LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – rel. Consigliere –
Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. NAPOLITANO Angelo – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 25710/2013 R.G. proposto da:
Costruzioni AD s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avv. Gabriele Escalar, presso cui è elettivamente domiciliata in Roma, al viale Giuseppe Mazzini, n. 11;
– ricorrente –
contro
Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, presso cui ha domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 39/29/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 25 febbraio 2013, depositata in data 26 marzo 2013 e non notificata.
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 28 gennaio 2022 dal consigliere Andreina Giudicepietro.
FATTI DI CAUSA
1. La Costruzioni AD s.r.l. ricorre con sette articolati motivi contro l’Agenzia delle entrate per la cassazione della sentenza n. 39/29/13 della Commissione tributaria regionale del Veneto, pronunciata in data 25 febbraio 2013, depositata in data 26 marzo 2013 e non notificata, che ha rigettato l’appello della contribuente, in controversia avente ad oggetto l’impugnativa dell’avviso di accertamento per maggiore Ires, relativa all’anno di imposta 2005.
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r. rilevava in fatto che in data 9.12.2010, l’Agenzia delle Entrate, Direzione Provinciale di Vicenza, aveva notificato, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, alla Costruzioni AD s.r.l. (nel prosieguo ***** s.r.l.) l’avviso di accertamento n. *****, relativo all’anno 2005, con il quale richiedeva il pagamento di Euro 109.847,90 per Ires non versata più interessi ed Euro 24.489,25 per sanzioni pecuniarie.
Detta pretesa trovava fondamento in un p.v.c. redatto da funzionari dell’Ufficio, trasfuso nella motivazione dell’avviso in esame, secondo cui si riteneva che il contratto di prestito delle azioni Mont Bazon, concluso tra la ***** s.r.l. e la DFD Czech (nel prosieguo DFD), era da considerarsi nullo in quanto avrebbe avuto una causa contraria alla legge (ex artt. 1343 e 1344 c.c.) Dalla motivazione dell’avviso di accertamento emergeva che l’Ufficio aveva contestato ad ***** s.r.l. di aver stipulato tale contratto al solo fine di trarre un doppio vantaggio fiscale, consistente “… nella esclusione da tassazione, nella misura del 95%, dei dividendi incassati in base alle disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2” e nella “deducibilità integrale a titolo di costo dell’onorario versato alla controparte ai sensi delle disposizioni di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109".
La C.t.r. rilevava, inoltre, che la società contribuente aveva adito la C.t.p. di Vicenza, la quale, con sentenza n. 96/05/11 del 22.11.2011, aveva respinto il ricorso affermando ” il convincimento che i descritti vantaggi configurano una frode fiscale, realizzata mediante la creazione di un contratto nullo per mancanza di causa: non si tratta di un evento aleatorio, ma di un evento certo, e la certezza dell’evento si rinviene nella reale potestà discrezionale della contraente ceca DFD di pilotare e creare le opzioni stabilite nel contratto”.
Con atto d’appello del 5.6.2012, la società aveva impugnato la sentenza citata e la C.t.r. aveva rigettato l’appello, confermando la legittimità dell’atto impositivo in ordine a tutti i profili contestati dalla contribuente e ritenendo che nella fattispecie in esame il contratto di stock /ending agreement, di carattere atipico e di natura aleatoria, avesse avuto solo finalità di realizzare un illegittimo risparmio d’imposta mediante la contrazione della base imponibile.
In particolare, la C.t.r., per quanto ancora di interesse, riteneva che non vi fosse la violazione degli obblighi del contraddittorio preventivo, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, dal momento che l’amministrazione finanziaria aveva emesso l’avviso di accertamento ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, e che la riduzione dell’imponibile attraverso l’utilizzo di un contratto nullo non fosse opponibile all’amministrazione.
3. A seguito del ricorso, l’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.
Il ricorso è stato fissato per la Camera di consiglio del 28 gennaio 2022, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e dell’art. 380 bis-1 c.p.c., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal D.L. 31 agosto 2016, n. 168, conv. in L. 25 ottobre 2016, n. 197.
La ricorrente ha depositato memoria.
MOTIVI DELLA DECISIONE
1.1. Con il primo motivo, la società ricorrente denunzia la nullità della sentenza per la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 62, e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Secondo la ricorrente, la decisione sulla denunciata violazione da parte dell’ufficio degli obblighi di contraddittorio imposti dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, sarebbe priva di una motivazione effettiva, in quanto la C.t.r. si era limitata ad affermare che l’avviso era stato legittimamente emesso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, e che era del tutto arbitrario il richiamo della società appellante al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.
1.2. Con il secondo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis e 41-bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.
Secondo la ricorrente, i giudici di appello avrebbero erroneamente ritenuto incompatibili le disposizioni dei citati artt. 37-bis e 41-bis, che invece opererebbero su piani diversi, l’una prevedendo l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria delle fattispecie elusive, l’altra disciplinando le modalità di esecuzione degli accertamenti cd. parziali.
