Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.3701 del 07/02/2022

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – rel. Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 5715/2021 proposto da:

T.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DARDANELLI 37, presso lo studio dell’avvocato MANUELA TRALDI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MICHELE GIUSEPPE VIETTI;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente e ricorrente incidentale a debito –

avverso l’ordinanza della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/07/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 2/12/2021 dal Consigliere Dott. ANTONIO SCARPA;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale PEPE Alessandro, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

uditi gli Avvocati MANUELA TRALDI e T.S. (per delega dell’avvocato MICHELE GIUSEPPE VIETTI), nonché l’avvocato dello Stato PIO GIOVANNI MARRONE.

FATTI DI CAUSA

L’avvocato T.S. ha proposto ricorso articolato in dieci motivi avverso l’ordinanza n. 3613/2020 della Corte d’appello di Roma del 16 luglio 2020, resa in controversie ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 e del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 14.

Resiste con controricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze, che ha proposto altresì ricorso incidentale articolato in due motivi.

L’avvocato T.S. ha esposto di aver ricevuto incarico dall’Ispettorato Generale per la liquidazione degli Enti Disciolti del Ministero del Tesoro, ora Ministero dell’Economia e delle Finanze, al fine di svolgere attività di difesa in favore del disciolto Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta numerosi giudizi. A sostegno della sua domanda di corresponsione dei compensi professionali, l’avvocato T. ha evidenziato di aver stipulato una convenzione in data 19 settembre 2000 per la gestione di oltre quattrocento contenziosi coinvolgenti l’Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta e le sue controllate SAF s.p.a., SIVA s.p.a., Nuramare s.p.a. e RESS s.r.l., convenzione con cui le parti, all’art. 3, avevano stabilito un compenso in favore del legale pari agli onorari massimi previsti dalla tariffa per le cause di particolare complessità, agli onorari medi per quelle importanti e complesse e agli onorari compresi tra il minimo ed il massimo per quelle ordinaria complessità.

Tali condizioni erano state di seguito rinegoziate con la successiva convenzione di “modifica” del 18 marzo 2002, stabilendo l’applicazione degli onorari minimi, salvo che per le liti conclusesi favorevolmente per l’ente, senza nulla prevedere per l’ipotesi di revoca del mandato. La revoca era poi intervenuta ad opera del Ministero dell’Economia e delle Finanze in data 30 maggio 2002.

Sono oggetto del presente giudizio due parcelle (nn. *****), afferenti all’assistenza giudiziale resa nel giudizio svoltosi innanzi alla Corte d’appello di Roma (RG 552/2000) relativo al reclamo proposto da Nuova Cartiera di Arbatax s.p.a. avverso la sentenza n. 1494/99 del Tribunale di Roma sezione fallimentare, con cui era stato approvato il concordato preventivo della SIVA s.p.a., giudizio conclusosi con rigetto del reclamo in forza di decreto emesso il 4 dicembre 2000. Espone il ricorrente che le due notule indicate, alla luce della Convenzione del 19 settembre 2000, erano state entrambe redatte al massimo del valore previsto dal D.M. n. 585 del 1994, art. 5, n. 3, in ragione della difficoltà delle questioni di diritto emerse, sia pure, nell’auspicio di una possibile definizione bonaria dei contenziosi, era stata applicata la percentuale ridotta dello 0,91% calcolata sull’importo dei crediti ammessi al passivo di Euro 62.008.000,00.

Le due parcelle sono state azionate con ricorso innanzi alla Corte d’appello di Roma della L. 13 giugno 1942, n. 794, ex artt. 28 e 29, domandando complessivi Euro 1.861.673,23 (Euro 1.860.000,00 per onorari ed Euro 1.673,23 per competenze), oltre rimborso spese generali al 10%, interessi legali decorrenti dall’8 settembre 2003 ed interessi anatocistici dalla domanda, con ulteriore richiesta di danni da ritardato pagamento.

