LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ACIERNO Maria – Presidente –
Dott. MARULLI Marco – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
Dott. FALABELLA Massimo – Consigliere –
Dott. AMATORE Roberto – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 13795/2016 r.g. proposto da:
INTESA SANPAOLO PRIVATE BANKING s.p.a., (cod. fisc. *****), in persona del legale rappresentante pro tempore Dott. P.P., rappresentata e difesa, giusta procura speciale apposta a margine del ricorso, dall’Avvocato Giovanni Luigi Alliegro, presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Roma, Via Paolo Emilio n. 57;
– ricorrente –
contro
B.D., (cod. fisc. *****) e B.E. (cod. fisc.
*****), rappresentati e difesi dall’Avv. Roberto Vassalle e dall’Avv. Cristina Ravinale, giusta procura speciale apposta in calce al controricorso, elettivamente domiciliati in Roma, Corso Trieste n. 87 presso lo studio dell’Avvocato Arturo Antonucci;
– controricorrenti –
avverso la sentenza della Corte di Appello di Torino, depositata in data 9.3.2016;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 11/04/2019 dal Consigliere Dott. Roberto Amatore.
RILEVATO IN FATTO
CHE:
1. Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Torino – decidendo sull’appello principale proposto da INTESA SANPAOLO PRIVATE BANKING s.p.a. e su quelli incidentale e incidentale condizionato proposto da B.E. e D., quali eredi di BA.EZ., avverso la sentenza n. 6201/2014 emessa dal Tribunale di Torino (sentenza con la quale era stata accolta la domanda attorea volta ad accertare l’inadempimento della banca intermediaria agli obblighi informativi sulla stessa incombenti e il tribunale aveva, pertanto, condannato quest’ultima al pagamento del conseguente risarcimento del danno nella misura di Euro 40.000, somma decurtata del 15% per la corresponsabilità dell’attore, ai sensi dell’art. 1227 c.c., nella causazione del danno) – ha rigettato l’appello principale e, in accoglimento invece dell’appello incidentale, ha dichiarato insussistente il concorso di colpa dell’investitore.
La corte del merito – dopo aver ricordato gli obblighi informativi incombenti sull’intermediario finanziario, ai sensi degli artt. 28 e 29 Reg. Consob – ha ritenuto che anche l’esecuzione pregressa da parte dell’investitore di operazioni finanziarie su titoli a rischio non escludeva l’obbligo di preventiva verifica da parte dell’intermediario dell’adeguatezza dell’investimento e della conseguente informazione al cliente investitore, in quanto tali precedenti operazioni non rendevano l’investitore un operatore qualificato. La corte territoriale ha, poi, ritenuto non contestate le ulteriori circostanze fattuali secondo le quali il B. non aveva voluto fornire indicazioni sulle sue pregresse esperienze da investitore e che la banca intermediaria non aveva comunque fornito indicazioni sulle caratteristiche del titolo *****, e cioè che si trattava di un titolo emesso all’estero, privo del prospetto informativo Consob, regolato da legge straniera e destinato, come tale, ad operatori professionali perchè negoziato “fuori mercato” ed espresso in dollari statunitensi. La corte di merito, sulla base di queste emergenze probatorie, ha ritenuto dimostrata la violazione da parte dell’intermediario degli obblighi informativi imposti dall’art. 28 del Reg. Consob e ha ritenuto sempre sussistente l’obbligo informativo in parola sull’intermediario, con la sola esclusione di titoli negoziati nei confronti di investitori qualificati e che peraltro tale obbligo era ancora più stringente nel caso di specie, ove si trattava di acquistare titoli emessi da società che godeva di un rating non esaltante (BBB-), emessi peraltro all’estero e privi del necessario corredo informativo. Nè poteva ritenersi sollevata la banca dai predetti obblighi informativi – ha aggiunto la corte distrettuale – in ragione dei pregressi investimenti operati dal Bandi in titoli ad alto rischio, in quanto – in presenza di una operazione finanziaria ritenuta inadeguata – la responsabilità dell’intermediario finanziario viene meno solo in presenza di un ordine scritto o registrato su supporto magnetico. La corte di merito ha, dunque, ritenuto superflua ogni ulteriore giudizio in merito alla valutazione di adeguatezza dell’operazione finanziaria in presenza della confessione dell’intermediario di non aver fornito alcuna indicazione all’investitore sulle caratteristiche del titolo. Il giudice di appello ha, infine, ritenuto sussistente anche il nesso causale tra inadempimento all’obbligo informativo e danno perchè, stante le caratteristiche peculiari del titolo negoziato (e cioè, titolo comportante un rendimento elevato ma non eclatante), era dimostrato che, qualora l’investitore avesse conosciuto preventivamente la rischiosità dell’investimento, si sarebbe astenuto dal farlo e si sarebbe indirizzato verso investimenti meno rischiosi.
2. La sentenza, pubblicata il 9.3.2016, è stata impugnata da INTESA SANPAOLO PRIVATE BANKING s.p.a. con ricorso per cassazione, affidato a sei motivi, cui B.E. e D., quali eredi di BA.EZ., hanno resistito con controricorso.
I controricorrenti hanno depositato memoria.