Pertanto sarebbe del tutto inconferente l’affermazione della C.t.r., già censurata con il primo motivo, secondo cui l’accertamento era stato fatto ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, e non ai sensi dell’art. 37-bis.
La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: ” se- in un caso in cui, come nella specie, l’Ufficio abbia notificato un avviso di accertamento emesso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41-bis, nei confronti di una società con cui ha ritenuto a sé inopponibile un’operazione in quanto a suo dire priva di valide ragioni economiche e finalizzata unicamente a conseguire un indebito risparmio d’imposta; – violi e falsamente applichi il D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 37 bis e 41-bis, la sentenza di secondo grado la quale abbia rigettato il motivo d’appello – cui il contribuente ha eccepito che l’Ufficio, sulla base del contenuto e delle contestazioni elevate, avrebbe dovuto far applicazione della prima delle predette disposizioni ed adempiere a tutti gli obblighi di contraddittorio ivi previsti, affermando che tale violazione non sarebbe conferente al caso di specie in quanto l’avviso di accertamento è stato emesso ai sensi dell’art. 41-bis; anziché ritenere sussistente la violazione denunziata dal contribuente in quanto le disposizioni di cui all’art. 37 bis, e dell’art. 41 bis, operano su piani completamente distinti e non precludono affatto che un avviso di accertamento emesso ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41 bis, possa contenere una contestazione di elusione fiscale ai sensi del medesimo D.P.R., art. 37 bis; – e pertanto, ritenere palesemente violato, nel caso di specie, il citato art. 37 bis, in quanto è fatto pacifico che non siano stati rispettati da parte dell’Ufficio gli obblighi di contraddittorio preventivo sanciti dalla predetta disposizione antielusiva”.
1.3. Con il terzo motivo, la ricorrente denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.
Secondo la ricorrente, i giudici di appello avrebbero omesso di considerare che l’avviso di accertamento impugnato recava affermazioni del tutto contraddittorie, con l’illustrazione di tre diverse e distinte giustificazioni della propria pretesa.
Invero, con l’avviso di accertamento, l’Agenzia delle entrate ha affermato che l’operazione contestata sarebbe stata elusiva, perché posta in essere al solo fine di conseguire un duplice vantaggio fiscale; ha ritenuto, altresì, che il contratto di prestito delle azioni sarebbe stato nullo ed improduttivo di effetti avendo una causa contraria alla legge; infine, ha rilevato l’inesistenza dei dividendi distribuiti da Mont Bazon. Tale contraddittorietà nella motivazione, rilevata dalla ricorrente e sulla quale il giudice di appello avrebbe omesso ogni motivazione, avrebbe reso nullo l’atto di accertamento.
1.4. Con il quarto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis, 39, e 42-bis, della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3, degli artt. 1325,1343,1344,1344 e 1345 c.c., dell’art. 12 preleggi, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 62.
Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata ha erroneamente reputato che i contratti conclusi per scopi esclusivamente fiscali siano nulli per difetto di causa.
La ricorrente ritiene che, seguendo l’interpretazione data dai giudici di appello, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, sarebbe inutiliter datum posto che si limiterebbe a dichiarare inopponibili all’amministrazione finanziaria contratti che sarebbero già nulli per illiceità o per mancanza della causa.
Secondo la ricorrente, nel caso in cui, come nella specie, l’ufficio contesti ad una società fiscalmente residente la nullità del contratto di prestito delle azioni concluso con altra società residente nell’Unione Europea, sul presupposto che tale contratto sarebbe stato concluso unicamente allo scopo di garantire alla società residente indebiti vantaggi tributari, esorbitando dalla normale logica commerciale, viola il D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, artt. 37-bis, 39, 42, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3 (Statuto del contribuente), nonché gli artt. 1325,1343,1344 e 1345 c.c., e l’art. 12 preleggi; di conseguenza, la sentenza della C.t.r., impugnata nel presente giudizio, incorre nella medesime violazione di legge nel ritenere che tale contratto sarebbe nullo perché volto esclusivamente a perseguire vantaggi di carattere fiscale, anziché ritenere che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tale contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti ed obblighi.
Ritiene la ricorrente che la facoltà di invocare il principio dell’abuso del diritto al di fuori delle previsioni di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, per farne discendere la nullità del negozio, sarebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., sull’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione, nonché la disposizione dell’ultimo periodo della L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3 (Statuto del contribuente), che stabilisce testualmente che “le violazioni di disposizioni di rilievo esclusivamente tributario non possono essere causa di nullità del contratto”.
Inoltre, lo specifico regime d’inopponibilità dei negozi conclusi in frode alla legge tributaria introdotto dalla norma antielusiva del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis, in relazione alla materia di imposte sui redditi ed alle operazioni ivi elencate, nonché dalla L. 21 novembre 2000, n. 342, art. 69, comma 7, in materia di imposta di successioni e donazioni, precluderebbe l’applicazione, per le materie ed operazioni così individuate, del principio di nullità dei negozi per frode alla legge sancito dall’art. 1344 c.c..
