimento ad uno specifico criterio interpretativo legale” (Cass. Sez. 3, ord. 21 giugno 2017, n. 15350, Rv. 644814-02);
– che, viceversa, quanto al vizio di “omesso esame” addebitato alla Corte territoriale – in disparte il rilievo che la censura non risulta formulata nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6), visto che il ricorrente non si doveva limitare a dedurre quale fossero i “fatti” omessi, la loro “decisività” ed il “dato”, testuale o extratestuale, da cui essi risultino esistente, ma anche (ciò che non risulta avvenuto) il “come” e il “quando” tali fatti siano stati oggetto di discussione processuale (cfr., Cass. Sez. Un., sent. 7 aprile 2014, n. 8054, Rv. 629831-01; in senso conforme, tra le più recenti, Cass. Sez. 3, sent. 11 aprile 2017, n. 9253, Rv. 643845-01; Cass. Sez. 6-3, ord. 10 agosto 2017, n. 19987, Rv. 645359-01) – deve notarsi che esso investe una pluralità di risultanze istruttorie che, nella loro ampiezza ed eterogeneità, non possono ricondursi alla nozione di “fatto” decisivo di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), visto, oltretutto, che esso si identifica in un “fatto vero e proprio”, vale a dire “un preciso accadimento, ovvero una precisa circostanza da intendersi in senso storico-naturalistico” (Cass. Sez. 5, sent. 8 ottobre 2014, n. 21152, Rv. 632989-01; Cass. Sez. Un., sent. 23 marzo 2015, n. 5745, non massimata), “un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante, e le relative ricadute di esso in termini di diritto” (cfr. Cass. Sez. 1, ord. 5 marzo 2014, n. 5133, Rv. 629647-01);
– che, invero, come è già stato affermato, nitidamente, da questa Corte, ai sensi della norma “de qud’ (come “novellata” dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b, convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134) “è evidente l’inammissibilità di censure, come quelle attualmente prospettate dal ricorrente, che evochino una moltitudine di fatti e circostanze lamentandone il mancato esame o valutazione da parte della Corte d’appello ma in realtà sollecitandone un esame o una valutazione nuova da parte della Corte di cassazione, così chiedendo un nuovo giudizio di merito, oppure chiamando “fatto decisivo”, indebitamente trascurato dalla Corte d’appello, il vario insieme dei materiali di causa” (così, in motivazione, Cass. Sez. Lav., sent. 21 ottobre 2015, n. 21439, Rv. 637497-01);
– che, d’altra parte, anche le Sezioni Unite di questa Corte hanno di recente ribadito l’inammissibilità di censure “che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito” (da ultimo, Cass. Sez. Un., sent. 27 dicembre 2019, n. 34476, Rv. 656492-03).
– che il terzo motivo risulta, nuovamente, inammissibile, data la non conferenza, rispetto al caso di specie, del principio della cd., apparentia iuris”, e, con essa, l’impossibilità di ricondurre alle previsioni di cui agli artt. 1189 e 2036 c.c. la presente fattispecie, atteso che il comportamento “successivo” alla conclusione del contratto non può certo rilevare nel senso di determinare l’acquisizione della posizione di parte contrattuale – e, con essa, dell’obbligazione di garantire l’acquirente dai vizi della cosa venduta (diversamente da quanto ipotizza l’odierno ricorrente, ancora una volta, nella memoria ex art. 380-bis c.p.c.) – in capo ad un soggetto che tale qualità non rivestiva al momento della stipulazione, ovvero determinare l’assunzione della titolarità, dal lato passivo, del rapporto dedotto in giudizio;
– che, difatti, secondo questa Corte, “il principio dell’apparenza del diritto (art. 1189 c.c.) trova applicazione quando sussistono uno stato di fatto difforme dalla situazione di diritto ed un errore scusabile del terzo in buona fede circa la corrispondenza del primo alla realtà Ouridica, assumendo comunque rilievo giuridico l’apparenza ai soli fini della individuazione del titolare di un diritto soggettivo, ma non anche per fondare una pretesa di adempimento nei confronti di un soggetto non debitore” (ipotesi, quest’ultima, che ricorre nella specie, atteso che l’odierno ricorrente ha chiesto, nella sostanza, l’adempimento dell’obbligazione ex art. 1479 c.c., comma 1, n. 3), “atteso che l’affidamento del terzo può legittimare una richiesta di risarcimento danni per il subito pregiudizio, e non invece trasformare in debitore un soggetto che non rivesta tale qualità” (così, da ultimo, in motivazione, Cass. Sez. 6-2, ord. 19 ottobre 2017, n. 23621, Rv. 646793-01; nello stesso già, tra le altre, Cass. Sez. Un., sent. 1 luglio 1997, n. 5896, Rv. 505632-01);
– che il ricorso va, dunque, rigettato;
– che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo;
– che in ragione del rigetto del ricorso, va dato atto – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 – della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
P.Q.M.
La Corte dichiara il ricorso manifestamente infondato, condannando B.A. a rifondere, alla società Toyota Motor Italia S.p.a., le spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3.200,00, oltre C 200,00 per esborsi, nonchè 15i per spese generali più accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo, se dovuto, a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Depositato in Cancelleria il 13 gennaio 2021
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