In tema di conciliazione sindacale è valido di un verbale stipulato tra datore e lavoratore al di fuori della sede sindacale?
È il quesito dii cui si occcupa la Sezione lavoro della Cassazione con l'ordinanza n. 1975 depositata il 18 gennaio 2024.
La Suprema Corte ha chiarito che la necessità di una sottoscrizione del verbale di conciliazione presso una sede sindacale non è da considerarsi un requisito formale imprescindibile, ma serve a garantire al lavoratore la piena consapevolezza dell'atto che sta compiendo. Se questa consapevolezza è assicurata, ad esempio attraverso spiegazioni esaurienti da parte del conciliatore sindacale, la finalità legislativa e contrattuale si considera raggiunta anche se la stipula avviene altrove, come evidenziato dal caso specifico in cui la conciliazione è stata firmata presso uno studio oculistico.
Sul fronte dell'onere della prova, la Cassazione ha sottolineato una distinzione importante:
Nel caso di specie, nonostante un'iniziale errata attribuzione dell'onere probatorio alla lavoratrice da parte della Corte territoriale, la Cassazione ha rilevato che ciò non ha inciso sulla validità della decisione, in quanto è stata comunque dimostrata l'effettiva assistenza sindacale e la genuina volontà della lavoratrice al momento della sottoscrizione del verbale. Questo approccio riflette l'importanza attribuita alla sostanza dell'assistenza sindacale e alla consapevolezza del lavoratore nei processi di conciliazione, piuttosto che aderire rigidamente a requisiti formali che potrebbero non influire sulla sostanza dell'accordo raggiunto.
In sintesi, la decisione della Cassazione sottolinea l'elasticità dell'interpretazione dei requisiti formali in materia di conciliazione sindacale, enfatizzando l'importanza della consapevolezza e volontà genuine del lavoratore, oltre a precisare il riparto dell'onere della prova in tali contesti.
In conclusione la validità di un verbale di conciliazione non dipende dalla sede di sottoscrizione ma dalla consapevolezza e genuina volontà del lavoratore, con specifici criteri per l'onere della prova basati sulla sede di conclusione dell'accordo.
In tema di conciliazione sindacale, la sottoscrizione dell'accordo presso la sede di un sindacato, in conformità alle previsioni dell'art. 412-ter c.p.c. e del contratto collettivo applicabile, non costituisce un requisito formale, ma funzionale, in quanto volto ad assicurare che la volontà del lavoratore sia espressa in modo genuino e non coartato; ne consegue che la stipula in una sede diversa non produce alcun effetto invalidante sulla transazione se il datore di lavoro prova che il dipendente ha avuto, grazie all'effettiva assistenza sindacale, piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Cassazione civile, sez. lav., ordinanza 18/01/2024 (ud. 22/11/2023) n. 1975
FATTI DI CAUSA
1. - Fl.Il., aveva lavorato alle dipendenze di Obiettivo Impresa di Vi.Ma. & C. sas presso la sede legale in Caserta, con mansioni di segretaria e centralinista da febbraio 2002, sebbene con inquadramento nel livello V ccnl solo da maggio 2003.
Deduceva che, a decorrere da gennaio 2003, aveva iniziato a svolgere mansioni superiori di addetta alla elaborazione dati e paghe; dal 2004 mansioni di contabile di ordine tipiche del IV livello; dal gennaio 2005 mansioni di analisi e gestione della contabilità e della cassa.
Aggiungeva di aver lavorato fino al mese di novembre da lunedì a venerdì dalle ore 08,30 alle ore 12,30 e dalle ore 14,30 alle ore 18,30, ma di aver lavorato spesso anche oltre le otto ore giornaliere e spesso anche il sabato mattina. Precisava che, per poter beneficiare di astensione facoltativa, da maggio 2006 a gennaio 2007 aveva lavorato sei ore giornaliere per cinque giorni alla settimana, ma successivamente aveva ripreso l'orario completo.
Deduceva di aver sottoscritto in data 12/03/2008 un verbale di conciliazione in sede sindacale, di cui non le era stata lettura.
Adìva pertanto il Tribunale di S. M. Capua Vetere per ottenere, previa declaratoria di nullità della conciliazione, l'accertamento del rapporto di lavoro subordinato fin da febbraio 2002, l'accertamento dello svolgimento di mansioni superiori proprie del IV livello e poi, da gennaio 2005, del III livello, la conseguente condanna della società al pagamento delle differenze retributive, pari alla somma di Euro 56.078,07.
2. - Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale dichiarava inammissibile la domanda per intervenuta conciliazione.
3. - Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'Appello rigettava il gravame interposto dalla Fl.Il..
Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:
a) l'inoppugnabilità della conciliazione, se stipulata in sede sindacale, è prevista dall'ultimo comma dell'art. 2113 c.c. in considerazione dell'effettiva partecipazione dei rappresentanti sindacali all'iter transattivo, poiché tale partecipazione fa venire meno la condizione di inferiorità del lavoratore, del quale dunque si garantisce una sostanziale libertà di volontà (Cass. n. 2244/1995);
b) il requisito della fiducia fra lavoratore e rappresentante sindacale può evincersi dalla firma contestuale del verbale da parte dei due soggetti;
c) dal verbale si evince che il rappresentante sindacale ha avvertito le parti circa gli effetti propri della conciliazione e della sua inoppugnabilità ed e indicato espressamente l'oggetto, ossia le rivendicazioni economiche della Fl.Il., per il periodo da febbraio 2002 ad aprile 2008;
d) neppure sussistono gli altri vizi di invalidità denunziati dall'appellante, atteso che la conclusione della transazione nel corso del rapporto di lavoro non è di per sé causa di invalidità;
e) la conciliazione deve considerarsi conclusa con l'assistenza del rappresentante sindacale, che ha infatti sottoscritto in calce l'atto;
f) la conciliazione è stata sottoscritta contestualmente dalle parti;
g) l'istruttoria svolta non ha fornito alcun riscontro alle contestazioni della lavoratrice, essendo emersa l'effettiva assistenza del rappresentante sindacale alla Fl.Il.;
h) irrilevante è il fatto che la conciliazione sia avvenuta in luogo diverso dalla sede del sindacato, in assenza di prova che tale situazione abbia in quale modo determinato uno squilibrio in favore del datore di lavoro o abbia inciso sulla libera determinazione di volontà del lavoratore o abbia in qualche modo pregiudicato la comprensione della portata e delle conseguenze dell'accordo;
i) altrettanto irrilevante è il fatto che la Fl.Il., non fosse iscritta al sindacato UGL, perché ciò non preclude certo la possibilità di concludere una conciliazione con l'assistenza di un rappresentante sindacale;
j) è comunque mancata qualunque prova del fatto che il mancato conferimento di un mandato preventivo abbia inciso sulla validità della conciliazione;
k) anzi, dall'istruttoria espletata e emersa l'effettività della conciliazione e dell'assistenza del rappresentante sindacale.
4. - Avverso tale sentenza Fl.Il. ha proposto ricorso per Cassazione, affidato ad otto motivi.
5. - Obiettivo Impresa srl (già Obiettivo Impresa di Vi.Ma. & C. sas) ha resistito con controricorso.
6. - La ricorrente ha depositato memoria.
7. - Il Collegio si è riservata la motivazione nei termini di legge.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. - Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" degli artt. 2113 c.c. e 411 c.p.c., nonché degli artt. 1965 e 1418 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto sussistente una valida conciliazione sindacale, senza verificare l'effettività dell'assistenza sindacale e l'esistenza di una res dubia.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
E' inammissibile laddove sollecita a questa Corte una diversa valutazione delle risultanze istruttorie, attività interdetta in sede di legittimità, in quanto riservata al giudice del merito.
E' poi infondato, perché la stessa ricorrente evidenzia che la Corte territoriale ha dato pure atto che prima di firmare la lavoratrice aveva avuto un momento di ripensamento. Dunque è conforme a diritto (sotto il profilo della sussunzione della fattispecie concreta in quella astratta) il convincimento raggiunto dai giudici d'appello, laddove hanno desunto da quella circostanza un'ulteriore prova dell'effettività della volontà espressa dalla lavoratrice, ritenendo che ella, pur avendo avuto un ripensamento, lo avesse superato evidentemente proprio grazie all'assistenza sindacale.
Quanto infine alla res dubia, essa può consistere anche in una situazione di incertezza circa l'esistenza di diritti che la lavoratrice intenderebbe poi far valere in un successivo giudizio. La transazione, infatti, è un negozio volto anche a prevenire l'insorgere di una lite (art. 1965 c.c.).