La Corte d’appello di Roma, dopo aver:

dichiarato inammissibili le domande formulate da T.S. nella memoria del 1 marzo 2020;

dichiarato rituale la domanda proposta ai sensi della L. 13 giugno 1942, n. 794, art. 28 e del D.Lgs. 1 settembre 2011, n. 150, art. 14;

riconosciuto la legittimazione passiva del Ministero dell’Economia e delle Finanze ed escluso la limitazione di responsabilità dello stesso;

disatteso l’eccezione di prescrizione;

escluso la valenza di giudicato esterno – sulla tariffa da applicare e sugli accessori da liquidare – della sentenza n. 2465/2005 del Tribunale di Roma e ritenuto operante la convenzione del 2002;

considerato indeterminabile il valore della causa ed applicati i relativi parametri al massimo, con aumento del 20% in relazione alla pluralità delle parti;

ha accertato il credito dell’avvocato T.S. nella misura di Euro 758,67 per diritti ed Euro 6.823,42 per onorari, oltre interessi legali dalla costituzione in mora del 10 novembre 2005 e interessi anatocistici ex art. 1283 c.c., decorrenti dalla domanda giudiziale al saldo, negando, per difetto di prova, il maggior danno.

Il ricorso è stato deciso procedendo nelle forme di cui al D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, art. 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, con richiesta di discussione orale. Il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ALESSANDRO PEPE ha depositato memoria, chiedendo che i ricorsi siano respinti. Anche le parti hanno presentato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

RAGIONI DELLA DECISIONE

1 Il primo ed il secondo motivo del ricorso principale proposto dall’avvocato T.S. attengono al valore delle controversia ed alla conseguente correttezza degli importi delle azionate parcelle, e vanno perciò esaminati congiuntamente.

Il primo motivo di ricorso deduce la violazione degli artt. 10 e 17 c.p.c., dovendosi determinare il valore della lite in Euro 62.008.000 ai sensi dell’art. 17 c.p.c..

Il secondo motivo di ricorso allega la violazione del D.M. n. 585 del 1994, art. 6, sempre per la mancata determinazione del valore della controversia come pari ad Euro 62.008.000.

1.1. Primo e secondo motivo del ricorso principale sono inammissibili perché non superano lo scrutinio ex art. 360-bis c.p.c., n. 1.

Sia la sentenza sia il ricorso espongono che il giudizio nel quale l’avvocato T. aveva svolto l’assistenza qui dedotta per la liquidazione dei compensi, concerneva il reclamo alla Corte d’appello proposto dalla Nuova Cartiera di Arbatax s.p.a. avverso la sentenza n. 1494/1999 del Tribunale di Roma, con cui era stata rigettata l’istanza della creditrice di risoluzione del concordato preventivo della SIVA s.p.a.. Con provvedimento del 4 dicembre 2000 la Corte d’appello, in sede di reclamo, aveva confermato il predetto diniego della risoluzione.

Deve perciò ribadirsi il costante orientamento (non portando il ricorso elementi che possano favorirne il superamento) secondo cui, ai fini della liquidazione dei compensi spettanti, nella specie, al difensore in sede di reclamo avverso la sentenza di rigetto della richiesta di risoluzione del concordato preventivo, il valore della causa, da determinarsi sulla base della domanda ex art. 10 c.p.c., non va desunto dall’entità del passivo, non essendo applicabile in via analogica l’art. 17 c.p.c., riguardante esclusivamente i giudizi di opposizione ad esecuzione forzata, ma deve considerarsi indeterminabile, atteso che la pronuncia richiesta è volta alla dichiarazione di fallimento a seguito della pronuncia di risoluzione del concordato, con oggetto l’accertamento dell’insolvenza, e non la delimitazione quantitativa del dissesto (cfr. Cass. Sez. U., 24/07/2007, n. 16300; Cass. Sez. 1, 21/01/2013, n. 1346).

2. I motivi dal terzo al sesto del ricorso dell’avvocato T.S. attengono tutti alla supposta “valenza panprocessuale dei giudicati relativi agli accordi negoziali ed alla legittimazione” e vanno perciò esaminati congiuntamente.

