LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE LAVORO
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. BRONZINI Giuseppe – Presidente –
Dott. PATTI Adriano Piergiovanni – Consigliere –
Dott. LORITO Matilde – rel. Consigliere –
Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –
Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso 13575-2014 proposto da:
POSTE ITALIANE S.P.A., *****, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LUIGI GIUSEPPE FARAVELLI 22, presso lo studio dell’avvocato FRANCO RAIMONDO BOCCIA, rappresentata e difesa dall’avvocato ADRIANA CALABRESE, giusta delega in atti;
– ricorrente –
e contro
A.P.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1097/2013 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 25/11/2013, R.G.N. 3109/2010.
RILEVATO CHE La Corte d’Appello di Milano rigettava l’impugnazione proposta da Poste italiane spa nei confronti di A.P. avverso la sentenza resa inter partes dal Tribunale della stessa sede, con cui erano state accolte le domande proposte dal lavoratore.
Questi aveva adito il giudice del lavoro deducendo di aver prestato attività lavorativa in favore della convenuta, in virtù di due contratti a termine (3/11-31/1/2005; 2/6-30/6/2007) e di essere stato assunto con contratto a tempo indeterminato a far tempo dal 16/4/2009, con qualifica di impiegato liv. E, mansioni di addetto al recapito e periodo di prova di tre mesi, a seguito di accordo sindacale concluso fra la società e le OO.SS. il 13/1/2006.
Aveva precisato che con lettera dei 6/8-13/8/2009 era stato licenziato “avendo fatto registrare alla data del 5/8/09, durante l’espletamento della prova, 31 giorni essenza per malattia oltre il quale non si è ammessi a completare il periodo di prova ai sensi dell’art. 20, comma 3 C.C.N.L. vigente”.
Sulla scorta di tali premesse, aveva chiesto dichiararsi la nullità, illegittimità o inefficacia del patto di prova e del licenziamento per mancato completamento del periodo di prova, oltre alla intercorrenza fra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
La Corte distrettuale, nel condividere l’iter argomentativo percorso dal giudice di prima istanza, in estrema sintesi fondava la sua decisione sulla nullità dei disposto dell’art. 20, comma 3 c.c.n.l. di settore nella parte in cui prevedeva che “nel caso di in cui il periodo di prova venga interrotto per causa di malattia, il lavoratore sarà ammesso a completare il periodo di prova stesso ove le assenze, cumulativamente, non abbiano superato i 30 giorni di calendario per la prova di durata trimestrale e 60 giorni di calendario per quella di durata massima semestrale…..”.
Nell’iter argomentativo della Corte si precisava che nessuna ragione e nessun fondamento si rinveniva nella previsione di un periodo di comporto più breve per i lavoratori in prova, rispetto al termine di comporto di maggior durata generalmente previsto ai sensi dell’art. 2110 c.c. per qualunque ipotesi di lavoro subordinato a tempo indeterminato; termine quest’ultimo da ritenersi quindi applicabile anche alla fattispecie scrutinata.
Avverso tale decisione la società Poste Italiane interpone ricorso per cassazione affidato a quattro motivi. La parte intimata non ha svolto attività difensiva.
CONSIDERATO CHE 1.Con i primi due motivi la ricorrente denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra 1.e parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nonchè violazione o falsa applicazione dell’art. 1418 c.c. (motivo 1) e degli artt. 1421 c.c. e art. 101 c.p.c. (motivo 2) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Lamenta che la Corte distrettuale abbia sollevato ex officio la questione della nullità del contratto collettivo giacche nel ricorso introduttivo mancava ogni riferimento agli elementi di fatto e di diritto sui quali fondare la domanda di nullità.
2. Con il terzo motivo è denunciata violazione o falsa applicazione dell’art. 1421 c.c. e art. 101 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 nonchè omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.
Ci si duole che la Corte di merito abbia omesso di motivare in ordine alle osservazioni formulate dalla società sulla inidoneità della disposizione contrattuale a vulnerare la possibilità di attuazione della prova ed a violare il diritto alla salute dei dipendenti.
