Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Sentenza n.824 del 19/01/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ARIENZO Rosa – Presidente –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. CINQUE Guglielmo – Consigliere –

Dott. AMENDOLA Fabrizio – rel. Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 24582/2018 proposto da:

F.R., domiciliato in ROMA PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato GIOVANNA COGO;

– ricorrente –

contro

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIALE MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato SALVATORE TRIFIRO’, che la rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1163/2017 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 18/08/2017 R.G.N. 225/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 11/11/2020 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per inammissibilità, in subordine rigetto;

udito l’Avvocato GIUSEPPE SOTTILE, per delega verbale Avvocato SALVATORE TRIFIRO’.

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza del 17 gennaio 2005, il Tribunale di Como respinse la domanda – per quanto qui interessa – di F.R. volta all’accertamento dell’illegittimità del contratto di lavoro a tempo indeterminato per il periodo dall’11 ottobre 2003 al 31 dicembre 2003, stipulato con Poste Italiane Spa ai sensi del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, con la seguente causale: “ragioni di carattere sostitutivo correlate alla specifica esigenza di provvedere alla sostituzione del personale inquadrato nell’Area Operativa e addetto al servizio di recapito presso la Regione Lombardia, assente con diritto alla conservazione del posto di lavoro”.

2. Interposto gravame dal lavoratore, lo stesso venne accolto dalla Corte di Appello di Milano con sentenza n. 874 del 2007.

Tale pronuncia è stata cassata con sentenza di questa Corte n. 5286 del 2014, in accoglimento dei primi tre motivi del ricorso per cassazione proposto da Poste Italiane spa, per non avere la Corte territoriale correttamente applicato i parametri di valutazione indicati nella medesima motivazione.

3. In sede di rinvio, la Corte di Appello di Milano, con sentenza del 18 agosto 2017, ha confermato l’originaria pronuncia di rigetto del Tribunale di Como.

La Corte ha ritenuto “confermata dall’istruttoria orale disposta dal Giudice di primo grado… la genuinità delle ragioni sostitutive” poste a fondamento del contratto a termine impugnato, giudicando infondate “le eccezioni circa l’illegittima assunzione delle prove testimoniali da parte del primo giudice atteso che fin dal primo grado Poste Italiane Spa ha fornito quanto meno quella ‘pista probatorià richiesta dalla giurisprudenza al fine di legittimare l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio”.

In ordine alla “questione eccepita dalle parti in merito alla valutazione dei rischi” la Corte ha, innanzitutto, argomentato che le parti attrici in primo grado – tra cui il F. – non hanno “compiutamente sviluppato la questione essendosi limitate a richiamare, in maniera generica, la norma di cui al Decreto n. 368 del 2001, artt. 3 e 4, senza alcuna correlazione alle domande di nullità”.

In ogni caso la Corte milanese ha ritenuto comunque la questione infondata nel merito, atteso che il lavoratore si sarebbe limitato “a contestare non già l’assenza della valutazione del rischio bensì la tardività della prova della detta valutazione”.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso F.R., con 7 motivi; ha resistito con controricorso Poste Italiane Spa.

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115,414,416,434 e 437 c.p.c., artt. 1418,1419 e 1421 c.c., in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3 e al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4.

Si sostiene che sin dal ricorso introduttivo del giudizio era stata specificamente allegata la violazione delle norme da ultimo richiamate perchè i lavoratori istanti non erano stati sottoposti a visita medica per la valutazione dei rischi e che, comunque, anche in appello era stato dedotto che l’apposizione di un termine non è ammessa ove non venga effettuata la valutazione dei rischi; si richiama a sostegno giurisprudenza di legittimità che considera in ogni caso rilevabile d’ufficio la nullità.

Con il secondo motivo si denuncia: “omessa pronuncia su un fatto rilevante del giudizio oggetto di contraddittorio e discussione tra le parti, sempre in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3 ed al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4 (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5)”.

Si rammenta che la società aveva confutato la deduzione in ordine alla valutazione dei rischi producendo un documento che era stato contestato dal F. non solo per la sua tardività ma anche per la inidoneità dello stesso a provare il rispetto delle prescrizioni di legge, mentre la Corte avrebbe “omesso di verificare se esso fosse o meno idoneo a provare il rispetto della disposizione in cui alla art. 3, in argomento in relazione alle prescrizioni di cui al D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4”.