Il terzo motivo del ricorso principale denuncia la violazione degli artt. 112 e 324 c.p.c., per aver la Corte d’appello negato rilievo di giudicato “panprocessuale” all’ordinanza n. 14083/2019 (erroneamente indicata come ordinanza n. 14183/19) della Corte di cassazione, sul presupposto della non ammissibilità della questione, in quanto introdotta solo con memoria non autorizzata e stante la mancata accettazione del “MEF”. Si sostiene che tale ordinanza identificava il D.M. n. 585 del 1994, quale normativa applicabile a tutti i rapporti professionali tra MEF e T., in sostituzione della integrazione del 18 marzo 2002, e, inoltre, escludeva la persistenza del “capo C” dell’integrazione “applicato dal medesimo collegio alla notula n. 179 nella predetta sentenza n. 572/17 illustrata a pag. 18, per ipotizzate carenze decisionali della sentenza n. 2465/05, affermata dalla gravata ordinanza, addirittura assunta con valenza di giudicato”.

Con il quarto motivo viene dedotta la “valenza panprocessuale ex art. 2909 c.c., della sentenza n. 2465/05 e delle quindici sentenze che la richiamano, quanto alla sostituzione ex artt. 1339 e 1374 c.c., del D.M. n. 585, alla integrazione per tutte le prestazioni, alla mancata successione della E.N.C.C.-LIGESTRA e al MEF ex lege n. 14 del 2009, alla non applicabilità al MEF della limitazione di responsabilità ex lege n. 14 del 2009.

Il quinto motivo del ricorso principale ha ad oggetto la violazione degli artt. 112 e 329 e 334 c.p.c., del D.M. n. 585 del 1994, e dell’art. 2909 c.c., per aver la Corte d’appello negato valenza panprocessuale alle sentenze nn. 1837/17, 4288/17 e 7605/15. Il ricorrente si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe omesso di valutare il passaggio in giudicato delle citate decisioni ed i relativi gravami avanzati dal MEF, che ne avevano determinato la parziale definitività ex art. 329 c.p.c., in quanto introdotte solo con la memoria.

Il sesto motivo del ricorso principale lamenta la violazione degli artt. 112,99,100,167 e 329 c.p.c., nonché dell’art. 2909 c.c., per aver la Corte d’appello dichiarato la persistenza dell’integrazione del 18 marzo 2002 “per assunto difetto di statuizioni in merito alla tariffa nella sentenza n. 2465/05”.

2.1. I motivi dal terzo al sesto del ricorso dell’avvocato T.S. sono tutti inammissibili, innanzitutto perché privi di specifica riferibilità (art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) alla ratio decidendi della ordinanza impugnata, nel cui percorso logico rivestono un ruolo marginale le vicende di cui alla gestione liquidatoria del soppresso Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta, come anche l’incidenza delle stesse sulle convenzioni stipulate dal T. col Ministero nel 2000 e nel 2002, ovvero gli effetti dell’assunzione delle vesti di soggetto incaricato della liquidazione in capo alla società Ligestra Due a seguito di D.M. 11 novembre 2009. La Corte d’appello di Roma ha affermato l’irrilevanza del sopravvenuto mutamento del quadro legislativo in rapporto all’oggetto delle due parcelle dedotte in lite (pagina 7 dell’ordinanza), ha ritenuto applicabile il capo C della convenzione modificata nel 2002 (integrazione sino alla concorrenza dei minimi tariffari) e tuttavia ha applicato le tariffe “al massimo rapportato a quello indeterminabile della causa, aumentato del 20%” (pagine 8-9 dell’ordinanza impugnata).

Sono poi comunque inammissibili, alla luce dell’art. 366 c.p.c., comma 1, nn. 4 e 6, le censure di violazione dei molteplici giudicati esterni formulate dal ricorrente. Trattandosi di giudicati che si assumono formatisi antecedentemente alla sentenza qui impugnata, essi potrebbero dar luogo ad un vizio denunciabile per cassazione ex art. 360 c.p.c. (ciò che il ricorrente fa ipotizzando un error in procedendo per omessa pronuncia) solo specificando di aver all’uopo proposto una apposita eccezione di giudicato esterno davanti alla Corte d’appello, eccezione rimasta poi trascurata dai giudici di merito. Al contrario, l’omesso rilievo d’ufficio del giudicato esterno nel giudizio che ha pronunciato la sentenza impugnata dà luogo all’ipotesi di revocazione prevista dall’art. 395 c.p.c., n. 5, dovendosi intendere l’inciso esistente in tale disposizione “purché la sentenza non abbia pronunciato sulla relativa eccezione” nel senso, appunto, che si versa nell’ambito della revocazione se si siano verificati l’omessa proposizione dell’eccezione o l’omesso rilievo d’ufficio del giudicato stesso (cfr. Cass. Sez. Unite, 20 ottobre 2010, n. 21493; Cass. Sez. 1, 14 marzo 1996, n. 2131).

