Sentenza, vizio di motivazione, questioni di mero diritto, giudice di legittimità, valutazione che può prescindere dalla motivazione

Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.41236 del 22/12/2021

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Sentenza, vizio di motivazione, questioni di mero diritto, giudice di legittimità, valutazione che può prescindere dalla motivazione

Non può configurarsi vizio di motivazione in relazione a questioni di mero diritto. Ciò in quanto il giudice di legittimità è investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se chiamato a valutare la conformità a diritto della decisione impugnata, la sua valutazione ben può prescindere dalla motivazione che, in punto di diritto, sia contenuta nella sentenza impugnata, restando del tutto irrilevante anche l’eventuale mancanza di questa, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame.

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. GRAZIOSI Chiara – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. VALLE Cristiano – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 32729/2018 R.G. proposto da:

Maya Sol S.a.s. di G.G.M.D.C. & C., rappresentata e difesa dall’Avv. Mario Nava, con domicilio eletto in Roma, via Veturia, n. 45 presso lo studio dell’Avv. Roberto Imperiali;

– ricorrente –

contro

Immobiliare Ma.Co. s.n.c. di M.M. & C., rappresentata e difesa dall’Avv. Giovanna Ranieri, e dell’Avv. Pierpaolo Proverbio, con domicilio eletto presso lo studio della prima in Roma, Via Calabria, n. 56;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Milano, n. 1194/2018 depositata il 5 aprile 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 20 ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 8323/15, pubblicata il 2 luglio 2015, il Tribunale di Milano, in accoglimento della domanda proposta dalla Immobiliare Ma.Co. S.r.l. dichiarò risolto il contratto di locazione di immobile per uso diverso dall’abitazione intercorso tra la predetta (quale locatrice) e la Maya Sol S.a.s. di G.G.M.D.C. (conduttrice) per inadempimento di quest’ultima all’obbligo di pagamento dei canoni; dichiarò invece inammissibili le domande riconvenzionali della conduttrice – dirette all’accertamento del vantato controcredito restitutorio relativo agli importi, asseritamente non dovuti, corrisposti nel corso del rapporto, a titolo di Iva e rivalutazione Istat in misura eccedente quella del 75% – in quanto già preventivamente azionate da Maya Sol S.a.s. in un separato giudizio.

2. Quest’ultima interpose gravame lamentando:

a) l’omesso esame delle dette domande riconvenzionali, il cui accoglimento avrebbe consentito di operare una compensazione, con conseguente inesistenza della morosità;

b) la mancata declaratoria di inammissibilità della domanda di convalida di sfratto, in considerazione della pendenza del menzionato separato giudizio;

c) l’erroneità della pronuncia di risoluzione in presenza di rinuncia allo sfratto in tesi implicitamente desumibile dall’invio, da parte della locatrice, in pendenza del procedimento di convalida, di disdetta per finita locazione e in mancanza di rituale domanda di risoluzione (avendo la locatrice, dopo la trasformazione del rito, insistito per “convalidare lo sfratto per morosità”, misura non più adottabile poiché conclusa la fase sommaria);

d) l’erronea conferma, da parte del tribunale, dell’ordinanza di rilascio che avrebbe, invece, dovuto essere revocata per l’effetto sostitutivo della sentenza definitiva al provvedimento anticipatorio.

3. Con sentenza n. 1194/2018 depositata il 5 aprile 2018 la Corte d’appello di Milano ha rigettato il gravame, disattendendo tutti i detti profili di doglianza, sulla scorta dei seguenti rilievi:

– le censure relative alla dichiarata inammissibilità delle domande riconvenzionali “hanno perso ogni attuale rilevanza”, essendo nel separato giudizio intervenuta sentenza d’appello che, accogliendo le domande della conduttrice solo in relazione alla minore percentuale di rivalutazione del canone legittimamente pretendibile, consente (pur non essendo passata in giudicato) di confermare l’affermata esistenza di una situazione di grave morosità della conduttrice (a fronte di un credito della locatrice di Euro 21.894,64 per canoni insoluti all’aprile 2014, la conduttrice poteva vantare, al più, un credito di Euro 5.359,08 oltre interessi);

– l’intimazione di sfratto per finita locazione (in relazione al termine successivamente maturato) non implica in alcun modo una rinuncia alla intimazione di sfratto per morosità preventivamente azionata;

– la dichiarata risoluzione del contratto per morosità non configura ultrapetizione rispetto alla domanda di convalida di sfratto per morosità;

– è pacifico in dottrina e giurisprudenza che l’ordinanza di sfratto viene assorbita nella sentenza che definisce il giudizio e che diviene l’unico titolo esecutivo, senza alcuna necessità di revoca della precedente ordinanza.

