LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. POSITANO Gabriele – rel. Consigliere –
Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –
Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso proposto da:
P.A.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA A.
RIBOTY 23, presso lo studio dell’avvocato NAPOLI SALVATORE ANTONIO, rappresentata e difesa dall’avvocato CESTRA MARIA ANTONIETTA giusta procura a margine del ricorso;
– ricorrente –
contro
ALLEANZA ASSICURAZIONI SPA succeduta a ALLEANZA TORO SPA, in persona del Dott. PA.DA.AN., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA APRICALE 31, presso lo studio dell’avvocato VITOLO MASSIMO, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato GILARDI FRANCESCA giusta procura in calce al controricorso;
– controricorrente –
e contro
Z.C.;
– intimata –
avverso la sentenza n. 5461/2016 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 16/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 21/09/2018 dal Consigliere Dott. POSITANO GABRIELE.
RILEVATO
che:
con atto di citazione del 23 giugno 2004, P.A.M. evocava in giudizio Alleanza Assicurazioni S.p.A., l’agenzia di ***** di Alleanza Assicurazioni S.p.A. e Z.C. chiedendo la risoluzione del contratto di assicurazione relativo all’anno 1994 per grave inadempimento della compagnia, con condanna di quest’ultima alla restituzione dei premi versati, oltre interessi. Chiedeva, altresì, che fosse dichiarata la risoluzione del contratto “investimento e risparmio” stipulato nell’anno 2000, sempre per grave inadempimento della compagnia, con condanna alla restituzione delle somme versate in contanti dall’attrice nelle mani di Z.C.. Chiedeva, altresì, la condanna dei convenuti al risarcimento del danno biologico ed esistenziale subito per i fatti di causa;
si costituiva la compagnia eccependo la propria estraneità alla vicenda relativa alla polizza sottoscritta nell’anno 2000, resa possibile dalla grave negligenza dell’attrice che aveva versato ingenti somme nelle mani di un soggetto estraneo al rapporto assicurativo. Quanto al rapporto con Z.C., la compagnia negava l’esistenza di un potere di rappresentanza da parte di quest’ultima e di mandato all’incasso per somme significative. Chiedeva di chiamare in causa il proprio dipendente C.V., preposto all’Agenzia Generale di *****, presso cui operava la convenuta sino alla data di licenziamento di quest’ultima, avvenuto il 22 settembre 2001;
si costituiva C. che, successivamente, veniva estromesso dal giudizio per effetto di rinunzia accettata dalla compagnia. La causa veniva istruita con la documentazione acquisita presso la Banca di Roma, con interrogatorio formale e prova testimoniale;
con sentenza del 7 marzo 2011 il Tribunale di Latina, sezione distaccata di ***** dichiarava la risoluzione dei contratti per inadempimento ascrivibile all’agenzia di ***** di Alleanza Assicurazioni, condannava quest’ultima, nonchè Alleanza Assicurazioni S.p.A. e Z.C., in solido tra loro, al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali, oltre interessi e spese di lite. Il Tribunale riteneva provata l’appropriazione indebita delle somme da parte della Z., all’epoca dipendente dell’agenzia di ***** di Alleanza Assicurazioni S.p.A., con funzioni di ispettore e, conseguentemente, affermava la responsabilità solidale della società preponente per il fatto illecito commesso dal promotore;
avverso tale sentenza proponeva appello Alleanza Toro S.p.A., si costituiva P.A.M. formulando eccezioni in rito e contestando, nel merito, la fondatezza del gravame;
la Corte d’Appello di Roma, con sentenza del 16 settembre 2016, in parziale accoglimento dell’appello, riduceva l’importo liquidato in favore dell’attrice a titolo di danno patrimoniale e quello liquidato a titolo di danno morale. Dichiarava Z.C. tenuta a manlevare Alleanza Toro S.p.A. delle somme da quest’ultima versate all’attrice, confermando, nel resto, la sentenza impugnata;
avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione P.A.M. affidandosi a cinque motivi. Resiste in giudizio Alleanza Assicurazioni S.p.A. con controricorso.