Perché sia poi ammissibilmente denunciato per cassazione ex art. 360 c.p.c., la violazione di un giudicato esterno perpetrato dalla sentenza impugnata, occorre altresì che il ricorrente indichi quale affermazione contenuta nella decisione da cassare si ponga in contrasto con la portata della pregressa res iudicata, non potendosi devolvere alla Suprema Corte di riesaminare officiosamente ogni statuizione contenuta nella prima in rapporto ad ogni statuizione contenuta nella seconda. L’ormai conclamata assimilazione del giudicato agli “elementi normativi” e la conseguente sindacabilità sotto il profilo della violazione di legge della sentenza che con esso contrasti non esonerano il ricorrente per cassazione dall’osservanza di quei canoni di specificità del motivo che si esigono comunque per ogni deduzione di violazione o falsa applicazione della legge, in quanto giudizio sul fatto contemplato dalle norme di diritto positivo applicabili al caso specifico.

Le censure trascurano, inoltre, che il giudicato cosiddetto esterno ha connotazioni che lo differenziano nettamente da quello cosiddetto interno, ossia formatosi nell’ambito di un determinato procedimento ancora pendente, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2, in relazione alle parti non impugnate della sentenza, poiché, mentre il giudicato esterno è rilevabile anche di ufficio e la stessa Corte di cassazione ha il potere di verificarne se ne sussistono i presupposti di fatto, per il giudicato interno ogni accertamento compete esclusivamente al giudice del merito (Cass. Sez. 2, 30/03/1987, n. 3040; Cass. Sez. 3, 21/05/1996, n. 4676). Da ciò deriva altresì la inammissibilità, agli effetti dell’art. 372 c.p.c., delle produzioni delle sentenze sprovviste del certificato di passaggio in giudicato ex art. 124 disp. att. c.p.c..

La pretesa efficacia di giudicato della sentenza del Tribunale di Roma n. 2465/2005, con riferimento al calcolo dei compensi per tutti gli incarichi intercorsi fra le parti, è stata comunque già del tutto condivisibilmente smentita da questa Corte nell’ordinanza 23 maggio 2019, n. 14083.

Piuttosto, è proprio del giudicato esterno formatosi fra le parti a seguito dell’ordinanza 23 maggio 2019, n. 14083, che questa Corte può prendere piena cognizione, anche prescindendo dalle allegazioni delle parti. Tale pronuncia del 2019 preclude, pertanto, il riesame delle questioni attinenti a queste statuizioni:

1)”(i)n nessun caso l’applicabilità della tariffa professionale in caso di revoca del mandato – fissata dalla sentenza n. 2456/2005 – poteva, dunque, determinare l’automatica cogenza e vincolatività dei parametri medi, tanto più che, per le prestazioni svolte integralmente nella vigenza della L. n. 794 del 1942, art. 24, e delle tariffe professionali (D.M. n. 585 del 1994, art. 4), il principio di inderogabilità era invocabile solo per i minimi tariffari (…);

2)”(c)orrettamente quindi, la Corte d’appello ha ritenuto che la pronuncia n. 2456/2005, attraverso il richiamo all’art. 1374 c.c., si fosse limitata a integrare il contenuto della convenzione con le previsioni del D.M. n. 585 del 1994, per quanto non diversamente disposto, stabilendo che la liquidazione dovesse avvenire secondo i criteri tariffari”;

3) (n)on sussistevano – in definitiva – alcun giudicato sulla nullità della convenzione del 18.3.2002, né alcun vincolo per il giudice di merito quanto all’applicazione dei valori medi della tariffa, avendo la sentenza esclusivamente disposto che la quantificazione delle spettanze dovesse prescindere dai criteri fissati dalla convenzione per le cause definite e che occorresse tener conto dei parametri di cui al citato D.M. n. 585 del 1994, quale che fosse il risultato finale della liquidazione”.

