LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA CIVILE
SOTTOSEZIONE T
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ESPOSITO Antonio Francesco – Presidente –
Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –
Dott. CROLLA Cosmo – Consigliere –
Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –
Dott. LO SARDO Giuseppe – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 1065-2020 proposto da:
F.M., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZALE CLODIO 32/A, presso lo studio dell’avvocato LIDIA SGOTTO CIABATTINI, rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE NEBBIA;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, *****;
– intimata –
avverso la sentenza n. 330/1/2019 della COMMISSIONE TRIBUTARIA REGIONALE del MOLISE, depositata il 13/05/2019;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non partecipata del 04/11/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MICHELE CATALDI.
RILEVATO
che:
1. F.M. propone ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, avverso la sentenza di cui all’epigrafe, con la quale la Commissione tributaria regionale del Molise ha accolto l’appello dell’Agenzia delle Entrate avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Campobasso, che aveva accolto il ricorso del medesimo contribuente contro l’avviso d’accertamento sintetico emesso nei suoi confronti, per l’anno d’imposta 2008, in materia di Irpef, con il quale, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, commi 4 e ss., sulla base degli indici di capacità contributiva e di incrementi patrimoniali, era stata rettificato in aumento il suo reddito imponibile.
L’Agenzia delle Entrate è rimasta intimata.
La proposta del relatore è stata comunicata, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale, ai sensi dell’art. 380-bis c.p.c..
Il ricorrente ha depositato memoria.
CONSIDERATO
che:
1.Con il primo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione della L. n. 890 del 1982, artt. 4 e 6, e il D.P.R. n. 665 del 1982, art. 8; in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di un fatto storico decisivo ed oggetto del contraddittorio; in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 51,53 e 20.
Tutte le predette censure convergono sulla rilevazione che il duplicato di avviso di ricevimento rilasciato dall’ufficio postale e depositato in secondo grado dall’Agenzia per documentare il perfezionamento della notifica a mezzo dell’appello al contribuente, dichiarato contumace nel giudizio innanzi la CTR, sarebbe inidoneo a tal fine, perché non riprodurrebbe “tutti gli elementi che debbono essere contenuti nell’avviso di ricevimento, tra cui una specifica e circoscritta indicazione degli atti d’ufficio recante la sottoscrizione su cui il duplicato si fonda”.
Il motivo è inammissibile per plurime ragioni, ciascuna sufficiente alla relativa declaratoria.
E’ infatti inammissibile la mescolanza e la sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c., comma 1, non essendo consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili (Cass., 23/10/2018, n. 26874), poiché l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 c.p.c., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo, inammissibilmente, al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass., 23/09/2011,n. 19443. Nello stesso senso si veda già Cass., 11/04/2008, n. 9470).
Il mezzo, nel suo complesso, non consente di scindere le plurime specie di censure cumulate (Cass., 11/04/2018, n. 8915; nello stesso senso cfr. Cass., 23/04/2013, n. 9793), atteso che la medesima contestazione – “l’inidoneità del documento prodotto dall’Amministrazione a fungere da duplicato dell’avviso di ricevimento, con riferimento ai requisiti (…) ” di legge – viene nel medesimo contesto profilata tanto come violazione di legge (sostanziale e processuale) che (“altresì”) come “fatto” il cui omesso esame determinerebbe il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (peraltro anche in violazione della consolidata interpretazione di quest’ultima disposizione, secondo cui il “fatto” deve essere inteso in senso storico, non potendo coincidere con deduzioni difensive della parte e quindi neppure con un giudizio di “inidoneità” giuridica: cfr. Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 26305 del 18/10/2018).
Il motivo difetta altresì della necessaria specificità, atteso che dalla sua lettura neppure si ricava univocamente quali siano quegli elementi mancanti che renderebbero il duplicato in questione “indioneo” a documentare il contenuto dell’avviso di ricevimento in questione, né quale sia la natura di tale “inidoneità”, ovvero se si contesti un vizio formale o di contenuto dell’atto in questione.