4. Avverso tale sentenza, la ricorrente propone ricorso per cassazione articolando nove motivi, cui resiste l’intimata depositando controricorso.

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

La ricorrente ha depositato memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione e falsa applicazione dell’art. 2909 c.c., artt. 324 e 327 c.p.c.; omesso esame dei motivi di impugnazione ovvero errata declaratoria di improcedibilità della domanda di sfratto” (così testualmente nell’intestazione).

Sostiene che la corte d’appello avrebbe dovuto prendere in esame le riproposte domande riconvenzionali sull’Iva, sull’Istat e sul danno, ancorché fosse pendente altro giudizio avente ad oggetto le medesime questioni.

Ciò – argomenta – sia perché il presente giudizio aveva un oggetto più ampio, sia perché la separata sentenza non era passata in giudicato, ragione per cui la corte avrebbe dovuto pronunciarsi in merito ovvero, in alternativa, dichiarare l’improcedibilità della domanda dell’intimante, stante l’anteriorità del separato giudizio.

2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omesso esame di un fatto decisivo costituito dalla domanda di accertamento del canone e di risarcimento del danno”, in relazione alla riproposta questione della non debenza dell’Iva.

3. Con il terzo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 663 c.p.c., comma 3, e dell’art. 1455 c.c. in relazione alla ritenuta gravità dell’inadempimento; “omessa applicazione della L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 9 relativamente alle spese condominiali”.

Afferma che il riconoscimento del credito restitutorio, sia pure per il minor importo di Euro 5.389, quale importo corrisposto per rivalutazione canoni in eccedenza rispetto al dovuto, avrebbe dovuto indurre la corte d’appello a non ritenere sussistente una morosità tale da giustificare la risoluzione del contratto di locazione, tanto più che – soggiunge – una parte della dichiarata morosità era costituita da somme non esigibili, quali quelle richieste a titolo di spese condominiali che non erano mai state richieste nelle forme di cui alla L. 27 luglio 1978, n. 392, art. 9.

4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza per carenza totale della motivazione art. 112,132 e 161 c.p.c. – rinuncia allo sfratto” (questa la testuale intestazione).

Rileva che il rigetto del motivo con il quale si era eccepita l’intervenuta rinuncia, da parte della locatrice, allo sfratto – in tesi implicitamente desumibile dalla comunicazione, nelle more del procedimento, di disdetta del contratto per finita locazione – è pronunciato in termini apodittici e senza alcuna motivazione.

5. Con il quinto motivo deduce che, sul punto, la decisione è comunque errata in diritto, per violazione degli artt. 99 e 100 c.p.c..

Sostiene che, presupponendo la disdetta la validità del contratto fino alla indicata scadenza, l’azione di sfratto per morosità deve essere ritenuta incompatibile e che tale incompatibilità implica che vi sia stata la rinuncia all’azione di sfratto per morosità.

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “nullità della sentenza per carenza totale della motivazione”, in relazione al rigetto della eccezione di inammissibilità della domanda svolta da parte intimante nella fase di trasformazione del rito ex art. 667 c.p.c., per avere (l’intimato) mantenuto la richiesta di convalida dello sfratto che non poteva più essere emessa nella fase di cognizione piena.

Rileva che la corte di appello si è limitata ad affermare che la declaratoria di risoluzione del contratto non costituisce una violazione dei limiti della domanda ma non ha affatto motivato il perché.

7. Con il settimo motivo essa deduce che, sul punto, la decisione è comunque errata in diritto, per violazione dei limiti della domanda, con riferimento art. 112 c.p.c..