3. Con il settimo motivo del ricorso principale si lamenta la violazione dell’art. 343 c.p.c. e art. 1224 c.c., comma 2, artt. 2697 e 2909 c.c., in relazione al mancato riconoscimento dei danni ex art. 1224 c.c., comma 2, lamentati dal ricorrente. Il ricorrente allega che la sentenza n. 474/2011 emessa dal Tribunale di Roma aveva accertato la responsabilità del MEF per i danni da ritardato pagamento, statuizione successivamente passata in giudicato ex art. 343 c.p.c..

Si assume inoltre che non occorre prova del maggior danno ex art. 1224 c.c., comma 2, determinandosi esso in via presuntiva.

3.1. Il settimo motivo di ricorso è inammissibile, sia perché invoca quale giudicato esterno un giudicato interno formatosi nell’ambito di un determinato procedimento, ai sensi dell’art. 329 c.p.c., comma 2 (si veda già p. 2.1.), sia ex art. 360-bis c.p.c., comma 1. Deve infatti ribadirsi la consolidata interpretazione secondo cui il credito dell’avvocato per il pagamento dei compensi professionali costituisce un credito di valuta (né si trasforma in credito “di valore” per effetto dell’inadempimento del cliente), restando in quanto tale soggetto al principio nominalistico. La rivalutazione monetaria del credito dell’avvocato non può, perciò, essere automaticamente riconosciuta, dovendo essere adeguatamente dimostrato il pregiudizio patrimoniale risentito causa del ritardato pagamento del credito, senza che possa trovare applicazione la disciplina dell’art. 429 c.p.c.. Dalla mora conseguente all’inadempimento del cliente discende, quindi, la corresponsione degli interessi nella misura legale, indipendentemente da ogni prova del pregiudizio subito, salvo che l’avvocato creditore dimostri il maggior danno ai sensi dell’art. 1224 c.c., comma 2, il quale, può, peraltro, ritenersi esistente in via presuntiva, sempre che il medesimo creditore alleghi che, durante la mora, il saggio medio di rendimento netto dei titoli di Stato con scadenza non superiore a dodici mesi sia stato superiore al saggio degli interessi legali (Cass. Sez. 2, 26/02/2002, n. 2823; Cass. Sez. 2, 15/02/1999, n. 1266; Cass. Sez. 2, 24/09/2014, n. 20131; Cass. Sez. 2, 22/06/2004, n. 11594; Cass. Sez. 2, 15/07/2003, n. 11031; Cass. Sez. U., 16/07/2008, n. 19499).

4. L’ottavo motivo di ricorso ha ad oggetto la violazione dell’art. 96 c.p.c., comma 3, “per i danni arrecati dal MEF al ricorrente per l’inosservanza agli obblighi di lealtà e correttezza imposti dall’art. 88 c.p.c., anche all’Avvocatura dello Stato”. Il ricorrente principale lamenta la contraddittorietà delle posizioni difensive assunte dal MEF in tre giudizi pendenti, tra cui quello in esame, quanto alla legittimazione passiva ed al ruolo di Ligestra – Fintecna.

4.1. L’ottavo motivo del ricorso principale è inammissibile ove inteso come censura alla ordinanza della Corte d’appello di Roma, la quale non ha proprio pronunciato con riguardo alla responsabilità aggravata del MEF con riguardo al giudizio di merito, ed ha peraltro ravvisato una reciproca parziale soccombenza tra le parti. Ove intesa come domanda di condanna per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c., nel giudizio di cassazione, dunque riferita specificamente ai danni patiti dal ricorrente principale per tale grado, essa è palesemente sprovvista del requisito della totale soccombenza della controparte.

5. Il nono motivo del ricorso principale allega la violazione degli artt. 1282 e 1219 c.c., “per interessi legali dal 8.10.03”. Il ricorrente lamenta che con la lettera datata 8 ottobre 2003, avente ad oggetto “pagamento delle parcelle nn. *****”, il MEF veniva intimato e costituito in mora; da tale data sarebbero perciò dovuti decorrere gli interessi legali.