Si deduce che una esegesi della disposizione contrattuale collettiva considerata, coerente con la sottesa volontà espressa dalle OO.SS., consente di ritenere che le stesse non hanno certo inteso superare o contraddire la previsione dell’art. 2110 c.c., comma 2 ove sancisce il diritto di recedere dal contratto decorso il periodo stabilito dalla legge, usi o equità, ma introdurre una disposizione speculare a detta disposizione, laddove prevede che il periodo di comporto è di 30 giorni ove il periodo di prova abbia una durata massima di 3 mesi, e di 60 giorni ove il periodo di prova abbia una durata di 6 mesi. E detta disposizione contrattuale si sottrae al giudizio di nullità/illegittimità espresso dalla Corte territoriale, realizzando, diversamente da quanto da questa argomentato, il rispetto del criterio di adeguatezza della durata del periodo di prova, consolidato nella giurisprudenza di legittimità.
3. Il quarto motivo prospetta l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nonchè violazione e falsa applicazione dell’art. 18 st. lav. e della L. n. 604 del 1966, art. 10 ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
Si critica la sentenza impugnata per avere applicato alla accertata nullità della clausola contrattuale che sanciva la risoluzione del rapporto, la sanzione della conversione del contratto di lavoro in prova, in contratto di lavoro stabile a tempo indeterminato, in difformità dall’orientamento espresso dalla Suprema Corte secondo cui la violazione del patto di prova da parte dei datore di lavoro è fonte di responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. ed il pregiudizio sofferto dal lavoratore è rappresentato esclusivamente dalle utilità che avrebbe potuto percepire durante il periodo di prova.
4. Il terzo motivo può essere deciso con priorità, in base al principio della ragione più liquida, desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost..
Secondo il consolidato orientamento espresso da questa Corte, deve infatti, ritenersi consentito ai giudice esaminare un motivo di impugnazione, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio, anche in presenza di una questione pregiudiziale o di ogni altra questione assorbente, senza che sia necessario esaminare previamente gli altri motivi dovendosi privilegiare le esigenze di economia processuale e di celerità dei giudizio, un approccio interpretativo che comporti la verifica delle soluzioni sul piano dell’impatto operativo ed, in termini consequenziali, il profilo dell’evidenza su quello dell’ordine delle questioni da trattare ai sensi dell’art. 276 c.p.c. (vedi ex plurimis, Cass. 11/5/2018 n.11458, Cass. S.U. 8/5/2014 n. 9936).
5. Il motivo è fondato e va accolto, restando così assorbite le ulteriori censure.
In via di premessa va ricordato che il recesso del datore di lavoro nel corso del periodo di prova ha natura discrezionale e dispensa dall’onere di provarne la giustificazione (diversamente, verrebbe ad essere equiparato ad un recesso assoggettato alla L. n. 604 del 1966), fermo restando che l’esercizio dei potere di recesso deve essere coerente con la causa del patto di prova, che consiste nel consentire alle parti del rapporto di lavoro di verificarne la reciproca convenienza (cfr., Cass. 27/6/2013 n.16224, Cass. 13/8/2008 n. 21586).
Ed ancora in via di premessa va rimarcato che la declaratoria di invalidità di un contratto di categoria o di una sua clausola non può ledere il principio costituzionalmente garantito dell’autonomia collettiva, quale espressione più significativa della libertà delle organizzazioni sindacali. Ne conseg(ue che non può essere ne limitata nè tanto meno vanificata detta libertà se non in presenza di chiari e comprovati elementi di illiceità o illegittimità di condotte volte a ledere i diritti delle categorie rappresentate. Coronario di tali principi è che non è consentito in alcun modo incidere in sede giudiziaria sulle scelte politiche ritenute dalle parti sociali le più adeguate ai perseguimento dei loro compiti istituzionali in tutte le materie aventi ricadute a livello socio-economico, che hanno trovato una soluzione in sede contrattuale attraverso un equo bilanciamento degli interessi contrapposti.
Orbene, venendo al cuore della questione qui delibata, deve rilevarsi che i decorso di un periodo di prova determinato nella misura di un complessivo arco temporale, mentre non è sospeso dalla mancata prestazione lavorativa inerente ai normale svolgimento del rapporto – quali i riposi settimanali e e festività – deve ritenersi tale, invece, stante la finalità del patto di prova, in relazione ai giorni in cui la prestazione non si è verificata per eventi non prevedibili ai momento della stipulazione del patto stesso, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza e il puerperio, i permessi, lo sciopero, a sospensione dell’attività dei datore di lavoro…
Tale principio trova applicazione solo in quanto non preveda diversamente la contrattazione collettiva, a quale può attribuire od escludere rilevanza sospensiva dei periodo di prova a dati eventi, che si verifichino, durante il periodo medesimo (Cass., n. 4573 dei 2012, Cass. 25/09/2015 n. 19043).