Tanto premesso in ordine alla rilevata inammissibilità, la censura è peraltro comunque infondata.
Infatti, in tema di contenzioso tributario, l’appello notificato a mezzo posta è ammissibile ove l’appellante depositi, in caso di smarrimento, il duplicato dell’avviso di ricevimento rilasciato dall’ufficio postale, che è il solo documento idoneo a provare sia la data della consegna che la persona nelle cui mani è stata eseguita. (Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 23546 del 18/11/2016, ex plurimis).
Pertanto, in tema di notifiche a mezzo posta, in applicazione analogica del D.P.R. n. 655 del 1982, art. 8, riguardante l’avviso di ricevimento, in caso di smarrimento o distruzione della comunicazione di avvenuto deposito in giacenza per il caso di mancato recapito del plico al destinatario (cd. CAD), l’interessato può richiedere all’Ufficio postale il rilascio di un duplicato, il quale, al pari del duplicato dell’avviso di ricevimento, ha natura di atto pubblico, alla stessa stregua dell’originale, e fa piena prova, ai sensi dell’art. 2700 c.c., in ordine alle dichiarazioni delle parti e agli altri fatti che l’agente postale attesta essere avvenuti in sua presenza, sicché il destinatario che intenda contestare l’avvenuta notificazione ha l’onere di proporre querela di falso nei confronti di detto atto (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 22348 del 15/10/2020; conformi, ex plurimis: Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14574 del 06/06/2018).
Quindi, in tema di notifiche a mezzo posta, in caso di smarrimento o distruzione dell’avviso di ricevimento, l’avvenuta notificazione può essere provata attraverso il duplicato rilasciato dall’Ufficio postale ai sensi del D.P.R. n. 655 del 1982, art. 8 (non abrogato né modificato, neanche implicitamente, a seguito dell’emenda della L. n. 890 del 1982, art. 6, introdotta dalla L. n. 190 del 2014, art. 1, comma 97-bis, lett. e), come modificato dalla L. n. 205 del 2017, art. 1, comma 461); in esso deve però essere necessariamente indicato il soggetto che ha ricevuto il plico, al fine di porre il giudice in condizione di verificare in quali esatti termini il recapito dell’atto si sia perfezionato (Cass. Sez. 3 -, Sentenza n. 2551 del 30/01/2019; conformi, ex plurimis, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14574 del 06/06/2018).
Ebbene, nel caso di specie, il duplicato in questione (in base allo stesso stralcio citato nel ricorso), “visti gli atti d’ufficio”, indica che l’avviso è stato sottoscritto, le generalità di chi lo ha firmato e la veste (“incaricato”) nella quale quest’ultimo ha ricevuto la consegna dell’atto, e la data nella quale la firma è stata apposta. Ove il contribuente avesse inteso negare la veridicità di tali attestazioni avrebbe pertanto dovuto proporre querela di falso (cfr. cit. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 22348 del 15/10/2020; conformi, ex plurimis: Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 14574 del 06/06/2018), ciò che non ha dedotto e dimostrato di aver fatto.
Tanto meno, poi, potrebbe ritenersi che l’inefficacia del duplicato possa derivare dalla circostanza che esso utilizza la formula “visti gli atti d’ufficio” senza ulteriori specificazioni, atteso che il D.P.R. n. 655 del 1982, art. 8, comma 3, dispone che “In caso di smarrimento dell’avviso l’interessato non ha diritto ad alcuna indennità, ma può richiedere alla Amministrazione che gli venga rilasciato gratuitamente un duplicato dell’avviso stesso firmato dal destinatario o munito della dichiarazione di cui al comma 1.” e considerato che questa Corte, intrepretando tale disposizione, ha già chiarito che “Deve, però, rilevarsi che il Regolamento postale, art. 8, non può essere interpretato nel senso che il duplicato dell’avviso di ricevimento deve essere nuovamente sottoscritto dal destinatario, poiché tale interpretazione equivale a richiedere una seconda notifica. La norma regolamentare afferma che l’ufficio postale rilascia un duplicato dell’avviso di ricevimento sottoscritto dal destinatario, dovendosi riferire il requisito della sottoscrizione all’originario avviso di ricevimento e non al duplicato, che non può che basarsi sul registro di consegna attestante l’avvenuta ricezione.”. Pertanto, la formula utilizzata dall’Ufficio postale è idonea e sufficiente a dare univocamente conto dell’esistenza, negli atti dallo stesso formati e detenuti in relazione a quella concreta fattispecie di notifica cui si riferisce, dei dati indicati nel duplicato.