La prima norma, per il principio di specialità, non potrebbe che derogare la seconda, in quanto risulta speciale rispetto ad essa proprio per il fatto che ha ad oggetto le materie ed operazioni così individuate. Per di più, il perseguimento di uno scopo esclusivamente fiscale non potrebbe determinare la nullità di un contratto, se tale requisito non è poi, invece, elemento sufficiente affinché se ne possa eccepire l’inopponibilità ai sensi del D.P.R. n. 600, art. 37-bis, posto che tale disposizione lascia chiaramente intendere che tale inopponibilità scatta soltanto laddove ricorrano, congiuntamente, anche gli ulteriori requisiti dell’aggiramento di divieti ed obblighi tributari ed il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti ed obblighi.
La ricorrente formula, quindi, il seguente quesito di diritto: ” se – nel caso in cui, come nella specie, l’ufficio contesti ad una società fiscalmente residente la nullità del contratto di prestito delle azioni concluso con altra società residente nell’Unione Europea sul presupposto che tale contratto sarebbe stato concluso unicamente allo scopo di garantire alla società residente indebiti vantaggi tributari, esorbitando dalla normale logica commerciale, – violi e falsamente applichi il D.P.R. 20 settembre 1973, n. 600, artt. 37 bis, 39, 42, la L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10, comma 3 (Statuto del contribuente), nonché gli artt. 1325,1343,1344 e 1345 c.c., e l’art. 12 preleggi, la sentenza della C.t.r. che, come quella impugnata nel presente giudizio, stabilisca che tale contratto sarebbe nullo perché volto esclusivamente a perseguire vantaggi di carattere fiscale; anziché ritenere che la violazione delle disposizioni di carattere fiscale non comporta mai la nullità del contratto posto in essere dal contribuente, in quanto l’Amministrazione finanziaria, per eccepire l’inopponibilità degli effetti di tate contratto, è tenuta altresì a dimostrare l’aggiramento di specifici divieti ed obblighi tributari nonché il conseguimento di un vantaggio fiscale indebito perché ottenuto in elusione di tali divieti ed obblighi”.
1.5 Con il quinto motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1414,1418,1813,1815 e 1933 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, art. 62.
Secondo la ricorrente, la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che un contratto di prestito delle azioni che preveda una remunerazione variabile per il mutuante in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalle azioni oggetto di prestito configurerebbe un negozio atipico a carattere aleatorio.
Ritiene la ricorrente che la sentenza impugnata merita di essere cassata in quanto erroneamente i giudici di appello hanno negato di poter sussumere il contratto di prestito di azioni concluso da ***** s.r.l. nella tipologia del mutuo disciplinato dall’art. 1815 c.c., ritenendo che configurasse invece un contratto aleatorio, per poi giudicarlo nullo per insussistenza della aleatorietà.
In particolare i giudici di appello, dopo aver sostenuto che “il contratto in esame di stock lending è atipico ai fini civilistici”, hanno ritenuto che “la scommessa non è tra pari” in quanto detto contratto vedrebbe “”l’altro contraente (DFD) in un’obiettiva posizione di forza” e capace di “influire sul loro ammontare (nda, dei dividendi distribuiti)” il quale sarebbe ” rilevante ai fini dei risultati pratici dell’operazione”.
Secondo i giudici di appello, dunque, la circostanza che l’entità della retribuzione spettante a DFD per il prestito delle azioni variasse in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalla società le cui azioni erano oggetto di prestito e la circostanza che DFD possedesse una “posizione di forza” rispetto ad ***** s.r.l. sarebbero sufficienti a mutare la natura del contratto medesimo, da negozio di mutuo, regolato dall’art. 1813 e ss. c.c., a contratto atipico a carattere aleatorio consistente in una “scommessa”.
Senonché, la ricorrente ritiene che la conclusione cui è giunta la C.t.r. sia assolutamente infondata in quanto i giudici avrebbero violato, non solo l’art. 1362 c.c., avendo interpretato il contratto di prestito delle azioni concluso tra ***** s.r.l. e DFD in modo opposto rispetto alla comune intenzione delle parti contraenti desumibile dal tenore letterale delle clausole e dal comportamento delle stesse, ma anche l’art. 1815 c.c., avendo ritenuto che la determinazione del corrispettivo costituisca elemento essenziale del contratto di mutuo, come tale idoneo ad incidere sulla sua causa.
Ciò in quanto non soltanto ***** s.r.l. e DFD indubitabilmente avrebbero inteso concludere nient’altro che un contratto tipico di mutuo, ma anche e soprattutto perché quella che i giudici di merito asseriscono essere un “negozio aleatorio”, compresente rispetto al contratto di mutuo di azioni, altro non è se non la clausola di fissazione del corrispettivo a favore del mutuante, destinata a variare in funzione dell’ammontare dei dividendi distribuiti in base alle azioni oggetto del prestito.
La ricorrente, inoltre, richiama l’indirizzo della Corte, secondo cui “quando come nel caso si utilizza un tipo normativo di accordo non è neppure ipotizzabile la nullità del contratto ex art. 1418 c.c.” (Cass., sez. I, 9 luglio 2003, n. 10789), ed il principio interpretativo di “conservazione del contratto”, contenuto nell’art. 1367 c.c., per il quale “nel dubbio, il contratto o le singole clausole devono interpretarsi nel senso in cui possono avere qualche effetto, anziché in quello secondo cui non ne avrebbero alcuno”.