Si evidenzia che “a prescindere dall’ammissibilità o meno della produzione, se la Corte territoriale avesse esaminato il documento in questione avrebbe constatato che, in effetti, esso non riguarda l’ufficio postale di *****, ma un’altra e diversa unità produttiva. Conseguentemente avrebbe dovuto dichiarare la nullità del termine apposto al contratto”.

2. I primi due motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto pertinenti il capo della sentenza che affronta la questione della pretesa violazione del divieto imposto dal D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 3, lett. d), secondo cui l’apposizione del termine al contratto non è ammessa “da parte delle imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi del D.Lgs. n. 626 del 1994, art. 4”.

I motivi censurano entrambe le rationes decidendi che – come riportato nello storico della lite – autonomamente sorreggono la statuizione di rigetto del motivo di gravame sul punto da parte della Corte territoriale: precisamente il primo attinge l’aspetto processuale, in base al quale detta Corte avrebbe ritenuto che, in primo grado, la questione della valutazione dei rischi non sarebbe stata “compiutamente sviluppata”, limitandosi il F., come gli altri ricorrenti, “a richiamare, in maniera generica, la norma di cui al Decreto n. 368 del 2001, artt. 3 e 4, senza alcuna correlazione alle domande di nullità”; il secondo motivo, invece, riguarda la parte della sentenza impugnata in cui la Corte milanese ha ritenuto “in ogni caso” la questione “infondata… nel merito”.

Orbene tale secondo motivo, per come formulato, è inammissibile.

Infatti esso lamenta una “omessa pronuncia su un fatto rilevante del giudizio oggetto di contraddittorio e discussione tra le parti” ed esplicitamente invoca il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

E’ noto che le Sezioni unite di questa Corte (Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 2014) hanno espresso su tale norma i seguenti principi di diritto (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, oltre che dalle Sezioni semplici): a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sè vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.

Ciò posto il motivo in esame risulta largamente irrispettoso di tali enunciati.

In particolare, dalla stessa rubrica si afferma la “rilevanza” del fatto su cui sarebbe stata omessa la pronuncia, piuttosto che la “decisività”, con conseguente mancanza di adeguata argomentazione idonea a spiegare per quale ragione il fatto, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia.

In realtà parte ricorrente non denuncia effettivamente l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, che abbia dato origine alla controversia, quanto piuttosto un fatto processuale e cioè l’omessa “pronuncia” sulla idoneità di un documento a comprovare l’avvenuta valutazione dei rischi, che è cosa chiaramente diversa ed attiene alla valutazione del materiale probatorio che compete al giudice del merito, sottratta, in quanto tale, al sindacato di legittimità.

In definitiva, quindi, parte ricorrente, con il secondo motivo in scrutinio, non riesce a dimostrare che la Corte di Appello ha omesso l’esame di un fatto storico decisivo, essendosi la stessa comunque pronunciata sulla questione, ma, piuttosto, suppone che la Corte del merito non avrebbe esaminato un documento probatorio e ne pretende una nuova e diversa valutazione da parte di questa Corte di legittimità, mediante un confronto con le risultanze istruttorie non consentito in questa sede.

Dall’inammissibilità del secondo motivo deriva l’inammissibilità anche del primo per carenza di interesse all’impugnazione sul punto, atteso che l’interesse ad impugnare deve sussistere anche al momento della decisione (Cass. SS.UU. n. 10553 del 2017; conf. Cass. n. 26641 del 2018).

Infatti, secondo una giurisprudenza consolidata di questa Corte, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l’una dall’altra, e ciascuna, di per sè sola, idonea a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossi con l’impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurata, privando in tal modo l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009). Pertanto, nel caso di specie, poichè l’indicata ragione “di merito” della decisione “resiste” all’impugnazione proposta dal ricorrente è del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura contenuta nel primo motivo di ricorso, perchè l’eventuale accoglimento di essa non condurrebbe giammai alla cassazione della sentenza gravata.

3. Il terzo mezzo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 101,115,244,253 e 416 c.p.c., in relazione al D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1, per avere la Corte territoriale ritenuto infondate le eccezioni circa l’illegittima assunzione delle prove testimoniali. Si eccepisce che “la prova testimoniale (di Poste Italiane) ammessa ed espletata dal giudice di primo grado andava dichiarata inammissibile” e che sarebbe stato violato il contraddittorio per mancata ammissione delle istanze istruttorie formulate dal ricorrente nel ricorso introduttivo del giudizio.