2. Con il secondo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e dell’art. 2729 c.c., assumendo, nella sostanza, che la sentenza impugnata, pur avendo dato atto che dall’analisi del conto corrente del contribuente risultava che egli era in possesso di una consistente disponibilità liquida, ne avrebbe escluso la rilevanza quale dimostrazione di pregressa e legittima disponibilità finanziaria. Ribadisce invece il ricorrente che egli aveva disinvestito titoli per Euro 150.000,00 il 30 aprile 2008, ovvero in data antecedente a quella in cui ha sostenuto le spese per gli incrementi patrimoniali.
2.1. Il motivo è inammissibile innanzitutto perché non adempie l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726). Infatti, come questa Corte ha in più occasioni avuto modo di chiarire “detta disposizione, oltre a richiedere l’indicazione degli atti e dei documenti, nonché dei contratti o accordi collettivi, posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale tali fatti o documenti risultino prodotti, prescrizione, questa, che va correlata all’ulteriore requisito di procedibilità di cui all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, (…) va altreì ribadito che l’adempimento dell’obbligo di specifica indicazione degli atti e dei documenti posti a fondamento del ricorso di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, previsto a pena d’inammissibilità, impone quanto meno che gli stessi risultino da un’elencazione contenuta nell’atto, non essendo a tal fine sufficiente la presenza di un indice nel fascicolo di parte (Cass. 6 ottobre 2017, n. 23452).
In breve, il ricorrente per cassazione, nel fondare uno o più motivi di ricorso su determinati atti o documenti, deve porre la Corte di cassazione in condizione di individuare ciascun atto o documento, senza effettuare soverchie ricerche.” (Cass. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 1235 del 2019, in motivazione).
Nel caso di specie il ricorrente si limita a richiamare l’allegazione, al ricorso introduttivo, di un estratto-conto bancario relativo all’anno 2008, mentre non fa menzione della produzione, nei gradi di merito, né di documenti idonei a determinare quantum e quando delle operazioni in questione, con particolare riferimento agli incrementi patrimoniali rappresentati dagli acquisti di terreni nei successivi anni 2009 e 2011 (sulla cui specifica rilevanza v. infra); né dell’avviso d’accertamento.
Non viene quindi indicato se, ed in che fase e grado del giudizio di merito, i documenti in questione siano stati prodotti. Tanto meno, nel corpo del ricorso, essi sono riprodotti, anche solo in parte; né, in calce al ricorso, viene data puntuale menzione della loro allegazione specifica.
2.2. Il motivo è inoltre inammissibile perché non attinge la ratio decidendi specifica della sentenza impugnata, che ha premesso (al punto 5.3.1.) che il contribuente aveva sostenuto che la somma derivante dal disinvestimento di titoli per 150.000,00 era stata utilizzato per l’acquisto di cinque terreni. Tanto premesso, la CTR (al punto 6.2.) ha poi dato atto che l’Amministrazione aveva riconosciuto che la spesa relativa all’acquisto del terreno avvenuto nel 2008 era stata sostenuta dal contribuente con una parte di tale somma, tanto che aveva spontaneamente rideterminato il reddito accertato sinteticamente, riducendolo. Tuttavia, per gli incrementi patrimoniali successivi all’anno 2008 (ovvero per i quattro acquisti immobiliari avvenuti negli anni 2009-2011), la CTR ha invece esplicitamente valutato che ” l’Agenzia delle entrate ha dato effettiva prova del mancato utilizzo delle somme smobilizzate”, esplicitando subito dopo, a supporto di tale accertamento, il relativo giudizio di fatto sulle risultanze istruttorie.