Orbene, a questo riguardo la Corte territoriale ha evidenziato che erano molteplici i diritti rivendicati dalla lavoratrice, sui quali tuttavia vi erano incertezze che sarebbero potute sfociare in una lite giudiziaria. Dunque anche sotto il profilo funzionale i giudici d'appello hanno maturato il proprio convincimento circa la validità di quell'atto transattivo, in quanto destinato a prevenire una possibile lite.
2. - Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti. In particolare si duole della mancanza di motivazione o di una motivazione solo apparente circa la validità dell'accordo transattivo pur in assenza di bilateralità delle concessioni.
Il motivo è inammissibile per due ragioni: sia in quanto precluso dalla c.d. doppia conforme circa la ricostruzione della vicenda transattiva e l'assistenza sindacale effettiva riscontrata dai giudici di entrambi i gradi di merito (art. 360, penult. co., c.p.c.), sia in quanto connotato da confusa promiscuità delle doglianze di omesso esame e motivazione assente o apparente.
3. - Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente denuncia nullità della sentenza o del procedimento per violazione degli artt. 112, 132, co. 2, n. 4, 156, co. 2, c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso di pronunziare sulla domanda di nullità della conciliazione per difetto di causa o di oggetto.
Il motivo è inammissibile, perché difetta di autosufficienza: la ricorrente non indica - come era suo onere - la fase processuale e l'atto nel quale quella domanda era stata avanzata in primo grado, le ragioni del suo eventuale rigetto da parte del Tribunale e il motivo di gravame con cui era stata riproposta in appello.
4. - Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c., in correlazione all'art. 1965 c.c. per avere la Corte territoriale inteso la rinuncia espressa dalla Fl.Il. come limitata alle pretese economiche, mentre - a suo dire - dal tenore letterale della conciliazione si evince chiaramente che quella rinunzia investe anche la natura subordinata del rapporto di lavoro in un periodo nel quale formalmente era stata considerata come collaboratrice autonoma.
Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato.
E' inammissibile per difetto di interesse, poiché la ricorrente non spiega quale incidenza invalidante sulla sentenza d'appello abbia avuto l'asserito errore commesso dalla Corte territoriale.
E' infondato laddove denunzia la mancata cautela nell'interpretazione della conciliazione, cautela che invece la Corte territoriale ha chiaramente dimostrato quando ha richiamato plurimi passi delle deposizioni testimoniali per motivare il proprio convincimento circa l'effettiva e genuina volontà abdicativa della lavoratrice espressa nella conciliazione sindacale (v. sentenza impugnata, p. 7).
5. - Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.
la ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" degli artt. 2113 c.c. e 412 ter c.p.c., in correlazione con l'art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale negato incidenza invalidante alla mancata sottoscrizione del verbale presso la sede del sindacato e per aver addossato l'onere probatorio alla lavoratrice invece che alla società datrice di lavoro.
Il motivo è infondato.
La necessità (derivante dal combinato disposto dell'art. 412 ter c.p.c. e del contratto collettivo di volta in volta applicabile) che la conciliazione sindacale sia sottoscritta presso una sede sindacale non è un requisito formale, bensì funzionale ad assicurare al lavoratore la consapevolezza dell'atto dispositivo che sta per compiere e, quindi, ad assicurare che la conciliazione corrisponda ad una volontà non coartata, quindi genuina, del lavoratore.
Pertanto, se tale consapevolezza risulti comunque acquisita, ad esempio attraverso le esaurienti spiegazioni date dal conciliatore sindacale incaricato anche dal lavoratore, lo scopo voluto dal legislatore e dalle parti collettive deve dirsi raggiunto. In tal caso la stipula del verbale di conciliazione in una sede diversa da quella sindacale (nella specie, presso uno studio oculistico: v. ricorso per cassazione, p. 12) non produce alcun effetto invalidante sulla transazione.
Sul piano del riparto degli oneri probatori, se la conciliazione è stata conclusa nella sede "protetta", allora la prova della piena consapevolezza dell'atto dispositivo può ritenersi in re ipsa o desumersi in via presuntiva (Cass. n. 20201/2017). Pertanto graverà sul lavoratore l'onere di provare che, ciononostante, egli non ha avuto effettiva assistenza sindacale. Se invece la conciliazione è stata conclusa in una sede diversa, allora l'onere della prova grava sul datore di lavoro, il quale deve dimostrare che, nonostante la sede non "protetta", il lavoratore, grazie all'effettiva assistenza sindacale, ha comunque avuto piena consapevolezza delle dichiarazioni negoziali sottoscritte.
