Corte di Cassazione, sez. Lavoro, Ordinanza n.640 del 11/01/2022

Pubblicato il

Condividi su FacebookCondividi su LinkedinCondividi su Twitter

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – Consigliere –

Dott. DI PAOLANTONIO Annalisa – Consigliere –

Dott. MAROTTA Caterina – rel. Consigliere –

Dott. TRICOMI Irene – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17142-2017 proposto da:

C.A., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA SAN LORENZO IN LUCINA N. 26, presso lo studio dell’avvocato SAVERIO STICCHI DAMIANI, rappresentato e difeso dall’avvocato FERNANDO CARACUTA;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA LOCALE TARANTO – (A.S.L. TA), in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA COSSERIA n. 2, presso lo studio ALFREDO PLACIDI, rappresentata e difesa dall’avvocato MARIANGELA CARULLI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 435/2016 della CORTE D’APPELLO DI LECCE SEZ. DIST. DI TARANTO, depositata il 09/01/2017 R.G.N. 465/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di 3264 consiglio del 27/10/2021 dal Consigliere Dott.ssa MAROTTA CATERINA.

RILEVATO

che:

1. La Corte d’appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, con sentenza n. 435/2016, decidendo sull’impugnazione proposta da C.A. nei confronti dell’ASL di Taranto, confermava la pronuncia del locale Tribunale che aveva respinto la domanda del C. medesimo, dal 1980 dipendente dell’ASL, intesa ad ottenerne la condanna al risarcimento del danno previo accertamento dell’illegittimità del comportamento dell’Azienda consistito in una ripetuta e sistematica condotta mobbizzante che aveva isolato dal contesto lavorativo il ricorrente, nel contempo svuotandone le mansioni;

2. riteneva la Corte territoriale non essere stata raggiunta la prova della lamentata condotta mobbizzante;

condivideva la disamina operata dal Tribunale circa gli elementi costitutivi del mobbing e riteneva che ne fosse mancata la dimostrazione;

evidenziava, inoltre, che quanto emerso dalle deposizioni testimoniali e dalla documentazione acquisita non fosse sufficiente a provare né l’esistenza di comportamenti vessatori e persecutori né il nesso causale dei danni lamentati rispetto al preteso illegittimo comportamento datoriale;

richiamava le pregresse vicende che lo avevano visto protagonista, fra cui la condanna penale definitiva che aveva riportato per i reati di cui agli artt. 521 e 542 c.p., il provvedimento di sospensione dal servizio dal maggio 1999 al novembre 2000, i fatti intervenuti dopo il suo rientro in servizio, nonché lo scambio di corrispondenza tra le parti teso al recupero delle somme trattenute dall’Azienda durante il periodo di sospensione;

rilevava che in detto contesto era stata sì registrata una litigiosità tra il C. ed una dottoressa (il che aveva indotto il primo a chiedere il trasferimento ad altro incarico), ma che ciò era rimasto circoscritto ai rapporti personali tra i due dipendenti anche perché della risoluzione della questione non erano stati investiti i competenti superiori;

evidenziava che non era emersa la prova di una pericolosità per la salute del locale destinato a spogliatoio ed escludeva che si trattasse di un fatto prefigurante un comportamento vessatorio, trattandosi d’un locale destinato all’uso anche di altri dipendenti;

rimarcava che il C. era stato trasferito più volte sempre su sua richiesta e nel rispetto della qualifica di appartenenza;

sottolineava, da ultimo, che il predetto era stato adibito al centralino in quanto gli erano state diagnosticate patologie che ne limitavano l’impiego in mansioni del suo livello che comportassero lavori pesanti e dannosi per il rachide e che, poi, il lavoratore era stato ulteriormente trasferito alla Direzione amministrativa in ragione dell’accertata steatosi epatica con segni di pregressa epatite da virus B che consigliava di evitare rapporti diretti con l’utenza;

si era trattato, in sostanza, di provvedimenti adottati per tutelare la salute del C. e non certo per mobbizzarlo;

in ogni caso era del tutto mancata la prova del danno alla professionalità ovvero di un pregiudizio economico, visto che il C. aveva mantenuto lo stesso trattamento retributivo;

escludeva che il pregiudizio per la salute fosse ricollegabile al comportamento datoriale;

3. per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso C.A. con tre motivi;

4. l’ASL Taranto ha resistito con controricorso;

5. il ricorrente ha depositato memoria.