Il secondo motivo di ricorso non attinge puntualmente tale argomentazione, esprimendo isolate considerazioni sulle risultanze contabili, senza metterle in correlazione con l’articolata valutazione della loro specifica rilevanza ai fini dei distinti incrementi patrimoniali. Ed è noto che in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la “ratio decidendi” posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017).
2.3. Ancora, il motivo è inammissibile nella parte in cui, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, pretenda di attingere il merito della valutazione effettuata dal giudice d’appello sulle predette circostanze, mirando, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. Sez. U -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019).
2.4. Inammissibile è altresì la denuncia, assolutamente generica, della violazione dell’art. 2729 c.c., tanto più a fronte della univoca motivazione con la quale la CTR esplicita di aver escluso la riconducibilità agli incrementi patrimoniali del periodo 2009-2011 delle somme disinvesistite nel 2008 non per effetto di presunzioni o comunque di indizi e prova indiretta (e neppure perché il contribuente non abbia fornito elementi sintomatici del fatto che ciò sia accaduto o sia potuto accadere), ma perché l’istruttoria ha fatto emergere la prova diretta (“effettiva”) che ciò non è accaduto.
3. Con il terzo motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per la sostanziale assenza della sua motivazione, che assume meramente apparente, in particolare in ordine alle questioni già oggetto del secondo motivo.
Il motivo è infondato.
Infatti “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; conforme, ex multis, Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017). Nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di specie, nel quale la motivazione è senz’altro superiore alla soglia del c.d. “minimo costituzionale”, argomentando in maniera non contraddittoria e comprensibile le ragioni per cui ha ritenuto, in fatto, che sussistesse la prova che le somme disinvestite non erano state utilizzate per gli incrementi patrimoniali controversi, se non nei limiti nei quali la stessa Amministrazione aveva riconosciuto tale coincidenza. Il riferimento alla documentazione contabile del conto corrente esclude peraltro la pretesa insufficienza della c.d. “parte dinamica” della motivazione.
E’ invece inammissibile il motivo nella parte in cui, sezionando singoli elementi del ragionamento decisorio di cui allo specifico tratto della motivazione considerato, pretenda di censurarne il contenuto oltre la specifica ratio decidendi cui è stato circoscritto dalla CTR (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 19989 del 10/08/2017) e, comunque, di attingere, tramite la denuncia dell’errore in procedendo, il merito delle valutazioni operate in fatto dal giudice d’appello (Cass. Sez. U -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019).
4. Con il quarto motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e dell’art. 7 t.u.i.r..
Nella sostanza il ricorrente assume che ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, precedente alla novella di cui al D.L. n. 78 del 2010, art. 22, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 122 del 2010, nel reddito dell’anno d’imposta oggetto dell’accertamento (2008) non potrebbe essere estesa la quota costante relativa ad incrementi patrimoniali avvenuti nei cinque anni successivi (nel caso di specie gli acquisti immobiliari intervenuti nel 2009 e nel 2011). Tanto più, aggiunge il ricorrente, che per effetto della predetta novella, applicabile dell’anno d’imposta 2009, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4, si riferisce esclusivamente alle spese sostenute nel corso del periodo d’imposta e non prevede più la presunzione che esse siano state sostenute, salvo prova contraria, con redditi conseguiti, in quote costanti, nell’anno in cui sono state effettuate e nei quattro precedenti.
4.1. Il motivo, concentrato sull’imputabilità delle spese sostenute negli anni 2009 e 2011, è inammissibile, perché non adempie l’onere di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di specifica indicazione, a pena d’inammissibilità del ricorso, degli atti processuali e dei documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché dei dati necessari all’individuazione della loro collocazione quanto al momento della produzione nei gradi dei giudizi di merito (Cass. 15/01/2019, n. 777; Cass. 18/11/2015, n. 23575; Cass., S.U., 03/11/2011, n. 22726), relativamente all’accertamento ed alla documentazione eventualmente relativa alla movimentazione contabile ed agli incrementi patrimoniali del 2009 e del 2011. Vanno qui integralmente richiamate le argomentazioni di cui al punto 2.1. che precede.