Nel caso in esame è vero che la Corte territoriale ha erroneamente ritenuto che gravasse sulla lavoratrice la "prova che tale situazione (ossia la stipula del verbale di conciliazione in una sede non protetta) avesse in qualche modo determinato o contribuito a determinare uno squilibrio a favore del datore di lavoro, incidendo sulla libera determinazione della volontà del lavoratore a sottoscrivere l'accordo transattivo o a limitarne in qualche modo la comprensione della portata e delle conseguenze" ed ha ritenuto tale onere non adempiuto (v. sentenza impugnata, p. 6).
Ma è altresì vero che, nonostante quest'errata affermazione, comunque i giudici d'appello hanno poi esaminato le deposizioni testimoniali ed hanno in tal modo accertato compiutamente sia l'avvenuta assistenza sindacale piena, sia la genuina volontà della lavoratrice al momento della sottoscrizione, peraltro dopo aver vinto un iniziale ripensamento, ritenuto particolarmente significativo dalla Corte territoriale in termini di peculiare "maturazione" del convincimento della lavoratrice circa i contenuti di quell'accordo.
In conclusione, l'errore in cui è incorsa la Corte territoriale circa il riparto degli oneri probatori scaturenti dall'avvenuta stipula della conciliazione in una sede diversa da quella sindacale non ha avuto alcuna incidenza invalidante sulla decisione, che è pur sempre conforme a diritto.
6. - Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti. In particolare addebita alla Corte territoriale l'omesso esame - dimostrato dalla motivazione inesistente o apparente - del ruolo svolto dal rappresentante sindacale.
Con il settimo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. la ricorrente denunzia la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 112,132, co. 2, n. 4 e 156, co. 2, c.p.c. per avere la Corte territoriale omesso ogni pronunzia sulla specifica deduzione della lavoratrice circa la veste solo formale del rappresentante sindacale intervenuto nella conciliazione.
Con l'ottavo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale posto a carico della lavoratrice l'onere di dimostrare che il mancato conferimento di un mandato preventivo al rappresentante sindacale avesse inciso sulla validità della conciliazione.
I tre motivi - da esaminare congiuntamente per la loro connessione - sono inammissibili i primi due, infondato il terzo.
Con riguardo al primo, la sua inammissibilità discende dalla c.d. doppia conforme decisione dei giudici dei due gradi di merito (art. 360, penult. co., c.p.c.), che, sulla base delle risultanze istruttorie, hanno ricostruito in modo identico la vicenda fattuale ed hanno ritenuto effettivo il ruolo di assistenza svolto dal rappresentante sindacale.
Quanto al secondo, la sua inammissibilità deriva dalla non pertinenza del motivo rispetto alla sentenza impugnata: contrariamente all'assunto della ricorrente, la Corte territoriale ha espressamente esaminato quella deduzione e l'ha rigettata sulla base di uno specifico accertamento di merito, basato sul tenore del verbale di conciliazione e sulle deposizioni testimoniali.
Quanto all'ultimo, sul piano formale il legislatore non richiede affatto che il mandato al rappresentante sindacale sia anteriore o comunque preventivo rispetto al tempo e al luogo in cui viene stipulata la conciliazione.
Sul piano sostanziale, la contestualità del mandato rispetto alla stipula dell'atto potrebbe costituire un indizio circa la non effettività dell'assistenza sindacale, che tuttavia deve essere corroborato da altri elementi indiziari per integrare la prova presuntiva di tale vizio (art. 2729 c.c.), in grado di inficiare la validità della conciliazione. Il relativo onere probatorio grava sulla lavoratrice, in quanto attrice che ha domandato la previa declaratoria di nullità della conciliazione, ma, come accertato dalla Corte territoriale, non risulta adempiuto.
In ogni caso, anche su questo profilo la Corte territoriale ha compiuto un accertamento in fatto ed ha espressamente tenuto conto delle deposizioni testimoniali, pervenendo alla conclusione per cui l'assistenza sindacale era stata effettiva. Quindi, a prescindere dall'affermazione relativa al riparto dell'onere della prova, l'accertamento in concreto è avvenuto e ciò esclude effetti invalidanti sulla decisione, che, anche sotto questo profilo, è conforme a diritto.
7. - Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Euro 4.000,00, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfettario delle spese generali e accessori di legge.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso a norma dell'art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 22 novembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2024.
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