In definitiva, secondo la ricorrente, un negozio non può essere considerato nullo per mancanza di causa o per causa contraria alla legge per il solo fatto che, non considerando i vantaggi fiscali, genererebbe una perdita economica per una delle parti in quanto tale perdita economica può derivare da una retrocessione di vantaggi fiscali che il legislatore non solo non ha vietato, ma ha implicitamente od esplicitamente legittimato. L’esame della legittimità di tali vantaggi fiscali, quindi, deve necessariamente essere condotto alla luce della clausola antielusiva generale e secondo le modalità stabilite dal D.P.R. n. 600, art. 37-bis, e non richiamando impropriamente categorie civilistiche del tutto irrilevanti ai fini de quibus.
La ricorrente, quindi, pone il seguente quesito di diritto: ” se – nel caso di – contratto di prestito di azioni regolato dal diritto italiano che preveda una remunerazione variabile per il mutuante in dipendenza dell’ammontare dei dividendi distribuiti dalle azioni oggetto del prestito, tale per cui detta remunerazione, in ipotesi, potrebbe risultare superiore all’ammontare dei dividendi medesimi; – viola e falsamente applica gli artt. 1325,1343,1344,1345,1362,1367,1813,1815 e 1933 c.c., la sentenza della C.t.r. che, come nel caso di specie, ritiene che tale contratto abbia natura di negozio aleatorio atipico, e lo ritenga perciò nullo, sia per assenza dell’elemento essenziale costituito da un’alea effettiva per illiceità della causa, in quanto volto esclusivamente ad attribuire vantaggi tributari a favore del mutuatario; – anziché ritenere tale contratto configurare un negozio tipico di mutuo regolato dall’art. 1813 e ss. c.c., di talché non soltanto né l’alea sottostante la determinazione del corrispettivo a favore del mutuante né la materiale consegna delle azioni ne costituiscono elementi essenziali, ma non ne è consentito neppure il sindacato circa la meritevolezza della relativa causa assegnata per legge, essendo peraltro lecito sotto il profilo civilistico, ed in disparte ogni considerazione di carattere fiscale, tenere conto nella determinazione dei corrispettivi dei negozi traslativi degli effetti fiscali di tale negozio nella misura in cui incidono sul valore economico dei beni e dei diritti trasferiti”.
1.6. Con il sesto motivo, la ricorrente denunzia la nullità della sentenza per la violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, artt. 36 e 62, e dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.
Secondo la ricorrente, la motivazione della C.t.r. sul motivo di appello della società, secondo cui l’illiceità civilistica di un contratto non costituisce ragione sufficiente per considerare indeducibili i costi che ne scaturiscono, ai sensi della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, sarebbe meramente apparente.
Ritiene la ricorrente che il giudice di appello, nell’affermare che i costi erano indeducibili perché attenevano, non a proventi illeciti, ma ad un contratto nullo, perché privo di causa, avrebbe meramente riprodotto la stessa argomentazione del giudice di prime cure, senza specificare altro.
1.7. Con il settimo motivo, la ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 109, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, art. 62.
La ricorrente deduce che la sentenza impugnata avrebbe erroneamente escluso che gli oneri sostenuti in dipendenza di contratti civilisticamente nulli sono in ogni caso deducibili dal reddito imponibile Ires del soggetto che li ha sostenuti.
Innanzitutto la ricorrente rileva che l’art. 109 T.u.i.r., comma 5, stabilendo che “le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi”, considera i componenti negativi di reddito come inerenti alla determinazione dell’imponibile Ires per il semplice fatto che si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che fruiscano di un regime di esclusione.
Tale presupposto, secondo la ricorrente, risulterebbe pienamente integrato nel caso di specie per il semplice fatto che la commissione è sostenuta per il prestito di azioni che sono produttive di proventi imponibili per il 5 per cento del relativo ammontare ed esclusi per il residuo 95 per cento. D’altro canto, la L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, confermerebbero la piena deducibilità dei costi derivanti da contratti illeciti. Tale art., comma 4, stabilendo che “nelle categorie di reddito di cui all’art. 6 TUIR, comma 1, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale” e che “i relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”, chiarirebbe che anche i redditi derivanti da atti civilisticamente illeciti devono essere determinati secondo le regole previste per le categorie in cui siano riconducibili e quindi deducendo i relativi componenti negativi di reddito. Coerentemente, il successivo comma 4 bis, stabilendo nella formulazione pro tempore vigente che “nella determinazione dei redditi di cui art. 6 TUIR, comma 1… non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti” farebbe intendere a contrario che sono sempre ammessi in deduzione le spese riconducibili ad atti civilisticamente illeciti.
Rileva, inoltre, la contribuente che di questo avviso si era mostrata la stessa Agenzia delle Entrate nella circolare 26 settembre 2005, n. 42/E.