Le parti sociali possono altresì modulare questa efficacia sospensiva della durata del periodo di prova in relazione agli eventi ivi previsti, quali ad esempio la malattia, nell’ottica di un bilanciamento fra gli interessi costituzionalmente protetti dei diritto alla salute del lavoratore, e della libertà di esercizio del diritto d’impresa.
In questa direzione si sono mosse le parti sociali elaborando la richiamata disposizione contrattuale che ha stabilito e modalità di sospensione del periodo di prova trimestrale in caso di malattia, senza richiedere particolari formalità, e regolato gli effetti, sul periodo di prova, delle assenze per malattia o comunque di quelle giustificate dall’azienda in conformità alla durata della prova.
La previsione di un periodo di comporto più breve per i lavoratori in prova, rispetto a quello previsto per la generalità dei lavoratori subordinati a tempo indeterminato, diversamente da quanto argomentato dai giudici del gravame, non vulnera alcuna norma imperativa ex art. 1418 c.c. nè contrasta coi precetti costituzionali di cui agli artt. 4, 32 e 41 della Carta Fondamentale.
Informata, invece, a criteri di razionalità, che la rendono coerente con i dettami dell’art. 3 Cost., la disposizione contrattuale scrutinata congruamente prevede un periodo di comporto per i lavoratori in prova, più limitato nei tempo rispetto a quello di cui fruiscono i lavoratori stabilmente occupati; detta previsione non inibisce al lavoratore di svolgere la prova prevista in contratto, “in quanto lo allontana ante tempus per un motivo illecito”, come ritenuto dai giudici del gravame, ma – come è agevole comprendere sulla base di una riflessiva lettura della clausola in contestazione – anche a tutela del lavoratore e della sua stessa salute.
La diversa modulazione della durata del periodo di comporto è infatti conforme alla causa del contratto in prova, connotata della reciproca verifica di convenienza dei rapporto. Questa non può prescindere anche dalla considerazione dell’esigenza della parte datoriale di vagliare – nel doveroso corretto ed equilibrato esercizio del diritto di impresa come ha fatto la disposizione dell’art. 20, comma 3 del contratto di settore – i tempi coessenziali all’esercizio della sua attività datoriale e la possibilità di proseguire nei rapporto, il che verrebbe vanificato, come è stato in precedenza ripetuto, da una eccessiva protrazione del periodo di sospensione del rapporto medesimo.
Sotto altro versante, va rimarcato che con la clausola della contrattazione di settore, rimane tutelato sia il diritto alla salute del lavoratore che il diritto alla conservazione del posto, atteso che la prevista sospensione del periodo di prova, corrisponde, sotto il profilo temporale, ad un terzo della durata del contratto in prova, previsione del tutto congrua ed idonea a tutelare in un equo bilanciamento di due diritti, ambedue a copertura costituzionale: il diritto al lavoro e quello al libero esercizio dell’impresa.
L’applicazione al contratto in prova, del più lungo periodo di conservazione dei posto di lavoro per dodici o ventiquattro mesi di cui all’art. 43 c.c.n.l. previsto per i contratti a tempo indeterminato stabilizzati, patrocinata dalla Corte di merito, contrastarebbe invece con la natura del patto di prova stesso, la cui durata prevista dalle parti sociali in tre e sei mesi, verrebbe dilatata (in maniera abnorme) nei superiori termini innanzi descritti in violazione dell’art. 3 Cost. da leggersi, come è stato più volte affermato, nel senso che in relazione a fattispecie diverse è legittima l’adozione di un trattamento normativo differenziato.
In tal senso appare congrua la previsione di diversi limiti temporali di durata del periodo di comporto nel contratto in prova sancito dall’art. 20, comma 3 c.c.n.l. Poste del 2003.
La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione al motivo accolto, e la causa rinviata alla Corte distrettuale designata in dispositivo la quale, provvedendo anche in ordine alle spese del presente giudizio, procederà alla delibazione della questione devoluta attenendosi ai principi enunciati.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo ai ricorso, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, alla Corte d’Appello di Milano in diversa composizione.
Così deciso in Roma, nella Adunanza camerale, il 11 luglio 2018.
Depositato in Cancelleria il 2 ottobre 2018
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