Corte di Cassazione, sez. III Civile, Ordinanza n.1584 del 19/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SESTINI Danilo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – rel. Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 4157/2019 proposto da:

Divalsonda s.r.l., in persona dell’amministratore unico, elettivamente domiciliata in Roma, Via Germanico 24, presso lo studio dell’avv. Ubaldo Cipollone, che la rappresenta e difende unitamente all’avv. Renzo Colantonio;

– ricorrente –

contro

G.D.N., e R.E., elettivamente domiciliati in Roma, Via Paolo Emilio 34, presso lo studio dell’avv. Quirino D’Angelo, che li rappresenta e difende unitamente all’avv. Giovanni di Bartolomeo;

– controricorrenti –

nonché

Ro.An.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 2230/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA, depositata il 01/12/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 26/10/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FRANCESCO MARIA CIRILLO.

FATTI DI CAUSA

1. G.D.N. ed R.E. convennero in giudizio, davanti al Tribunale di Pescara, Ro.An. e la s.r.l. Divalsonda, chiedendo che fosse dichiarato inefficace nei loro confronti, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’atto del 30 aprile 2009 col quale il Ro. aveva venduto alla seconda un bene immobile di sua proprietà.

A sostegno della domanda esposero, tra l’altro, che il Ro. era debitore nei loro confronti per due prestiti (di Euro 73.500 e 60.000) oggetto di non contestate ricognizioni di debito; che il G., fideiussore del Ro. nei confronti di un’obbligazione da questi contratta con la Banca popolare di Puglia e Basilicata, sarebbe stato chiamato a ripianare il debito verso quest’ultima; e che l’immobile era stato venduto ad un prezzo vile rispetto al suo effettivo valore.

Si costituirono in giudizio entrambi i convenuti, chiedendo il rigetto della domanda.

Il Tribunale rigettò la domanda.

2. La pronuncia è stata impugnata dagli attori soccombenti e la Corte d’appello di L’Aquila, con sentenza del 1 dicembre 2018, in riforma della decisione del Tribunale, ha accolto la domanda, ha dichiarato inefficace nei confronti degli appellanti, ai sensi dell’art. 2901 c.c., l’atto di compravendita intercorsa tra il Ro. e la s.r.l. Divalsonda e ha condannato gli appellati in solido alla rifusione delle spese dei due gradi di giudizio.

A sostegno della propria decisione la Corte abruzzese ha innanzitutto osservato che non era stato impugnato il capo di sentenza col quale il Tribunale aveva accertato, pur respingendo la domanda, la sussistenza dell’eventus damni, conseguente al fatto che il bene immobile venduto era l’unico cespite che costituiva il patrimonio del Ro.. Ragione per cui erano da considerare in contestazione la consapevolezza di arrecare un danno in capo al venditore e la scientia damni in capo al terzo acquirente.

Ciò detto, la Corte territoriale ha affermato che la consapevolezza da parte del Ro. era fuori discussione, per una serie di convergenti ragioni.

L’immobile, intanto, costituiva l’intero patrimonio del debitore e risultava essere stato venduto in gran fretta. Poiché era pacifico che il Ro. aveva ricevuto dagli attori la somma complessiva di Euro 139.500 e che aveva sottoscritto atti di riconoscimento di debito in loro favore, il contratto preliminare era stato stipulato dopo soli quindici giorni successivi alla scadenza della prima rata di debito; il venditore, cioè, si era impegnato a restituire ai mutuanti la somma di Euro 1.500 mensili a decorrere dal 30 gennaio 2009, e quel riconoscimento era stato seguito dal conferimento dell’incarico per la vendita del bene, per cui nessuna rata era stata realmente da lui pagata.

Quanto al prezzo di vendita, la sentenza ha affermato che gli appellanti avevano dimostrato il valore locativo dell’immobile e che, assumendo quel valore come parametro, la vendita era stata realizzata al prezzo di Euro 250.000, inferiore di circa il 38 per cento rispetto al prezzo di mercato. Neppure era stata poi offerta alcuna prova documentale che gli assegni bancari prodotti in copia fossero stati negoziati, per cui la circostanza dell’effettivo pagamento del prezzo era da ritenere non dimostrata.

A ciò doveva aggiungersi che il Ro. non si trovava in buone condizioni economiche e che si era separato dalla propria moglie, figlia degli originari attori.