CONSIDERATO
che:
la Corte territoriale ha ritenuto insussistente la prova che Z.C., in occasione del contratto del 2000, si fosse appropriata della somma di Lire 30 milioni. Ciò sarebbe avvenuto, secondo l’attrice, attraverso il pagamento della somma in contanti, preventivamente ritirata in un’unica soluzione dal proprio conto corrente. Tale assunto risultava documentalmente smentito, secondo la Corte d’Appello, poichè le verifiche effettuate presso Banca di Roma avevano attestato che “non risulta nessun prelievo della somma da Voi indicata”. Da ciò la Corte ha desunto l’inattendibilità delle dichiarazioni del teste B., che avrebbe accompagnato l’attrice in banca per ritirare le somme. Nello stesso modo la mancata risposta in sede di interrogatorio formale da parte della Z. non poteva assumere il valore di ficta confessio, in mancanza di altri elementi, mentre trovava applicazione il principio per cui la confessione fatta da uno dei condebitori nuoce solo a chi l’ha fatta. In terzo luogo, alcun elemento probatorio poteva ricavarsi da quanto dichiarato dal procuratore speciale di Alleanza Toro S.p.A. poichè lo stesso ha riferito di non sapere nulla a riguardo;
quanto al danno non patrimoniale lo stesso, qualificato quale danno morale del reato, è stato ridotto alla misura di un terzo del danno patrimoniale subito (a sua volta ridotto da Euro 25.900 ad Euro 10.400) sulla base di una valutazione equitativa, fondata su due parametri: l’entità del danno patrimoniale subito e la limitata intensità del dolo;
con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2729 c.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In particolare, la Corte d’Appello avrebbe deciso senza esaminare gli atti del fascicolo di primo grado di parte attrice. Di ciò si avvedeva il difensore al momento della predisposizione del ricorso per cassazione, verificando che mancava l’intero fascicolo di parte contenente tutta la documentazione depositata in primo grado. Era presente, altresì una nota datata 6 maggio 2016 e una del 9 settembre 2016 nelle quali, tra gli allegati, non era indicato il fascicolo di parte di primo grado dell’attrice e ciò sebbene il difensore della stessa non avesse mai ritirato il fascicolo di parte. Conseguentemente, la Corte avrebbe errato poichè non avrebbe potuto decidere nel merito, ma avrebbe dovuto disporre le opportune ricerche del fascicolo presso la cancelleria;
il motivo è inammissibile poichè non viene individuato il pregiudizio in concreto subito dalla ricorrente a causa della violazione lamentata. Pertanto, la censura è priva di rilevanza poichè non viene svolta alcuna argomentazione tesa a dimostrare che, attraverso l’esame della documentazione contenuta nel fascicolo di parte, il giudice di appello sarebbe pervenuto ad una statuizione differente e favorevole per la odierna ricorrente, in quanto fondata su ulteriori e differenti documenti;
in secondo luogo, nell’elenco presente a pagina 22-23 del ricorso non è inserito in allegato il rituale deposito del fascicolo di parte in appello, poichè nessuno dei 12 documenti indicati riguarda l’indice degli atti contenente i documenti del fascicolo di primo grado o l’annotazione del deposito del fascicolo di parte di primo grado; l’unico documento rilevante, il n. 12, per espressa ammissione della ricorrente, non contiene l’attestazione da parte della cancelleria della presenza del fascicolo di parte di primo grado. La censura, sul punto, è inammissibile ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 6 per difetto di autosufficienza;
in terzo luogo la tesi dello smarrimento del fascicolo di primo grado dell’attrice, per come prospettata, non individua il momento processuale nel quale tale smarrimento si sarebbe verificato e non consente di affermare che, come sostenuto dalla ricorrente, la Corte d’appello non abbia esaminato il fascicolo di parte. Nella decisione non vi è alcun riferimento a tale circostanza ed anzi si evincono elementi di senso contrario dal riferimento alle dichiarazioni rese dai testi davanti al giudice di prime cure e dalle risultanze della documentazione bancaria. La mancata produzione di un’attestazione proveniente dalla cancelleria del giudice di appello non consente di affermare che la Corte territoriale abbia pronunziato la sentenza senza esaminare il fascicolo di parte di primo grado dell’attrice. Infatti, nel ricorso si sostiene soltanto che, in un momento successivo alla pubblicazione della sentenza di appello, e cioè in occasione della redazione del ricorso per cassazione, il difensore si sarebbe avveduto dell’assenza del fascicolo di parte attrice;