5.1. Il nono motivo è inammissibile perché è fondato sul documento costituito dalla lettera 8 ottobre 2003 (del quale l’ordinanza impugnata non parla) e non cura l’osservanza dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, avendo il ricorrente T. omesso di indicare sia la fase processuale in cui era stata utilmente prodotta la lettera di costituzione in mora, sia l’allegazione difensiva che su tale documento era stata sviluppata davanti alla Corte d’appello di Roma. Neppure è indicato in ricorso quale contenuto avesse tale lettera, atteso che l’atto di costituzione in mora di cui all’art. 1219 c.c., è idoneo a determinare la responsabilità da tardivo adempimento, con conseguente obbligo di corresponsione degli interessi moratori, purché il creditore manifesti chiaramente al debitore la volontà di ottenere il soddisfacimento del proprio credito.

6. Il decimo motivo del ricorso principale ha per oggetto la violazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., “per reciproca compensazione delle spese di lite”. Il ricorrente si duole che alla compensazione integrale delle spese disposta dalla Corte d’appello ostasse la totale soccombenza del MEF o quantomeno la soccombenza parziale.

6.1. Il decimo motivo è inammissibile ex art. 360-bis c.p.c., n. 1. La Corte d’appello di Roma, adita dall’avvocato T. con una domanda per il pagamento di Euro 1.861.673,23, oltre rimborso spese generali al 10% ed interessi, ha riconosciuto il credito nella misura di Euro 758,67 per diritti ed Euro 6.823,42 per onorari, oltre interessi. E’ evidente, dunque, l’esistenza di una soccombenza reciproca, per il limitatissimo accoglimento parziale della domanda; in caso di accoglimento parziale della domanda il giudice ben può, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., compensare in tutto o in parte le spese sostenute dalla parte vittoriosa. La valutazione delle proporzioni della soccombenza reciproca e la determinazione delle quote in cui le spese processuali debbono ripartirsi o compensarsi tra le parti, ai sensi dell’art. 92 c.p.c., comma 2, rientrano poi nel potere discrezionale del giudice di merito, che resta sottratto al sindacato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un’esatta proporzionalità fra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soccombente (Cass. Sez. 2, 31/01/2014, n. 2149; Cass. Sez. 2, 20/12/2017, n. 30592).

7. Il primo motivo del ricorso incidentale proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze deduce la violazione e/o falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 41, conv. con modificazioni in L. 27 febbraio 2009, n. 14 e del D.L. 15 aprile 2002, n. 63, art. 9, comma 1-ter, convertito con modificazioni in L. 15 giugno 2002, n. 112. Il ricorrente incidentale lamenta che l’asserita sussistenza della propria legittimazione passiva poggia, nella impugnata ordinanza, sulla ritenuta permanenza dei rapporti attivi e passivi del disciolto Ente Nazionale per la Cellulosa e la Carta in capo al Ministero, in base ad elementi dedotti da scritti difensivi dello stesso afferenti ad altri giudizi. La censura allega che, a seguito del subentro di Ligestra Due s.r.l. nella qualità di liquidatore dell’E.N.C.C., era a questo soggetto che dovevano essere rivolte le domande dell’avvocato T..

Il secondo motivo del ricorso incidentale del Ministero dell’Economia e delle Finanze denuncia la violazione e/o falsa applicazione del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 41, convertito con modificazioni in L. 27 febbraio 2009, n. 14, nonché dell’art. 11 preleggi. Il ricorrente incidentale, in via gradata rispetto alla prima doglianza, censura l’ordinanza della Corte di Roma nella parte in cui non ha riconosciuto la limitazione di responsabilità dello Stato a norma del D.L. n. 207 del 2008, art. 41, comma 16-octies, sull’erroneo presupposto della inapplicabilità della norma ai rapporti contrattuali sorti ed esauriti prima della sua entrata in vigore. Dette obbligazioni rientrerebbero invece, secondo la tesi del ricorrente incidentale, tra le passività per le quali lo Stato e per esso il Ministero è chiamato a rispondere nei limiti dell’attivo della liquidazione dell’E.N.C.C.. In ogni caso, i predetti rapporti non avrebbero comunque potuto considerarsi esauriti al momento dell’entrata in vigore del D.L. n. 207 del 2008, art. 41, giacché, benché la prestazione fosse stata eseguita, era ancora in contestazione il compenso.