Sebbene non sia in discussione, la contribuente richiama il consolidato orientamento della Corte di Giustizia in materia di esercizio al diritto della detrazione Iva, secondo cui un’operazione che integra gli elementi oggettivi di una cessione di beni rileva, agli effetti dell’applicazione dell’Iva, come tale quand’anche si tratti di un’operazione illecita in base al diritto dello Stato membro.
La ricorrente pone, quindi, il seguente quesito di diritto: “se, in un caso come quello di specie, in cui l’ufficio recuperi a tassazione gli oneri sostenuti in relazione ad un contratto di prestito di azioni, nonché disconosca la parziale esclusione dall’imponibile dei dividendi percepiti in base alle azioni oggetto di prestito, in quanto ritiene civilisticamente nullo tale contrato di prestito, viola e falsamente applica l’art. 109 TUIR, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, la sentenza della C.t.r. che, come nella specie, confermi l’operato dell’Ufficio ritenendo inapplicabili alla fattispecie le richiamate disposizioni in quanto non trattasi di illecito civile bensì di contratto nullo per assenza di causa; – anziché ritenere che, ai sensi degli arti, 109 TUIR, e della L. 24 dicembre 1993, n. 537, art. 14, commi 4 e 4-bis, sono pienamente rilevanti agli effetti fiscali i componenti negativi di reddito derivanti da atti e contratti civilisticamente illeciti, quali i contratti nulli per causa contraria alla legge o per assenza di causa”.
2.1. I motivi di ricorso, come sopra riepilogati, devono essere esaminati congiuntamente, perché connessi; essi sono in parte inammissibili ed in parte infondati e vanno rigettati, anche se la motivazione della decisione impugnata deve essere corretta, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., u.c..
Preliminarmente, va rilevato che l’art. 366-bis c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, art. 6, e contenente la previsione della formulazione del quesito di diritto, come condizione di ammissibilità del ricorso per cassazione, si applica ratione temporis ai ricorsi proposti avverso sentenze e provvedimenti pubblicati a decorrere dal 2 marzo 2006 (data di entrata in vigore del medesimo decreto) e fino al 4 luglio 2009 (data dalla quale opera la successiva abrogazione della norma, disposta dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 47) (Cass., sez. 5, 19/11/2014, n. 24597).
Pertanto, laddove i motivi (attinenti alla violazione di legge) si concludono con un quesito, questo deve intendersi con mera funzione riassuntiva delle argomentazioni contenute nell’illustrazione del motivo stesso.
La fattispecie in esame ha ad oggetto la stipula di un contratto denominato stock lending agreement tra la odierna ricorrente e la società ceca DFD s.r.o., che consiste in un prestito di titoli contro pagamento di una commissione (fee) e contestuale costituzione da parte del mutuatario (borrower) di una garanzia, rappresentata da denaro o da altri titoli di valore complessivamente superiore a quello dei titoli ricevuti in prestito, chiamata Collaterale, a favore del mutuante (lender), a garanzia dell’obbligo di restituzione dei titoli ricevuti.
La giurisprudenza di questa Corte (vedi Cass. n. 11872/2017, n. 20424/2020, n. 9628/2021, n. 8061/2021, n. 16145/2021, tutte su fattispecie analoghe alla presente, con ampia motivazione alla quale si rimanda) ha già chiarito che il contratto di stock lending non è necessariamente un contratto elusivo, in frode alla legge o nullo per assenza di causa, in quanto, nella normalità delle ipotesi, ha una sua funzione economica e gestionale, identificabile nel consentire al soggetto che presta i titoli di conseguire la possibilità di beneficiare di margini reddituali senza assumere ulteriori rischi di mercato rispetto a quelli già presenti in portafoglio, mantenendo inalterata la flessibilità nella gestione dell’investimento e senza ostacolare in alcun modo le scelte operative.
Come è stato evidenziato, l’operazione, in genere, è sostanzialmente “neutrale” per il prestatario, che ottiene unicamente un vantaggio fiscale che gli deriva dalla intassabilità dei dividendi riscossi e dalla integrale deducibilità della commissione versata al prestatore, in quanto il contratto è di norma caratterizzata dall’assenza di qualsiasi alea contrattuale in ordine al versamento della commissione, ben sapendo le parti sin dalla sua conclusione sia che il prestatario dovrà pagare la fee, sia che l’importo di tale commissione sarà più o meno equivalente al valore dei dividendi distribuiti.
Nella specie, la Costruzioni AD s.r.l., in data *****, ha sottoscritto con la DFD Czech (società Ceca, controllata da una società con sede ad Hong Kong) un contratto di prestito di 500 (dal 2.11.2005 mille) azioni (dal valore nominale di 1 Euro) della Mont Bazon (società unipersonale portoghese, con sede nella zona franca di *****, di proprietà della DFD Czech); la Mont Bazon detiene una partecipazione azionaria, del valore di 90.000.000,00 di Euro, della Selected Capital Opportunity Ltd, avente sede nelle Isole Vergini britanniche.