Argomenta che: la richiesta di emissione della ordinanza di convalida di sfratto così come formulata nella memoria di mutamento del rito non poteva essere accolta in quanto tendente ad ottenere un provvedimento non più consentito; la relativa domanda espressa dall’intimante nella memoria integrativa doveva essere formulata in termini differenti; la corte di appello ha dunque violato i limiti della domanda incorrendo nel vizio di ultra- o extra-petizione.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, “violazione di legge per errata declaratoria di conferma della ordinanza di rilascio; violazione degli artt. 131,447-bis e 429 c.p.c. ed applicazione dell’art. 161 c.p.c.”, in relazione al rigetto del motivo d’appello con il quale si era dedotta l’erroneità della decisione di primo grado per avere confermato l’ordinanza di rilascio emessa a conclusione del procedimento speciale.

9. Con il nono motivo la ricorrente denuncia, infine, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, “omesso esame di un fatto decisivo nella ammissione di circostanze di prova in punto relativo al risarcimento del danno da maggiori oneri finanziari sostenuti” (così nell’intestazione), per avere la Corte d’appello ritenuto assorbito l’esame della riproposta domanda riconvenzionale di risarcimento danni.

Lamenta il mancato esame della richiesta di prova per testi diretta a dimostrare il danno rappresentato dalla accensione di mutui per far fronte ai costi derivanti dal contratto di locazione.

10. I primi due motivi ed il nono sono inammissibili.

In disparte l’evidente eccentricità della denuncia (con il secondo motivo) di vizio motivazionale con riferimento ad una questione di mero diritto (v. Cass. 28/05/2019, n. 14476; n. 188 del 10/01/2004; 17/11/1999, n. 12753; 03/04/1990, n. 2756; 22/01/1976, n. 199), è dirimente il rilievo del sopravvenuto passaggio in giudicato della decisione resa nel separato giudizio (App. Milano n. 4742/2016 depositata il 13 gennaio 2017), per effetto della pronuncia di Cass. 04/07/2018, n. 17541, che ha rigettato il ricorso proposto da Maya Sol S.a.s. avverso la sentenza predetta, così definitivamente e irreversibilmente acclarando l’infondatezza: a) della pretesa restitutoria della predetta società riferita alla parte dell’importo versato imputata a Iva sul canone concordato; b) della pretesa risarcitoria riferita al forzato ricorso al credito al fine di far fronte ai maggiori oneri contrattuali.

E’ noto al riguardo che, come è stato affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte “il giudicato, esterno o interno che sia, costituisce un elemento che non può essere incluso nel fatto, in quanto, pur non identificandosi con gli elementi normativi astratti, è ad essi assimilabile, essendo destinato a fissare la regola del caso concreto, e partecipando quindi della natura dei comandi giuridici, la cui interpretazione non si esaurisce in un giudizio di mero fatto. Il suo accertamento, pertanto, non costituisce patrimonio esclusivo delle parti, ma, mirando ad evitare la formazione di giudicati contrastanti, conformemente al principio del ne bis in idem, corrisponde ad un preciso interesse pubblico, sotteso alla funzione primaria del processo, e consistente nell’eliminazione dell’incertezza delle situazioni giuridiche, attraverso la stabilità della decisione”: garanzia di stabilità a sua volta “collegata all’attuazione dei principi costituzionali del giusto processo e della ragionevole durata, i quali escludono la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive e concrete garanzie difensive” (v. Cass. Sez. U. n. 13916 del 16/06/2006; Id. n. 26482 del 17/12/2007).

Proprio per tal motivo, nel giudizio di cassazione, l’esistenza del giudicato esterno è, al pari di quella del giudicato interno, rilevabile d’ufficio, non solo qualora emerga da atti comunque prodotti nel giudizio di merito, ma anche nell’ipotesi in cui il giudicato si sia formato successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata.

Nel caso di specie, anzi, essendosi il giudicato esterno fra le stesse parti formato, come detto, a seguito di sentenza della Corte di cassazione, i poteri cognitivi del giudice possono pervenire alla cognizione della precedente pronuncia anche prescindendo dalle allegazioni delle parti e facendo ricorso, se necessario, a strumenti informatici e banche dati elettroniche (Cass. n. 29923 del 30/12/2020; n. 8614 del 15/04/2011).