7.1. I due motivi del ricorso incidentale vanno esaminati congiuntamente, seppur secondo l’ordine in esso delineato, rivelandosi entrambi infondati.

La L. 4 dicembre 1956, n. 1404, e successive modificazioni, dispose la soppressione e messa in liquidazione di enti di diritto pubblico e di altri enti sotto qualsiasi forma costituiti soggetti a vigilanza dello Stato e comunque interessanti la finanza statale. In forza di tale legge all’ente in liquidazione si sostituì un apposito organo statale, il quale agiva come branca dell’amministrazione dello Stato con propria soggettività istituzionale e non come organo dell’ente soppresso (arg. da Cass. Sez. L, 23/06/1983, n. 4321; Cass. Sez. L, 03/03/1984, n. 1511; Cass. Cass. Sez. L, 30/03/1984, n. 2142).

Il D.L. 21 giugno 1995, n. 240, art. 1, comma 1, convertito in legge, con modificazioni, dalla L. 3 agosto 1995, n. 337, dispose la soppressione e liquidazione dell’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta (E.N.C.C.) e l’unificazione in capo al commissario liquidatore dell’E.N.C.C. delle procedure liquidatorie dell’ente medesimo e delle società controllate.

Con decreto del Ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione Economica del 4 maggio 2000 venne avocato all’Ispettorato generale per la liquidazione degli enti disciolti il compito di procedere alle residue operazioni liquidatorie dell’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta; proprio tale Ispettorato concluse con l’avvocato T. le due convenzioni del 2000 e del 2002.

Il D.L. 15 aprile 2002, n. 63, art. 9, comma 1-bis, aggiunto dalla legge di conversione 15 giugno 2002, n. 112, stabilì la definitiva soppressione degli enti pubblici di cui alla L. 4 dicembre 1956, n. 1404, e, conseguentemente, alla lettera c), che “ferma restando la titolarità, in capo al Ministero dell’economia e delle finanze, dei rapporti giuridici attivi e passivi, la gestione della liquidazione nonché del contenzioso può essere da questo affidata ad una società, direttamente o indirettamente controllata dallo Stato” scelta in deroga alle norme di contabilità generale dello Stato”.

Tale società con D.M. 27 settembre 2004, venne individuata in Fintecna S.p.a..

Con Decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze del 20 giugno 2007, a far data dal 1 dicembre 2007, vennero avocate al Ministero dell’Economia e delle Finanze ed affidate alla Fintecna S.p.A. le residue operazioni liquidatorie dell’Ente nazionale per la cellulosa e per la carta.

E’ poi intervenuto del D.L. 30 dicembre 2008, n. 207, art. 41, comma 16 octies, convertito dalla L. 27 febbraio 2009, n. 14, secondo cui: “(a)llo scopo di accelerare e razionalizzare la prosecuzione delle liquidazioni dell’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta (E.N.C.C.), della LAM.FOR. s.r.l. e del Consorzio del Canale Milano Cremona Po, la società Fintecna o società da essa interamente controllata ne assume le funzioni di liquidatore. Per queste liquidazioni lo Stato, ai sensi del D.L. 15 aprile 2002, n. 63, art. 9, comma 1-ter, convertito, con modificazioni, dalla L. 15 giugno 2002, n. 112, risponde delle passività nei limiti dell’attivo della singola liquidazione. Al termine delle operazioni di liquidazione, il saldo finale, se positivo, viene versato al bilancio dello Stato. Il Ministero dell’economia e delle finanze, con apposito decreto, determina il compenso spettante alla società liquidatrice, a valere sulle risorse della liquidazione”.

Infine, con D.M. 11 novembre 2009, la società soggetto liquidatore ai sensi della richiamata normativa è stata individuata nella “Ligestra Due S.r.l.”.

Da tale quadro legislativo è evidente che il Ministero dell’Economia e delle finanze è rimasto nella titolarità dei rapporti giuridici attivi e passivi dell’ente disciolto, ne ha affidato la gestione della liquidazione ad una società controllata dallo Stato e risponde delle passività nei limiti dell’attivo della liquidazione, ove si tratti di debiti già contratti dal medesimo Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta.