CONSIDERATO

che:

1. con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2712 c.c., degli artt. 115,116c.p.c., art. 132c.p.c., n. 4, art. 118disp. att. c.p.c., commi 1 e 2, dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4 nonché violazione e falsa applicazione del principio di imparzialità del giudice, dell’art. 51 c.p.c., commi 1 e 2, artt. 158,161 c.p.c., art. 97 Cost. e art. 111 Cost., commi 1 e 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4;

sostiene che la Corte d’appello, come già il Tribunale, non ha valutato le prove offerte dal ricorrente, prove che avrebbero dimostrato la sussistenza di un nesso di causalità tra la sentenza di condanna penale emessa nei suoi confronti ed il comportamento dei funzionari ASL, che avrebbero macchinato ai suoi danni determinando l’ingiusta condanna;

lamenta che tanto in primo grado quanto in appello non si è fatto cenno ad un’intercettazione ambientale che avrebbe provato una cospirazione ai suoi danni;

assume, con ulteriore profilo di censura, che il procedimento penale a suo carico era scaturito da sue dichiarazioni rese nell’ambito di altro procedimento penale a carico di funzionari dell’ASL;

rileva che il suo esame testimoniale ed il confronto con altro teste (incombenti che avevano poi dato origine al procedimento penale a suo carico per falsa testimonianza) erano stati condotti dalla Dott.ssa Lastella che, poi assegnata alla sezione lavoro e ritrovatasi a decidere sulla domanda risarcitoria del C., non si era astenuta malgrado il dovere di imparzialità e terzietà del giudice;

2. il motivo, nelle varie censure in cui è articolato, è infondato;

3. occorre ribadire che la motivazione “per relationem” non è una motivazione inesistente e che la sentenza d’appello può essere motivata “per relationem”, purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (v. ex multis Cass. 3 febbraio 2021, n. 2397; Cass. 23 settembre 2019, n. 18754; Cass. 5 agosto 2019, n. 20883; Cass. 5 novembre 2018, n. 28139);

nella specie, vi è stata non già una motivazione “per relationem” priva di ogni intellegibile aggancio con il caso concreto, bensì una esplicita adesione della Corte territoriale alle argomentazioni del primo giudice, non scalfite dai rilievi dell’appellante;

in sostanza, nella vicenda in oggetto, la condivisione della motivazione impugnata è stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame, anche perché le agitate questioni penali si sono rivelate ininfluenti rispetto alla denunciata responsabilità aziendale;

quanto all’ulteriore questione posta dal ricorrente con riferimento alla mancata astensione del giudice che, in sede penale, aveva condotto il confronto testimoniale da cui era scaturito il procedimento penale, per affermarne l’infondatezza è sufficiente osservare che: 1) non risulta che la stessa sia stata posta in sede di appello; 2) non risulta alcuna istanza di ricusazione; 3) in difetto di ricusazione, un’ipotetica eventuale violazione (peraltro qui neppure ravvisabile) dell’obbligo di astenersi da parte del giudice non è deducibile in sede di impugnazione come motivo di nullità della sentenza da lui emessa, giacché l’art. 111 Cost., nel fissare i principi fondamentali del giusto processo (tra i quali, appunto, l’imparzialità e terzietà del giudice), ha demandato al legislatore ordinario di dettarne la disciplina e, in considerazione della peculiarità del processo civile, fondato sull’impulso paritario delle parti, non è arbitraria la scelta del legislatore di garantire, nell’ipotesi anzidetta, l’imparzialità e terzietà del giudice tramite gli istituti dell’astensione e della ricusazione; né detti istituti, cui si aggiunge quello dell’impugnazione della decisione nel caso di mancato accoglimento della ricusazione, possono reputarsi strumenti di tutela inadeguati o incongrui a garantire in modo efficace il diritto della parti alla imparzialità del giudice, dovendosi, quindi, escludere un contrasto con la norma recata dall’art. 6 Convenzione EDU, che, sotto l’ulteriore profilo dei contenuti di cui si permea il valore dell’imparzialità del giudice, nulla aggiunge rispetto a quanto già previsto dal citato art. 111 Cost. (ex multis Cass. 11 settembre 2017, n. 21094);