Con il quarto motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, si denuncia l’omessa pronuncia su un fatto rilevante per il giudizio oggetto di discussione tra le parti in quanto la sentenza impugnata non avrebbe spiegato perchè non sarebbero state ammesse le prove richieste dal F. in ordine alla circostanza che questi non avesse sostituito dipendenti assenti con diritto alla conservazione del posto di lavoro.

4. Le censure non possono trovare accoglimento, atteso che tendono chiaramente ad una rivalutazione della quaestio facti di competenza del giudice del merito circa la prova della sussistenza o meno delle ragioni poste a fondamento del termine, anche mediante doglianze attinenti all’ammissibilità ed alla rilevanza della prova che sfuggono al sindacato diretto di questa Corte.

Infatti spetta esclusivamente al giudice del merito valutare gli elementi di prova già acquisiti e la pertinenza di quelli richiesti – senza che possa neanche essere invocata la lesione dell’art. 6, comma 1, della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo al fine di censurare l’ammissibilità di mezzi di prova concretamente decisa dal giudice nazionale (Cass. n. 13603 del 2011; Cass. n. 17004 del 2018) – con una valutazione che non è sindacabile nel giudizio di legittimità al di fuori dei rigorosi limiti imposti dalla novellata formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, così come rigorosamente interpretato dalle Sezioni unite del 2014 prima richiamate.

Ancora di recente si è ribadito che, in tema di garanzia del giusto processo, non può predicarsi, tanto alla stregua delle norme di rango costituzionale, quanto ai sensi dell’art. 6 CEDU, un obbligo incondizionato del giudice di dar corso all’assunzione di qualsivoglia mezzo istruttorio articolato dalla parte, a prescindere da una valutazione di rilevanza dei fatti da provare, atteso che, da un lato, l’art. 6 cit., pur garantendo il diritto ad un processo equo, non contiene alcuna disposizione riguardante il regime di ammissibilità delle prove o sul modo in cui esse dovrebbero essere valutate, trattandosi di questioni rimesse alla regolamentazione della legislazione nazionale, dall’altro, la necessità, da parte del giudice, di scrutinare la rilevanza ed ammissibilità dei singoli mezzi proposti dalla parte si coniuga ed è coerente con i principi della ragionevole durata del processo, con cui collide l’espletamento di attività processuali non necessarie o superflue ai fini della pronuncia (Cass. n. 16517 del 2020).

In particolare, per risalente giurisprudenza di legittimità, la doglianza che lamenta la mancata ammissione di mezzi istruttori, così come il mancato esercizio dei poteri officiosi, è sussumibile nell’ambito del vizio di motivazione, di cui deve avere forma e sostanza (Cass. n. 16997 del 2002; Cass. n. 15633 del 2003) e può essere denunciato per cassazione solo nel caso in cui essa abbia determinato l’omissione su di un fatto decisivo della controversia e, quindi, ove la prova non ammessa ovvero non esaminata in concreto sia idonea a dimostrare circostanze tali da invalidare, con un giudizio di certezza e non di mera probabilità, l’efficacia delle altre risultanze istruttorie che hanno determinato il convincimento del giudice di merito, di modo che la ratio decidendi venga a trovarsi priva di fondamento (Cass. n. 11457 del 2007; Cass. n. 4369 del 2009; Cass. n. 5377 del 2011).

Tanto in conformità al più generale principio che la nullità (e men che meno l’illegittimità) di un atto riguardante acquisizioni probatorie – sia che esso le ammetta, sia che le escluda – non incide sulla sentenza che non si fondi su di esso e non comporta, in ogni caso, la nullità (derivata) della stessa, atteso che i rapporti tra atto istruttorio nullo e sentenza non possono definirsi in termini di eventuale nullità derivata di quest’ultima, quanto, piuttosto, in termini di giustificatezza o meno delle statuizioni in fatto della sentenza stessa, la quale, cioè, in quanto fondata sulla prova nulla (che quindi non può essere utilizzata) o sulla esclusione di una prova con provvedimento nullo, è priva di (valida) motivazione, non già nulla a sua volta: infatti l’atto istruttorio, puramente eventuale, non fa parte della indefettibile serie procedimentale che conduce alla sentenza e il cui vizio determina la nullità, ma incide soltanto sul merito delle valutazioni in fatto compiute dal giudice, sindacabili in sede di legittimità esclusivamente nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (cfr. Cass. n. 17247 del 2006, Cass. n. 19072 del 2004, Cass. n. 18857 del 2014, in motivazione), naturalmente tempo per tempo vigente.