Quanto alla responsabilità nei limiti dell’attivo, fondata sull’art. 41, comma 16 octies, cit. e sull’art. 9, comma 1-ter, cit., essa vale ai fini della successione dello Stato nelle posizioni debitorie già facenti capo al soppresso Ente nazionale per la cellulosa e per la carta, successione che la legge vuole limitata ai soli beni che residuino alla procedura di liquidazione, con la conseguenza che il Ministero dell’Economia e delle finanze assume soltanto nei limiti dell’attivo la responsabilità patrimoniale per le obbligazioni contratte dall’ente estinto, già risultanti all’atto della liquidazione.

Il mutamento del soggetto passivo delle obbligazioni pregresse contratte dall’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta, disposto per legge, e la previsione che lo Stato ne risponda nei limiti dell’attivo della liquidazione, rimangono così comunque giustificati dal ragionevole rischio di insufficienza del patrimonio dell’ente disciolto a soddisfare i creditori, attraverso la realizzazione del principio di concorsualità. La descritta disciplina normativa non può, invece, interpretarsi nel senso che essa estenda ai debiti già contratti direttamente da organi statali una limitazione di responsabilità che renda incerta per i creditori la piena realizzazione dei loro diritti, avendo questi stipulato col Ministero nel convincimento di essere esclusi dalla procedura liquidatoria facente capo all’Ente Nazionale per la Cellulosa e per la Carta.

Non vi è perciò motivo per il Ministero ricorrente incidentale di contestare la propria legittimazione passiva e nemmeno di invocare tale limite di responsabilità con riferimento a rapporti giuridici obbligatori che non facevano capo all’ente soppresso, quali quelli derivanti dalle convenzioni di patrocinio stipulate nel 2000 e nel 2002 tra l’avvocato T. e l’Ispettorato generale per gli affari e per la gestione del patrimonio degli enti disciolti (ufficio quest’ultimo compreso dapprima nel Ministero del Tesoro e poi nel Ministero dell’economia e delle finanze, quale struttura della Ragioneria generale dello Stato, poi trasformato a seguito del D.L. n. 63 del 2002, e della L. n. 311 del 2004, L. n. 266 del 2005 e L. n. 296 del 2006, col subentro della società FINTECNA, ed infine soppresso con la legge finanziaria per il 2007).

Ai fini di individuare il soggetto obbligato a corrispondere il compenso professionale al difensore, occorre aver riguardo al rapporto che si instaura tra il professionista incaricato ed il soggetto che ha conferito l’incarico. La questione della legittimazione passiva del Ministero, per aver esso dato l’incarico di patrocinio all’avvocato T., è peraltro coperta dal giudicato formatosi nell’ordinanza n. 14083/2019 di questa Corte.

Sussiste quindi, la legittimazione sostanziale e processuale del Ministero dell’economia e delle finanze per le posizioni debitorie, ed i correlati oneri economici, relativi a compensi per prestazioni professionali, facenti capo non all’ente soppresso ma direttamente alla gestione liquidatoria e contratti nell’ambito di attività espletata in qualità di organo dell’amministrazione statale, mediante struttura costituita dallo stesso Ministero.

Il riconoscimento di una legittimazione alternativa del soggetto cui è affidata la gestione della liquidazione e del contenzioso può rispondere soltanto a criteri amministrativo – contabili, intesi ad assicurare la distinzione delle passività già gravanti sugli enti soppressi rispetto alla corrente gestione economica.

8. Il ricorso principale proposto dall’avvocato T.S. va perciò dichiarato inammissibile, mente va rigettato il ricorso incidentale del Ministero dell’Economia e delle Finanze.

Le spese del giudizio di cassazione vengono compensate fra le parti in ragione della reciproca soccombenza.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

Gli stessi presupposti di cui al citato D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, non sussistono, invece, con riguardo al ricorrente incidentale del Ministero dell’Economia e delle Finanze, giacché le Amministrazioni dello Stato, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso principale e rigetta il ricorso incidentale; compensa tra le parti le spese sostenute nel giudizio di cassazione.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente principale, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 2 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2022

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