Ha poi rilevato la Corte di merito che era da considerare provata anche in capo alla società acquirente la consapevolezza di recare danno alle ragioni dei creditori. Dalle visure della camera di commercio, che la società certamente doveva aver controllato, emergeva infatti che il Ro. aveva, in sostanza, dismesso ogni sua attività economica nel momento in cui aveva stipulato l’atto oggetto di revocatoria. Tale situazione, unita al rilievo sulla non congruità del prezzo di acquisto e sulla mancata prova dell’effettivo incasso degli assegni, ha indotto la Corte di merito a ritenere dimostrata anche la consapevolezza in capo all’acquirente di nuocere alle ragioni dei creditori.

3. Contro la sentenza della Corte d’appello di L’Aquila propone ricorso la s.r.l. Divalsonda con atto affidato a quattro motivi.

Resistono i coniugi G.D.N. ed R.E. con un unico controricorso.

Ro.An. non ha svolto attività difensiva in questa sede.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 4), violazione degli artt. 342,348-bis e 345 c.p.c., per inammissibilità dell’appello e produzione tardiva di documenti in grado di appello.

La società ricorrente rileva che l’appello era stato proposto in modo generico e che in quella sede gli appellanti avevano dedotto temi nuovi, in violazione dell’art. 345 cit.; in particolare, il deprezzamento del bene venduto nella misura del 38 per cento rispetto al valore effettivo era conseguente alla produzione tardiva di documenti, sia in ordine al valore locativo dell’immobile che in ordine alla prova che il Ro. aveva intenzione di chiudere ogni sua attività (circostanza, quest’ultima, emersa solo nella causa di separazione, successiva alla vendita del bene in questione).

2. Con il terzo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), nullità della sentenza per violazione di norme processuali sulle prove e del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, nonché omesso esame e omessa pronuncia su specifiche eccezioni proposte.

Rileva la società ricorrente che la sentenza non avrebbe tenuto conto del fatto che una serie di circostanze considerate decisive non erano state indicate nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado; in particolare, si richiamano i documenti attestanti il valore locativo del bene, gli atti del giudizio di separazione personale tra il Ro. e la moglie G.G.G. (successivo all’atto di compravendita in questione) e i decreti ingiuntivi che gli originari attori avevano chiesto nei confronti del Ro. soltanto nel 2010 (cioè dopo l’atto da revocare).

3. Le censure di cui ai motivi primo e terzo possono essere esaminate congiuntamente, data la stretta ed evidente connessione tra loro esistente. Esse sono tutte prive di fondamento.

Quanto al profilo formale di cui al primo motivo, il Collegio rileva che dalla lettura degli atti del giudizio di merito – ai quali la Corte ha accesso in considerazione della natura della censura in questione – risulta che i coniugi G. e R. dedussero già nell’atto di citazione del giudizio di primo grado la circostanza secondo cui il bene immobile in questione, pur avendo un valore venale di Euro 600.000, era stato effettivamente venduto ad Euro 250.000. Ciò significa che il profilo della vendita ad un prezzo vile non era affatto nuovo; per cui l’indicazione di cui alla p. 7 dell’atto di appello, relativa alla percentuale di deprezzamento nella misura del 38 per cento, non costituisce altro che la specificazione di un profilo che era stato comunque dedotto, per cui la prospettata novità non sussiste; ne consegue che le censure di violazione di legge di cui al primo motivo sono prive di fondamento.

Quanto al terzo motivo, il Collegio rileva che le censure sono in parte ripetitive rispetto a quelle contenute nel primo. Per il resto tale motivo, oltre ad essere redatto con una tecnica non rispettosa dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6) – dal momento che richiama una serie di atti e documenti senza dare conto specificamente di dove e come essi siano stati messi a disposizione della Corte – finisce col sottoporre al vaglio del giudice di legittimità una serie di circostanze di merito, di per sé non esaminabili in questa sede. Fermo restando, comunque, che la Corte d’appello ha espresso un suo giudizio sul complesso dei documenti richiamati e che questa Corte non ha titolo per intervenire sul punto.

4. Con il secondo motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), violazione e falsa applicazione degli artt. 2697,2727,2729 e 2901 c.c., sul rilievo che gli originari attori non avrebbero dimostrato la sussistenza delle condizioni per il vittorioso esperimento dell’azione revocatoria.

La censura si concentra sull’asserita mancanza di prova della consapevolezza, da parte della ricorrente, del fatto che la vendita avrebbe arrecato danni ai creditori del Ro.. La ricorrente rileva che era pacifico fin dal 2007 che quest’ultimo avesse intenzione di vendere e che la vendita avvenne tramite un’agenzia, con regolare pagamento del prezzo. Il valore presunto del bene, dimostrato con prove prodotte tardivamente, non potrebbe ritenersi esatto, posto che il conteggio prodotto dagli attori si riferiva all’anno 2004, cioè ben prima che si manifestasse il crollo del prezzo degli immobili; per cui nel 2009, anno della vendita, il prezzo era quello giusto. La società ricorrente insiste nell’affermare che nessuna consapevolezza essa aveva della situazione di difficoltà economica del Ro., per cui mancherebbe ogni prova del consilium fraudis e della scientia damni in capo alla parte acquirente.