11. Il terzo motivo è inammissibile.

Si risolve infatti in una apodittica asserzione meramente oppositiva al decisum della Corte, senza in alcun modo confrontarsi con la motivazione che ne è posta a base, la quale mette in evidenza il notevole divario tra detto controcredito e quello, quattro volte maggiore, vantato dalla locatrice per canoni impagati.

Tanto meno può trovare ingresso in questa sede l’affermazione secondo cui l’importo preteso dalla locatrice comprendeva spese condominiali non esigibili, trattandosi di questione che non risulta affrontata in sentenza e in ordine alla quale la ricorrente non indica se e quando fosse stata introdotta e dibattuta nel giudizio: se in particolare si trattava di eccezione già opposta in primo grado e se, in tal caso, fosse stata ritualmente riproposta in appello quale motivo di gravame.

Va al riguardo ribadito che, qualora con il ricorso per cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di specificità del motivo, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo a questa Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (tra le tante, Cass. n. 15430 del 2018). Difatti, il giudizio di cassazione ha, per sua natura, la funzione di controllare la difformità della decisione del giudice di merito dalle norme e dai principi di diritto, sicché sono precluse non soltanto le domande nuove, ma anche nuove questioni di diritto, qualora queste postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito che, come tali, sono esorbitanti dal giudizio di legittimità (tra le molte, Cass. n. 31227 del 2019; n. 15196 del 2018).

12. Il quarto e il quinto motivo sono altresì inammissibili.

Va anzitutto ribadito, con riferimento al quarto motivo, che non può configurarsi vizio di motivazione in relazione a questioni di mero diritto. Ciò in quanto il giudice di legittimità è investito, a norma dell’art. 384 c.p.c., del potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, con la conseguenza che, se chiamato a valutare la conformità a diritto della decisione impugnata, la sua valutazione ben può prescindere dalla motivazione che, in punto di diritto, sia contenuta nella sentenza impugnata, restando del tutto irrilevante anche l’eventuale mancanza di questa, quando il giudice del merito sia, comunque, pervenuto ad una esatta soluzione del problema giuridico sottoposto al suo esame (v. ex multis Cass. n. 7880 del 2012; n. 16640 del 2005; n. 11883 del 2003; n. 12753 del 1999).

Nella specie la soluzione data al problema giuridico è pienamente conforme a diritto, tanto da potersi predicare l’inammissibilità anche del quinto motivo, ai sensi dell’art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Non è infatti predicabile alcuna incompatibilità tra intimazione si sfratto per morosità (o domanda di risoluzione per inadempimento) e disdetta per finita locazione, tanto che le due causae petendi, pur tendendo al medesimo fine pratico della cessazione del rapporto, possono coesistere e la prima essere proposta anche dopo il passaggio in giudicato della seconda.

Questa Corte ha invero già chiarito, con indirizzo cui si intende qui dare continuità, che nell’ipotesi in cui, nel corso del procedimento instaurato dal locatore per ottenere la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento del conduttore, intervenga la restituzione dell’immobile per finita locazione, non viene meno l’interesse (e il diritto) del locatore ad ottenere l’accertamento dell’operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per grave inadempimento del conduttore, potendo da tale accertamento derivare effetti a lui favorevoli (v. Cass. n. 34158 del 20/12/2019).

Peraltro, il giudicato formatosi sulla cessazione, per intervenuta scadenza, della locazione non preclude alla parte che ne ha interesse attuale l’esame della domanda di accertamento, con valore di giudicato, dell’operatività di una pregressa causa di risoluzione del contratto per inadempimento grave del conduttore, atteso che qualora più fatti diano diritto, ciascuno come causa autonoma, alla cessazione di un contratto, sussistono altrettante causae petendi e, quindi, azioni, sicché la pronuncia sull’una, passata in cosa giudicata, non preclude l’esame delle altre (v. Cass. 28/11/2008, n. 28416, che ha cassato con rinvio la sentenza di merito che aveva dichiarato cessata la materia del contendere sulla domanda di risoluzione di un contratto di locazione per uso non abitativo a seguito dell’intervenuta convalida della licenza per finita locazione).