3. con il secondo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 2712 c.c., degli artt. 115,116c.p.c., art. 132c.p.c., n. 4, art. 118disp. att. c.p.c., commi 1 e 2, dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4;

formula le stesse censure di cui al primo motivo di ricorso con riguardo alle ulteriori circostanze di fatto esposte dal C. nella fase di merito;

insiste anche in questo caso sulla vicenda penale, aggiungendo che contro la sentenza di condanna era stata proposta istanza di revisione dichiarata ammissibile dalla Corte d’appello di Catanzaro;

richiama una corrispondenza intercorsa con l’Ufficio per il procedimento disciplinare che non aveva pronunciato, come richiesto dal C., l’estinzione del procedimento medesimo, riservando ogni decisione all’eventuale notifica del provvedimento di assoluzione;

richiama anche le vicende relative alla riapertura del procedimento disciplinare a seguito della sentenza definitiva di condanna;

4. il motivo è infondato, dovendo richiamarsi quanto evidenziato riguardo al primo otivo;

il giudizio di irrilevanza degli atti del procedimento penale attiene alla fase di merito e non può il ricorrente, in questa sede di legittimità, contrapporre una propria lettura delle risultanze di causa diversa da quella effettuata dalla Corte territoriale;

5. con il terzo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175,1375,2087,2103,2107 c.c., dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 ed all’art. 111 Cost., comma 7;

censura la sentenza impugnata attribuendole un intrinseco vizio di incoerenza e contraddittorietà quanto al disconosciuto demansionamento e ciò in rapporto alle risultanze di causa;

rileva che dagli atti e dalle dichiarazioni testimoniali emergeva lo svuotamento di mansioni, significativo indice di persecutorietà;

richiama la giurisprudenza di questa Corte in materia di straining ed evidenzia che ai fini del danno è sufficiente anche una sola condotta con effetti lesivi duraturi nel tempo;

6. il motivo è inammissibile;

6.1. anche in questo caso il ricorrente, ad onta delle denunciate violazioni di legge, si duole del fatto che i giudici di appello non abbiano ravvisato gli elementi sintomatici del mobbing; ciò fa invocando una diversa ricostruzione dei fatti che, invece, è riservata all’apprezzamento del giudice di merito; in tal modo travalica ache i limiti imposti ad ogni accertamento di fatto dal novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (non formalmente denunciato ma, nella sostanza, rilevabile dal complessivo atteggiarsi dei rilievi), come interpretato da Cass., S.U., nn. 8053 e 8054 del 2014 (principi costantemente ribaditi dalle stesse Sezioni unite v. n. 19881 del 2014, n. 25008 del 2014, n. 417 del 2015, n. 9558 del 2018, n. 33679 del 2018, n. 34476 del 2019 oltre che dalle Sezioni semplici);

si aggiunga che il vizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (espressamente richiamato dal ricorrente in rubrica) va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate, ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al propino compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 287 del 2016; Cass. n. 635 del 2015; Cass. n. 25419 del 2014; Cass. n. 16038 del 2013; Cass. n. 3010 del 2012);

in realtà il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto ricorre o non ricorre a prescindere dalla motivazione posta dal giudice a fondamento della decisione, per l’esclusivo rilievo che, in relazione al fatto accertato, la norma, della cui esatta interpretazione non si disputa (in caso positivo vertendosi in controversia sulla “lettura” della norma stessa), non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata “male” applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente comprensibile nella norma (Cass. n. 26307 del 2014; Cass. n. 22348 del 2007);

sicché il processo di sussunzione, nell’ambito del sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto, presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata, il che nella specie non e’, atteso che, nel corpo del motivo in esame, parte ricorrente diffusamente critica la valutazione dei fatti come operata dai giudici del merito;

6.2. anche il riferimento allo straining non assume alcuna valenza significativa, avendo la Corte territoriale – a monte – escluso non solo qualsiasi demansionamento ovvero danno alla professionalità, ma anche la sussistenza di un nesso causale tra le patologie riscontrate e la condotta datoriale;

7. il ricorso, in via conclusiva, deve essere rigettato; alla soccombenza segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo;

8. occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., S.U., n. 4315/2020, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater,.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.000,00 per compensi professionali oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto, per il ricorso, a norma del citato art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 27 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 11 gennaio 2022

©2024 misterlex.it - [email protected] - Privacy - P.I. 02029690472