con il secondo motivo si lamenta la violazione dell’art. 331 c.p.c. e ex art. 1294 c.c. e art. 102 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. L’atto di appello promosso da Alleanza Toro S.p.A. era stato notificato solo alla P. ed alla Z. e non anche nei confronti di C.V., quale agente generale dell’agenzia di ***** di Alleanza Toro S.p.A.. L’attrice aveva proposto l’eccezione di integrazione del contraddittorio, disattesa dalla Corte d’Appello sull’assunto che non ricorresse l’ipotesi di litisconsorzio necessario, trattandosi di semplice obbligazione solidale passiva. La decisione sarebbe errata poichè i giudici di merito avevano comunque affermato la responsabilità di C. (Agenzia di *****) in quanto connessa con l’attività della Z.. In particolare, il primo rispondeva del fatto doloso o colposo della seconda ai sensi dell’art. 1228 c.c. e ciò determinerebbe un litisconsorzio necessario tra coobbligati in solido;
il motivo è inammissibile poichè non specifico, in quanto la ricorrente si limita a ribadire il contenuto dell’eccezione formulata davanti al giudice di appello, senza confrontarsi con la motivazione della Corte territoriale che ha, respinto l’eccezione preliminare e senza individuare i passaggi della motivazione e le ragioni per le quali il giudice di appello avrebbe violato le norme indicate;
con il terzo motivo deduce la violazione dell’art. 651 c.p.p.. Riguardo alla efficacia della sentenza penale di condanna, con riferimento all’art. 360 c.p.c., n. 3. La Corte avrebbe omesso di considerare l’efficacia della sentenza penale irrevocabile di condanna emessa dal Tribunale Penale di Latina (n. 122 del 20 febbraio 2010) a carico della Z. dalla quale emergeva la responsabilità penale di quest’ultima poichè “la stessa sottoponeva ai clienti dell’Alleanza le polizze a premio unico e dichiarava di essersi recata nel mese di dicembre 2000, presso la Banca di Roma, unitamente alla P., la quale prelevava la somma di Euro 30.000…” Tale accertamento non avrebbe potuto essere diversamente valutato dal giudice civile, ricorrendo l’ipotesi di giudicato penale;
la censura non coglie nel segno poichè l’efficacia del giudicato penale di condanna riguarda la posizione dell’imputata e del responsabile civile. Parte ricorrente non ha allegato o documentato di essersi costituita parte civile. L’accertamento dei fatti è vincolante per il giudice civile nella causa di danni promossa contro il condannato, ma riguarda l’accertamento della sussistenza del fatto e della sua illiceità. La questione posta dalla ricorrente, invece, attiene alla condotta della parte offesa e cioè se il prelievo delle somme, nella misura indicata nell’atto di citazione, corrisponde a quanto accertato in sede penale;
in secondo luogo, nella sentenza civile di primo grado emessa dal Tribunale di Latina, Sezione Distaccata di Terracina n. 96 del 2011, si da atto che il Tribunale Penale aveva affermato la responsabilità della Z. per condotte analoghe (sentenza n. 122 del 2010) che non riguardavano la P. che in quel procedimento non era parte offesa o parte civile. Il giudice civile di primo grado menzionava, poi, i verbali delle 26 gennaio 2006 nei quali la Z. farebbe riferimento alla condotta tenuta dalla P. in occasione dell’episodio per cui è causa. Ma tale fattispecie esula dal perimetro dell’articolo 651 c.p.p. non trattandosi di giudicato penale, ma costituisce un semplice elemento di prova, valutabile dal giudice di appello unitamente agli altri dati processuali. Sotto tale profilo, peraltro, il motivo difetta di autosufficienza, poichè non si chiarisce l’esito del giudizio al quale si riferisce il succitato verbale del 26 gennaio 2006;