13. Lo sono anche, inammissibili, il sesto e il settimo motivo, anch’essi congiuntamente esaminabili per stretta connessione.

Ribadita anche in tal caso l’inammissibilità della censura (sesto motivo) di vizio motivazionale con riferimento a questione processuale, di questa (propriamente proposta con il settimo motivo) ne è altrettanto manifesta l’infondatezza tanto da potersi anche per essa dichiarare l’inammissibilità ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

E’ dirimente in tal senso il rilievo, ricavato da indirizzo consolidato della giurisprudenza di questa Corte, che, nel procedimento per convalida di sfratto, l’opposizione dell’intimato provoca una radicale trasformazione del rito, determinando la cessazione dell’originario rapporto processuale, fondato sulla domanda di convalida, e l’insorgere di un nuovo e diverso rapporto processuale, alla cui base è l’ordinaria domanda di accertamento e di condanna o di risoluzione e di condanna, che può ritenersi implicitamente proposta dal locatore qualora, dopo l’opposizione dell’intimato, prosegua la sua attività processuale finalizzata alla realizzazione della pretesa sostanziale (Cass. 30/09/2015, n. 19525; 25/10/1980, n. 5758; v. anche Cass. 18/11/2005, n. 24460).

Se a ciò si aggiunge la considerazione che l’art. 426 c.p.c. (richiamato dall’art. 667 c.p.c.) attribuisce alle parti una facoltà (quella della “eventuale” integrazione degli atti introduttivi) ma non un onere dal cui mancato assolvimento possa conseguire una decadenza o addirittura una implicita rinuncia alle domande o eccezioni già formulate, è agevole concludere, coordinando i due rilievi, che:

– anche in caso di mancato deposito di memorie ex art. 426 c.p.c., il giudizio a cognizione piena che si apre con l’ordinanza di mutamento di rito ex art. 667 c.p.c., rimane pur sempre retto dalla domanda proposta con l’atto di intimazione di sfratto e contestuale citazione per convalida, sul presupposto che tale domanda non ha contenuto sostanziale diverso da quello di una domanda di risoluzione e che per converso questa può certamente leggersi per implicito in quella;

– a fortiori nessuna conseguenza processuale di sorta può attribuirsi al fatto che, nella memoria ex art. 426 c.p.c., il locatore coltivi la sua domanda di risoluzione pur impropriamente continuandola a qualificare come di “convalida di sfratto”.

14. E’ infine inammissibile anche l’ottavo motivo.

La ricorrente non riproduce né la sentenza di primo grado nella parte in cui avrebbe “confermato” l’ordinanza di immediato rilascio, né il motivo d’appello con il quale sarebbe stata posta la doglianza relativa.

In ogni caso il rilievo sul punto svolto in sentenza è pienamente conforme a diritto e priva di interesse la censura in questa sede proposta.

E’ pacifico invero nella giurisprudenza che l’ordinanza di rilascio ex art. 665 c.p.c. non è impugnabile né è idonea al giudicato poiché non ha carattere irrevocabile e non statuisce in via definitiva sui diritti e sulle eccezioni delle parti, la cui risoluzione è riservata invece alla successiva fase di merito. Ne consegue che una volta sopravvenuta, all’esito della fase di merito, la sentenza dichiarativa della risoluzione, detta ordinanza è destinata ad essere da quella assorbita con conseguente preclusione in appello di ogni questione attinente alla sua validità (v. Cass. n. 12846 del 06/06/2014; n. 1223 del 23/01/2006).

Appare, dunque, del tutto evidente che l’eventuale esplicita conferma (o mancata espressa revoca) dell’ordinanza resa dal giudice di primo grado con la sentenza che pronuncia la risoluzione rimane circostanza priva di alcuna conseguenza processuale e di alcun riflesso di sorta sulla posizione dell’intimato/resistente, dal momento che ogni effetto va comunque ricondotto alla sentenza che dichiara la risoluzione, così come ogni eventuale doglianza.

15. Il ricorso deve in definitiva essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna della ricorrente alla rifusione, in favore della controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.

16. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

PQM

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.100 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 22 dicembre 2021

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