A garanzia delle obbligazioni economiche scaturenti dal contratto, la ***** s.r.l. ha depositato su un proprio conto corrente, acceso presso la Banca di Gestione Patrimoniale di Lugano (Svizzera, BGP d’ora in avanti) la somma non decrementabile di Euro 23.000,00 (portata a 45.000,00 Euro nel 2005); la proprietà delle azioni e’, temporaneamente, trasferita alla società *****, ma questa ha rinunciato alla custodia dei titoli, i quali sono stati depositati dalla DFD, ad ulteriore garanzia dell’operazione, presso la ING TRUST di *****; i diritti economici pertinenti alle azioni sono trasferiti alla ***** s.r.l., mentre quelli amministrativi sono rimasti in capo alla DFD. Sul punto, è necessario precisare che DFD si è impegnata a non votare, senza l’approvazione scritta di ***** s.r.l., nell’assemblea della Mont Bazon la trasformazione, la fusione, la scissione o la liquidazione della società portoghese. Inoltre la DFD non può, contrattualmente, in sede di annuale approvazione del bilancio della Mont Bazon, che deliberare l’integrale distribuzione di tutti gli utili disponibili.
Il contratto tra le società prevede che, se la Mont Bazon distribuisce dividendi inferiori ad Euro 110.000,00 (E 220.000,00 dal 2005), questi rimangono nelle mani di ***** s.r.l. senza alcuna spesa; se, invece, la Mont Bazon distribuisce dividendi per un ammontare uguale o superiore ad Euro 110,000,00 (Euro 220.000,00 dal 2005), questi, maggiorati di un importo uguale al 15,22% della cifra stessa (sino ad un massimo di Euro 173.000,00), saranno attribuiti, a titolo di commissione, alla DFD.
Dal punto di vista fiscale, ai sensi del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 3, i dividendi percepiti dal mutuatario sono esenti da imposta sino al 95% dell’ammontare, mentre l’eventuale commissione pagata alla DFD veniva integralmente dedotta stesso decreto, ex art. 109.
In relazione all’anno di imposta in esame (2005), i dividendi distribuiti dalla Mont Bazon a favore della ***** s.r.l. sono stati pari ad Euro 260.229,00 (quindi superiori ad Euro 220.000,00) e la commissione dovuta è stata pari ad Euro 299.836,42 (Euro 260.229,00 +260.229,00 x 15,22%); dunque, la ***** s.r.l. ha indicato in bilancio dividendi imponibili pari ad Euro 13,011,47 (5% di Euro 260.229,00) ed una commissione deducibile pari ad Euro 299.836,42 con un conseguente risultato negativo ai fini fiscali pari ad Euro 286.824,95 ed un risparmio di imposta complessivo pari ad Euro 94.652,23 (286.824,95×33%).
La Commissione tributaria, con la decisione impugnata in questa sede, ha ritenuto che l’avviso di accertamento, emesso D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 41-bis, senza la necessità del contraddittorio preventivo di cui allo stesso D.P.R., art. 37 – bis, fosse adeguatamente motivato nel senso che l’operazione di prestito delle azioni fosse nulla per contrarietà alla legge; la C.t.r., inoltre, nel valutare la complessiva operazione sopra descritta, ha affermato che con il contratto in esame la contribuente ha ottenuto l’indebito vantaggio fiscale dell’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon e la deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta; ha ritenuto che questi vantaggi fiscali costituissero la “vera causa del contratto sottoscritto”, “nullo in virtù di causa contraria alla legge”, con conseguente inopponibilità al fisco degli effetti conseguiti.
I giudici di appello, prendendo le mosse dalla tesi difensiva dell’Amministrazione finanziaria, la quale aveva dedotto che l’operazione aveva natura aleatoria perché la causa principale del contratto era una vera e propria scommessa, basata sul verificarsi o meno di un evento aleatorio individuato nella distribuzione dei dividendi da parte della società portoghese Mont Bazon, hanno ritenuto che, in concreto, tale aleatorietà non fosse ravvisabile, in quanto la DFD, socia al 100 per cento della Mont Bazon che aveva emesso i titoli oggetto di prestito, aveva potuto prevedere i risultati della gestione e l’ammontare dei dividendi da distribuire.
Inoltre, la C.t.r. ha analiticamente evidenziato gli elementi in base ai quali poteva supporsi che sia la Mont Bazon, sia la DFD fossero società non operative, meri schermi per consentire al mutuatario di conseguire i benefici derivanti dall’esclusione dalla base imponibile dei proventi esteri di cui all’art. 89 T.u.i.r., comma 2 (in relazione a titoli mai consegnati al mutuatario)e dalla deduzione delle commissioni (il cui pagamento era avvenuto attraverso una banca svizzera, BGP di *****, priva di autorizzazione ad esercitare in Italia attività di promozione finanziaria).
2.2. Date tali premesse, ritiene il collegio che la decisione della C.t.r. sia da confermare, sebbene la motivazione vada corretta, ex art. 384 c.p.c..
In primo luogo, deve rilevarsi che sfugge alla disponibilità delle parti e spetta al giudice la determinazione della norma in base alla quale si deve giudicare la singola fattispecie.