con il quarto motivo si lamenta la violazione dell’art. 2733 c.c. e art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3. In particolare, i medesimi fatti oggetto del giudizio civile erano stati accertati in sede penale con sentenza irrevocabile. Pertanto il giudice civile non avrebbe potuto attribuire al mancato interrogatorio formale della Z. un significato diverso dalla confessione, ai sensi dell’art. 232 c.p.c.. Sotto tale profilo la confessione farebbe piena prova dei fatti ammessi;
il motivo è inammissibile. Con l’unica censura vengono formulati due rilievi. Con il primo si ribadisce l’efficacia di giudicato della sentenza penale riproponendo le medesime questioni oggetto della precedente censura e ciò anche al fine di paralizzare ogni diversa valutazione in ordine alla mancata presentazione della convenuta a rendere l’interrogatorio;
il rilievo è destituito di fondamento per le considerazioni già espresse con riferimento al terzo motivo. Sotto un secondo profilo la ricorrente sostiene che la mancata presentazione della parte a rendere l’interrogatorio formale ai sensi dell’art. 232 c.p.c. costituisce confessione giudiziale che fa piena prova nei confronti della parte che l’ha resa. Ma la tesi è destituita di fondamento poichè i fatti dedotti nell’interrogatorio formale deferito, nell’ipotesi di mancata presentazione della parte, sono valutati dal giudice alla luce del complessivo contesto sostanziale e processuale e non hanno efficacia di confessione giudiziale. La disposizione dell’art. 232 c.p.c. non ricollega automaticamente alla mancata risposta all’interrogatorio, per quanto ingiustificata, l’effetto della confessione, ma dà solo la facoltà al giudice di ritenere come ammessi i fatti dedotti con tale mezzo istruttorio, imponendogli, però, nel contempo, di valutare ogni altro elemento di prova (Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 9436 del 18/04/2018 (Rv. 648227 – 01);
con il quinto motivo si lamenta la violazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. e l’errata valutazione del danno patrimoniale e di quello non patrimoniale. In particolare, con riferimento al danno patrimoniale, gli accertamenti contenuti nella sentenza penale avrebbero dovuto vincolare il giudice civile, anche con riferimento al prelievo della somma di Lire 30 milioni e, conseguentemente, al diritto alla restituzione dell’importo di Euro 15.493. Quanto al secondo profilo, la Corte d’Appello avrebbe omesso di personalizzare il danno non patrimoniale, operando una valutazione equitativa non corretta;
quanto al primo profilo, vanno ribadite le considerazioni già espresse riguardo al terzo e quarto motivo, con riferimento alla (in)efficacia del giudicato penale. Per il resto la censura relativa all’inadeguatezza della liquidazione equitativa operata dal giudice appare assolutamente generica e priva di specifiche censure riguardo alla corretta applicazione degli artt. 2043 e 2059 c.c. deducendo per la prima volta il tema della personalizzazione del risarcimento del danno non patrimoniale, senza però individuare i profili di eccezionalità del pregiudizio, che non sarebbero stati presi in esame dalla Corte territoriale;
al contrario la motivazione adottata dai giudici di appello è specifica sul punto, facendo riferimento ai due profili: l’entità del danno patrimoniale, come rideterminato e l'(attenuata) intensità del dolo e conseguente limitato disagio psichico. Rispetto a tale ricostruzione che costituisce il presupposto della liquidazione del danno morale affidata ad apprezzamenti equitativi del giudice di merito, la censura si limita a prospettare una ricostruzione alternativa e più appagante della misura del danno senza individuare specifiche violazioni di legge;
ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Infine, va dato atto – mancando ogni discrezionalità al riguardo (tra le prime: Cass. 14/03/2014, n. 5955; tra molte altre: Cass. Sez. U. 27/11/2015, n. 24245) – della sussistenza dei presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, in tema di contributo unificato per i gradi o i giudizi di impugnazione e per il caso di reiezione integrale, in rito o nel merito.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del cit. art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte Suprema di Cassazione, il 21 settembre 2018.
Depositato in Cancelleria il 30 ottobre 2018
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