4.1. Il motivo non è fondato.

Si rileva, innanzitutto, che esso è redatto mettendo insieme una serie di circostanze di fatto – di per sé irrilevanti nella presente sede di legittimità – con alcune censure di diritto. Per quanto è dato comprendere, comunque, il punto fondamentale della censura è costituito dall’errata ricostruzione, da parte della Corte d’appello, delle prove idonee a dimostrare la sussistenza delle condizioni richieste per il positivo esperimento dell’azione revocatoria, in particolare censurandosi l’uso erroneo della prova per presunzioni.

Ciò premesso, il Collegio osserva che la prova presuntiva, oltre ad essere una prova vera e propria regolata dalla legge, è utilizzabile allo scopo di dimostrare, ai sensi dell’art. 2901 c.c., sia il consilium fraudis che la scientia damni da parte dell’acquirente, come da pacifica giurisprudenza.

Nella specie la Corte d’appello non si è limitata ad utilizzare – come vorrebbe l’odierna parte ricorrente – una serie di elementi di prova tardivamente prodotti, ma ha dato conto con ampiezza di argomenti delle ragioni per le quali ha ritenuto dimostrati gli elementi necessari all’accoglimento dell’azione proposta. La sentenza impugnata, infatti, ha preso le mosse dal fatto che il bene immobile venduto era l’unico cespite di cui il Ro. era titolare e che la società Divalsonda, dovendo acquistare un immobile da un imprenditore individuale (il Ro., appunto), avrebbe dovuto verificare l’esistenza e la solidità della situazione economica del venditore; verifica che avrebbe dato esito certamente negativo, avendo il Ro. sostanzialmente dismesso ogni attività in anni precedenti al compimento dell’atto qui in oggetto. Oltre a ciò, la Corte veneziana ha messo in luce altri due elementi significativi: in primo luogo, quello del prezzo di vendita, che era comunque ampiamente inferiore al valore di mercato; e in secondo luogo il fatto che non era stata data alcuna prova dell’effettiva negoziazione degli assegni che avrebbero dovuto costituire il pagamento del prezzo di acquisto dell’immobile.

A fronte di tale valutazione complessiva delle prove – rispetto alla quale, come si è detto, questo giudice di legittimità non ha titolo per intervenire – la società ricorrente non fa che contrapporre la propria diversa valutazione, pervenendo al risultato che la domanda avrebbe dovuto essere respinta perché il prezzo di acquisto era giusto ed essa acquirente non aveva consapevolezza della situazione di difficoltà economica del venditore. Ma è palese che si tratta di una ricostruzione di merito, tra l’altro fondata sulla circostanza del calo del prezzo degli immobili nel periodo in questione, che non può trovare accoglimento in questa sede.

Ne consegue che la prospettata violazione di legge non sussiste.

5. Con il quarto motivo di ricorso si lamenta, in riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), omesso esame di un fatto decisivo e mancanza di prova degli indicatori dello stato di insolvenza.

Dopo aver ribadito censure in qualche modo già presenti nei precedenti motivi, la parte ricorrente osserva che la sua buona fede nell’acquisto non avrebbe dovuto essere messa in dubbio. Essa aveva compiuto tutte le verifiche catastali e non vi era alcuna prova dell’esistenza di ragioni di insolvenza a carico del venditore; il tutto confermando che la sentenza non avrebbe valutato correttamente i tempi di svolgimento dei fatti, che dimostrano l’estraneità della società acquirente ad una qualsiasi collusione con il venditore.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Osserva la Corte che la censura, oltre ad essere ampiamente ripetitiva delle precedenti, è comunque tesa in modo palese ad ottenere in questa sede un diverso e non consentito esame del merito. Pur essendo prospettata, infatti, come omesso esame di un fatto decisivo, la doglianza ripropone una fattispecie di vizio di motivazione che ormai non trova più rispondenza nella formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5).

6. Il ricorso, pertanto, è rigettato.

A tale esito segue la condanna della società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate ai sensi del D.M. 10 marzo 2014, n. 55.

Sussistono inoltre le condizioni di cui del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, liquidate in complessivi Euro 4.200, di cui Euro 200 per spese, oltre spese generali ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza delle condizioni per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello versato per il ricorso, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile, il 26 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 19 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - redazione@misterlex.it - Privacy - P.I. 02029690472