Nel caso in esame, appare evidente che le parti concordano sul contenuto degli accordi di prestito di azioni e dibattono solo la soluzione giuridica di riferimento, in ordine alla quale la Corte ritiene, come già argomentato nelle precedenti decisioni su analoghe questioni, che sia riscontrabile la contrarietà dell’operazione in esame al combinato disposto dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, e dell’art. 89T.u.i.r.
Invero, il fulcro della ripresa a tassazione può individuarsi nella contrarietà dell’operazione al combinato disposto dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, e dell’art. 89T.u.i.r., contrarietà sostanzialmente contestata alla contribuente con l’avviso di accertamento e riconosciuta dai giudici di appello nella sentenza impugnata.
In particolare, il giudice di appello, pur argomentando in ordine all’inopponibilità degli effetti del contratto nullo all’amministrazione finanziaria, individua come indebito vantaggio fiscale, posto a base dell’accertamento, quello derivante dall’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon e dalla contemporanea deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee corrisposta.
Come si è detto, questa Corte ha già avuto modo di rilevare, in casi del tutto analoghi a quello in esame, che risulta irrilevante ricondurre la fattispecie in esame a figure negoziali nulle sotto il profilo civilistico, ovvero ad ipotesi elusive (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis), poiché l’operazione, da inquadrarsi nel contratto di stock /ending di cui si è detto, è piuttosto finalizzata a consentire l’applicazione ai dividendi del citato art. 89 T.u.i.r., con conseguente concorso alla formazione dell’imponibile nella sola misura del 5 per cento degli utili, ed a realizzare un indebito risparmio di imposta discendente dalla integrale deduzione dei costi di commissione, in violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 8, ratione temporis applicabile, con conseguente variazione dell’imponibile Ires, che costituisce l’autentico fondamento del recupero a tassazione.
Ciò in quanto la fattispecie in oggetto realizza il medesimo fenomeno economico dell’usufrutto di azioni, senza che rilevi, ai fini tributari, che nell’un caso si verta su un diritto reale e, nell’altro, su un diritto di credito, sicché anche il contratto di stock/ending è soggetto ai limiti previsti dall’art. 109 T.u.i.r., comma 8, restando il versamento della commissione costo indeducibile” (Cass. n. 11872/2017; Cass. n. 20424/2020; Cass. n. 8061/2021 citata; Cass. n. 12508/2021).
Invero, l’art. 109 T.u.i.r., comma 5, prevede che “5. Le spese e gli altri componenti negativi diversi dagli interessi passivi, tranne gli oneri fiscali, contributivi e di utilità sociale, sono deducibili se e nella misura in cui si riferiscono ad attività o beni da cui derivano ricavi o altri proventi che concorrono a formare il reddito o che non vi concorrono in quanto esclusi. Se si riferiscono indistintamente ad attività o beni produttivi di proventi computabili e ad attività o beni produttivi di proventi non computabili in quanto esenti nella determinazione del reddito sono deducibili per la parte corrispondente al rapporto di cui all’art. 96, commi 1, 2, 3…”.
Il successivo comma 8, poi, dispone: “8. In deroga al comma 5, non è deducibile il costo sostenuto per l’acquisto del diritto d’usufrutto o altro diritto analogo relativamente ad una partecipazione societaria da cui derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89”.
L’applicazione alla fattispecie in esame dell’art. 109 T.u.i.r., citato comma 8, non configura una impropria estensione analogica del dettato della norma, che si riferisce letteralmente “ad altro diritto analogo”, senza ulteriori connotazioni, in quanto la disposizione non va intesa come meramente confinata ai soli diritti reali (interpretazione che, del resto, avrebbe una valenza abrogatoria), non deponendo in tal senso né la lettera, né lo spirito della disposizione (Cass. n. 11872 del 2017, cit.).
Ne’ sembra fondata la considerazione avanzata da autorevole dottrina, che critica l’indeducibilità del cd. “manufactured dividend”, sostenendo che la sentenza n. 11872/2017 di questa Corte, che per prima ha ricondotto la fattispecie in esame alla violazione dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, avrebbe travisato le ragioni dell’indeducibilità del costo dell’usufrutto su partecipazioni, che non si collegherebbe alla percezione di dividendi esclusi da imposta, ma alla simmetrica intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto.
Tale argomento non pare sostenibile di fronte al dato testuale della norma, che equipara il “diritto di usufrutto” ad ogni “altro analogo diritto” e fa discendere l’indeducibilità del costo per l’acquisto del diritto al fatto che dalla partecipazione acquisita derivino utili esclusi ai sensi dell’art. 89 T.u.i.r..
Del resto, anche la considerazione sul senso della “simmetria fiscale”, che sarebbe stata infranta dall’orientamento della giurisprudenza di legittimità che prende le mosse dalla sentenza del 2017, non si adatta alla fattispecie in esame, perché, se è vera l’intassabilità della plusvalenza in capo al soggetto che ha costituito l’usufrutto, mediante lo strumento indiretto del prestito titoli con commissioni non vi potrebbe mai essere in radice qualsivoglia plusvalenza, non essendovi un contratto traslativo.