In definitiva le censure in esame, trascurando tali principi e mancando di enucleare il fatto controverso e decisivo secondo il vigente testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, invocano una diversa ricostruzione della vicenda storica in ordine alla sussistenza fattuale della causale giustificativa, cui si sarebbe giunti attraverso una istruttoria condotta diversamente in entrambi i gradi di giudizio, così scivolando “sul piano dell’apprezzamento di merito, che presupporrebbe un accesso diretto agli atti e una loro delibazione, in punto di fatto, incompatibili con il giudizio innanzi a questa Corte Suprema” (in termini, Cass. n. 16346 del 2016).

5. Il quinto motivo lamenta la “violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 1”, assumendo che “è nozione di fatto che rientra nella comune esperienza che “la carenza di organico” (rilevata dalla Corte territoriale) costituisca una esigenza “di natura organizzativa” e non certamente di “natura sostitutiva”, atteso che nella seconda il presupposto di fatto consiste nella assenza dal servizio di un lavoratore che sia già alle dipendenze del datore di lavoro”. Si critica la valutazione operata dalla Corte milanese della deposizione testimoniale di D.S.C..

Il motivo, per come formulato, è inammissibile.

Invero, con riferimento alla violazione e falsa applicazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, il vizio va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012).

In particolare, il vizio di cui dell’art. 360 c.p.c., n. 3, ricorre o non ricorre per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (tra le molteplici, Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007); sicchè il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata perchè è quella che è stata operata dai giudici del merito; al contrario, laddove si critichi la ricostruzione della vicenda storica quale risultante dalla sentenza impugnata, si è fuori dall’ambito di operatività dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 e la censura è attratta inevitabilmente nei confini del sindacabile esclusivamente ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nella formulazione tempo per tempo vigente, vizio che appunto postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti.

Nella specie parte ricorrente, lungi dall’individuare l’errore di diritto in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale, nella sostanza deduce che la stessa male avrebbe interpretato le risultanze istruttorie, nel ritenere provata la causale sostitutiva, richiamando anche il contenuto di una deposizione testimoniale.

6. Parimenti inammissibile il sesto motivo con cui si denuncia ancora “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 112,115,116 e 384 c.p.c.”, criticando la sentenza impugnata nella valutazione dell’istruttoria orale e per non avere effettuato la “valutazione di congruità” tra le giornate di assenza dal servizio dell’anonimo lavoratore e le giornate dei lavoratori con contratto a termine applicati presso l’Ufficio Postale di *****.

La censura, come quella che la precede, non individua l’errore di diritto secondo le modalità di deduzione imposte da questa Corte, ma piuttosto pretende un diverso apprezzamento dei fatti valutati da chi ha il dominio del merito, anche sotto forma di pretesa violazione dell’art. 384 c.p.c..

Tanto è confermato dall’improprio riferimento sia all’art. 2697 c.c. sia agli artt. 115 e 116 c.p.c..

Per il primo aspetto la violazione dell’art. 2697 c.c, è censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne fosse onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (Cass. n. 15107 del 2013; Cass. n. 13395 del 2018), mentre nella specie parte ricorrente critica l’apprezzamento operato dai giudici del merito circa la “genuinità” dell’esigenza sostitutiva, opponendo una diversa valutazione.

Per l’altro aspetto, in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, più volte richiamato (tra le altre v. Cass. n. 23940 del 2017).

7. Il settimo motivo denuncia ancora una “omessa pronuncia su un fatto rilevante ai fini del giudizio ed oggetto di confronto tra le parti” perchè la Corte distrettuale non avrebbe accertato “il numero dei lavoratori a tempo indeterminato applicati presso l’U.P. di ***** e se il portalettere che sarebbe stato sostituito dal ricorrente, secondo le generiche risultanze istruttorie, si sia assentato dal servizio per un numero di giornate almeno pari alla durata del contratto di lavoro del ricorrente”.

Anche tale doglianza non può trovare accoglimento, per le ragioni già esposte al paragrafo 2 della presente motivazione, in quanto formulata senza il rispetto degli enunciati posti dalle Sezioni Unite di questa Corte nell’interpretazione dell’art. 360 c.p.c., novellato n. 5, proponendo non la denuncia di omesso esame di un fatto storico realmente decisivo, quanto piuttosto la mancata pronuncia su fatto meramente “rilevante”, per di più rappresentato dal mancato esame di deduzioni in punto di risultanze istruttorie.

8. Conclusivamente il ricorso non può che essere respinto, con spese che seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020).

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in Euro 4000,00 oltre Euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 20012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 11 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2021

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