4.2. Il motivo è inoltre infondato.
Giova premettere che, come assume lo stesso ricorrente, “In materia di accertamento sintetico dei redditi, il D.L. n. 78 del 2010, art. 22, comma 1, conv. in L. n. 122 del 2010, ha disposto, con specifica norma di diritto transitorio, che le modifiche al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, operano in relazione agli accertamenti relativi ai redditi per i quali il termine di dichiarazione non è ancora scaduto alla data di entrata in vigore del citato art. 22, e, quindi, dal periodo d’imposta 2009.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 15760 del 07/06/2021). E questa Corte ha già avuto di applicare tale principio a fattispecie nelle quali l’accertamento sintetico impugnato era relativo ad un anno d’imposta antecedente al 2009, ma comprendeva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, ante novella, quote annuali costanti di incrementi patrimoniali la cui spesa era stata sostenuta in anni successivi (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 12207 del 16/05/2017, in motivazione, con riferimento ad un accertamento sintetico svolto per il periodo di imposta 2007, che aveva preso in considerazione le spese per incrementi patrimoniali sostenute nel 2009, 2010 e 2011, attribuendole pro quota anche a tale anno, e per il quale il contribuente sosteneva l’insanabile contrasto con la nuova formulazione della stessa norma e l’ipotetica possibilità di doppia imposizione).
Premessa pertanto l’applicabilità del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5, ante novella, va ricordato che “In tema di accertamento con metodo cd. sintetico, è legittima l’applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 5 (nel testo antecedente alla modifica apportata dal D.L. n. 78 del 2010, art. 22, conv. in L. n. 122 del 2010) il quale reca una presunzione “iuris tantum” di favore per il contribuente, secondo cui la spesa per incrementi patrimoniali rilevata dall’Ufficio si presume sostenuta con redditi conseguiti non solo nell’anno in cui è effettuata, ma già a partire dai cinque anni precedenti, in misura costante, ferma restando, peraltro, la facoltà per il contribuente stesso di provare che il maggior reddito è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta.” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 3403 del 06/02/2019).
Tanto premesso, la CTR, nel caso di specie, non si è discostata da tali principi.
Solo per completezza, peraltro, giova aggiungere che l’ipotetico rischio di doppia imposizione, conseguente al meccanismo normativo richiamato ed alla sua evoluzione, è stata meramente ventilata nel ricorso, senza riferimento specifico e concreto al caso sub iudice.
5.Con il quinto motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e la falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, e dell’art. 2729 c.c..
Assume nella sostanza il ricorrente che non sarebbero congrui gli indici normativi “esorbitanti” di commisurazione della capacità contributiva determinati dal “Redditometro” in ragione del possesso di automobili ed abitazioni, atteso che i costi di gestione relativi a questi ultimi sarebbero stati invece ampiamente inferiori, in base a Tabelle ACI e ad alcune spese correlate all’abitazione.
Il motivo è infondato.
Infatti, è stato chiarito che ” In tema di accertamento in rettifica delle imposte sui redditi delle persone fisiche, la determinazione effettuata con metodo sintetico, sulla base degli indici previsti dai decreti ministeriali del 10 settembre e 19 novembre 1992, riguardanti il cd. redditometro, dispensa l’Amministrazione da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, sicché è legittimo l’accertamento fondato su essi, restando a carico del contribuente, posto nella condizione di difendersi dalla contestazione dell’esistenza di quei fattori, l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore. ” (Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 27811 del 31/10/2018; conformi, ex plurimis, Cass. Sez. 5, Sentenza n. 9539 del 19/04/2013; Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16912 del 10/08/2016). Dunque la presenza di incrementi patrimoniali e la disponibilità di determinati beni – indice di ricchezza dispensano l’Amministrazione finanziaria da qualunque ulteriore prova rispetto all’esistenza dei fattori-indice della capacità contributiva, trasferendo al contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto non esiste o esiste in misura inferiore (Cfr. Cass. Sez. V, n. 16912 del 10/8/2016, cit.; Cass. n. 17793 del 19/7/2017; Cass. n. 27811 del 31/10/2018; Cass. n. 17534 del 28/06/2019; Cass. Ordinanza 11 dicembre 2020, n. 28265, in motivazione; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 23469 del 2020, in motivazione; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 1243 del 2020; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 17859 del 2021, in motivazione, in particolare ai punti 3.1. e 3.2.; Cass. Sez. 5, Ordinanza n. 19180 del 2021, in motivazione).