Anche la circostanza che il legislatore abbia introdotto nel tempo specifiche clausola antielusive per l’ipotesi, ad esempio, di dividend washing, nei contratti di pronti contro termine o nelle vendite di partecipazioni con patto di riacquisto, non contrasta con l’interpretazione normativa prospettata, ma significa soltanto che, a parte la clausola generale estensiva dell’art. 109 T.u.i.r., comma 8, si è voluta dare regolamentazione specifica a talune fattispecie di confine, altrimenti difficilmente qualificabili.
Non vi e’, dunque, motivo per discostarsi dalle precedenti pronunce di questa Corte già ampiamente citate; tuttavia deve riconoscersi che tale orientamento tende ad allontanarsi dal modello elusivo delineato dalla sentenza n. 40272 del 7 ottobre 2015 della Terza sezione penale della Cassazione, che escludeva la possibilità di ricadute penali in base all’art. 10-bis, aggiunto alla L. 27 giugno 2000, n. 212, cd. Statuto del contribuente, dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1 (che esclude espressamente che le operazioni che siano prive di sostanza economica e realizzino vantaggi fiscali indebiti possano dar luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie).
Per quanto fin qui detto il ricorso va complessivamente rigettato, essendo infondato il settimo motivo, sulla violazione dell’art. 109 T.u.i.r., ed inammissibili tutti gli altri, perché irrilevanti o non decisivi alla luce dell’interpretazione normativa adottata.
Invero, avendo ritenuto la diretta contrarietà della fattispecie in esame alla norma di cui all’art. 109 T.u.i.r., comma 8, in tema di deducibilità degli oneri collegati all’acquisto temporaneo di partecipazione societarie i cui utili sono esclusi da tassazione ai sensi dell’art. 89 T.u.i.r., non ha alcun rilievo ogni questione (con particolare riferimento a quelle contenute nel quinto e sesto motivo di ricorso) attinente alla qualificazione del contratto da un punto di vista civilistico, nonché alla sua validità ed efficacia inter partes.
Neanche rileva che l’amministrazione non abbia seguito il procedimento richiesto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis (primo, secondo e quarto motivo di ricorso) per la contestazione al contribuente di fattispecie elusive, non essendo in presenza di un’ipotesi di tale natura.
In particolare, pur concordando con l’osservazione della ricorrente (sviluppata in particolare nel primo e secondo motivo di ricorso), secondo cui le disposizioni dei citati artt. 37 – bis e 41, operano su piani diversi, l’una prevedendo l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria delle fattispecie elusive, l’altra disciplinando le modalità di esecuzione degli accertamenti cd. parziali, ritiene il collegio che tale rilievo sia ininfluente nella fattispecie in esame, che non rientra in un caso di elusione fiscale.
Ne’, in tema di imposte dirette, si rinviene un principio generale che imponga il contraddittorio preventivo con il contribuente.
Invero, “in tema di diritti e garanzie del contribuente sottoposto a verifiche fiscali, l’Amministrazione finanziaria è gravata di un obbligo generale di contraddittorio endoprocedimentale, la cui violazione comporta l’invalidità dell’atto purché il contribuente abbia assolto all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere e non abbia proposto un’opposizione meramente pretestuosa, esclusivamente per i tributi “armonizzati”, mentre, per quelli “non armonizzati”, non è rinvenibile, nella legislazione nazionale, un analogo generalizzato vincolo, sicché esso sussiste solo per le ipotesi in cui risulti specificamente sancito” (Cass. S.U. n. 24823/2015).
Infine, anche la doglianza, formulata nel terzo motivo con riferimento all’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, è inammissibile.
Con tale motivo, la ricorrente si duole del fatto che il giudice di secondo grado non abbia preso in esame il motivo di appello con cui la contribuente censurava la contraddittorietà della motivazione dell’atto impositivo, già dedotta come motivo di ricorso in primo grado.
Tuttavia, la C.t.r., rigettando la doglianza, ha dato atto che l’avviso contestava alla contribuente il raggiungimento di un doppio beneficio fiscale contra legem (l’esclusione da tassazione del 95 per cento dei dividendi distribuiti dalla Mont Bazon e la deduzione integrale dal reddito fiscalmente imponibile della fee); pertanto ha ritenuto che l’Agenzia delle entrate avesse considerato che il contratto era inopponibile all’amministrazione perché la sua causa principale ed effettiva (il conseguimento di indebiti vantaggi fiscali) era contraria alla normativa vigente.
Al riguardo, questa Corte ha rilevato che i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione possono essere plurali ma, ovviamente, non in contrasto fra loro e che la pretesa impositiva, per essere conforme a legge, può basarsi su elementi concorrenti, purché non vi siano presupposti fattuali contrastanti (vedi Cass. n. 25197/2009, richiamata in ricorso).
Pertanto, il ricorso è complessivamente infondato e va rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a pagare all’Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.600,00, a titolo di compenso, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 28 gennaio 2022.
Depositato in Cancelleria il 21 febbraio 2022
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