Pertanto, è stato ritenuto che “In tema di accertamento dei redditi con metodo sintetico, gli indici presuntivi di cui al D.M. 10 settembre 1992, art. 1, come stabilito dal successivo art. 2, sono superati se il contribuente dimostra che per lo specifico bene o servizio “sopporta” solo in parte le spese, dovendosi attribuire valenza, atteso il pregnante significato del verbo “sopportare”, non alla situazione formale del pagamento, bensì alla prova concreta della provenienza delle somme impiegate.” (Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21143 del 19/10/2016).
A tali principi si è uniformata la CTR nel ritenere che la contestazione della congruità degli indici normativi di commisurazione della spesa di gestione dei beni immobili o mobili registrati, definiti nel ricorso “abnormi”, non equivalesse alla prova contraria della quale era gravato il contribuente (relativa alla dimostrazione dell’inesistenza, totale o parziale, del maggior reddito attribuito dall’Ufficio sulla base degli indici di capacità contributiva, per l’inesistenza dei fattori di spesa o la sopportazione solo parziale di quest’ultima, o per la provenienza da redditi esenti o già sottoposti ad imposizione delle somme impiegabili per affrontarla).
In sintesi, non è in discussione che il contribuente possa fornire la prova contraria in ordine all’inesistenza del fattore di spesa, ma non può pretendere, come si ricava nella sostanza dal motivo, di sostituire al relativo indice normativo, sul presupposto della sua “abnormità”, una rideterminazione dei costi di gestione dei medesimi beni basata su “elementi di calcolo” e “tabelle ” che costituiscano parametri presuntivi diversi da quelli predisposti dalle norme in materia, o fondati su una mera e parziale selezione di alcune spese (tassa smaltimento rifiuti ed utenze) correlabili all’abitazione.
6. Con il sesto motivo il contribuente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza impugnata per la sostanziale assenza della sua motivazione, che assume meramente apparente, in particolare in ordine alla questione relativa all’uso promiscuo delle autovetture il cui possesso è stato considerato indice di capacità contributiva.
Il motivo è infondato.
Infatti “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione.” (Cass., Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014; conforme, ex multis, Cass., Sez. 3 -, Sentenza n. 23940 del 12/10/2017). Nessuna di tali ipotesi ricorre nel caso di specie, nel quale la CTR ha argomentato che la deduzione dell’uso promiscuo dei mezzi “e’ assolutamente generica, non provata ed effettuata addirittura in modo ipotetico.”, con motivazione senz’altro superiore alla soglia del c.d. “minimo costituzionale”, non contraddittoria e comprensibile.
Il motivo in decisione, peraltro, conferma la stessa considerazione della CTR, quando ricorda che la questione era stata posta nell’atto introduttivo “a titolo d’esempio”.
Il riferimento alla mancanza di prova (neppure specificamente contradetta nel motivo) rende poi logicamente incomprensibile, oltre che infondata, la deduzione della pretesa insufficienza della c.d. “parte dinamica” della motivazione.
E’ pure inammissibile il motivo nella parte in cui pretenda di attingere, tramite la denuncia dell’errore in procedendo, il merito delle valutazioni operate in fatto dal giudice d’appello (Cass. Sez. U -, Sentenza n. 34476 del 27/12/2019).
7. Nulla sulle spese, essendo rimasta intimata l’Agenzia.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 4 novembre 2021.
Depositato in Cancelleria il 17 gennaio 2022