CONSIDERATO IN DIRITTO
CHE:
1. Con il primo motivo la parte ricorrente – lamentando, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo per accertare l’inesistenza del nesso causale – si duole del mancato approfondimento da parte della corte di merito dei profili del rischio dell’investitore e della natura degli investimenti antecedenti all’acquisto. Osserva il ricorrente che – qualora la corte territoriale avesse correttamente esaminato tali profili, come peraltro era emerso dalla stessa c.t.u. (ove il B. era stato definito, anche in ragione della composizione e della quantità del suo portafogli titoli, persona avente un profilo di investitore “aggressivo”) – allora non avrebbe potuto che concludere nel senso dell’insussistenza del nesso causale, ai sensi dell’art. 1223 c.c., tra violazione dell’obbligo informativo e causazione del danno, in quanto l’investitore, benchè edotto della natura dei titoli, avrebbe comunque deciso di acquistarli. Evidenzia ancora il ricorrente che, nonostante il regime dell’onere probatorio attenuato gravante in subiecta materia a carico dell’investitore, quest’ultimo è comunque onerato, come la giurisprudenza di legittimità ha sempre affermato, della prova del nesso causale e del danno. 2. Con un secondo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 n. 4, codice di rito, per motivazione omessa o apparente sul profilo del livello di rischio delle obbligazioni “*****”. Osserva la parte ricorrente che le caratteristiche indicate nella motivazione impugnata, in riferimento alla descrizione del titolo negoziato (e cioè, emissione all’estero, mancanza di prospetto Consob, applicazione legge straniera, destinazione ad operatori professionali, negoziazione fuori mercato) non consentivano in alcun modo la valutazione del livello di rischio delle obbligazioni “*****”. Diversamente, la corte di merito avrebbe dovuto considerare che: a) il crack ***** era stato il frutto di gravissimi fatti di bancarotta fraudolenta e che al momento della negoziazione dei predetti titoli con il B. (23.10.2003) non erano emersi indici di rischio di insolvenza del gruppo *****; b) alla data indicata, i titoli in questione godevano di un rating rassicurante (BBB-; cd. investiment grade); c) il rating sarebbe stato declassato solo in data 9.12.2003; d) nell’aprile del 2003 la relazione annuale della società indipendente “Deloitte & Touche s.p.a.” non aveva evidenziato alcun profilo di criticità del gruppo caseario italiano; e) l’emissione all’estero dei titoli finanziari in esame e l’assenza del prospetto Consob non potevano essere considerati indici rivelatori del rischio del titolo. Osserva di nuovo la parte ricorrente che, qualora fossero stati correttamente valutati i profili di rischiosità del titolo negoziato, allora sarebbe risultato ancor più evanescente il nesso causale nel senso sopra indicato.
3. Con il terzo motivo si declina, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. in punto di assolvimento dell’onere della prova sempre sul profilo della sussistenza del nesso causale. Osserva la ricorrente che, nella materia in esame, l’onere della prova in ordine al nesso causale incombe sull’investitore, nonostante l’inversione dell’onere probatorio disposto per legge. Osserva ancora la ricorrente che l’investitore non aveva invece fornito alcuna prova per dimostrare l’esistenza del nesso causale tra l’asserito inadempimento contrattuale ascrivibile alla banca ed il danno del quale si reclamava il ristoro.
4. Con il quarto motivo si denuncia, sempre ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 2729 c.c. in merito alla valutazione di gravità, precisione e concordanza da attribuirsi agli indizi da cui evincere la sussistenza del nesso causale. Osserva il ricorrente che la motivazione incentrata sulla mancanza di un rendimento elevato dei titoli non integrava quei requisiti normativi sopra ricordati per fondare ragionevolmente una valutazione probatoria presuntiva in ordine alla sussistenza del nesso causale.
5. Con il quinto motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, vizio di contraddittorietà della motivazione in punto di valutazione di adeguatezza dell’investimento.
6. Con il sesto motivo si articola, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, vizio di omesso esame di fatti decisivi in riferimento al profilo del rischio dell’investitore, degli investimenti pregressi e della c.t.u. sempre per accertare l’adeguatezza dell’investimento.
7. Il ricorso è infondato e va pertanto rigettato.
7.1 Il primo motivo di doglianza presenta profili di inammissibilità e di infondatezza.
In primo luogo, occorre evidenziare come la parte ricorrente, nel prospettare il vizio di omesso esame ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, intenda invece sollecitare la Corte di legittimità ad una rilettura degli atti istruttori volta ad una rivalutazione del merito della decisione impugnata, operazione che è invece, come noto, improponibile nel giudizio di legittimità.
Sul punto non è inutile ricordare che, secondo la giurisprudenza di vertice di questa Corte, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che, nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366, comma 1, n. 6, e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014).
Ciò posto, emerge dalla lettura della motivazione impugnata che la corte di merito ha comunque valutato il profilo di rischio dell’investitore ritenendolo irrilevante, stante l’oggettiva rischiosità dell’investimento che radicava comunque l’obbligo informativo dell’intermediario, con ciò non potendo prospettare in alcun modo una omessa pronuncia da parte del giudice di appello. Dunque, il giudice di appello ha svolto una sua valutazione in fatto sul punto qui oggetto di censura, valutazione che non è sindacabile, per quanto già sopra osservato, nel giudizio di legittimità.
7.2 Il secondo motivo di censura è inammissibile.
La doglianza in realtà è contraddittoria e volta di nuovo ad una rilettura degli elementi di prova, già scrutinati dai giudici del merito, in punto di valutazione del livello di rischio delle obbligazioni “*****”.
Sotto il primo profilo, occorre rilevare come la parte ricorrente, dopo aver allegato il vizio di omessa motivazione sul punto sopra indicato, riporti, poi, testualmente il contenuto della motivazione che giustifica la valutazione di rischiosità dell’investimento sulla scorta di plurimi indici di valutazione (e cioè, emissione all’estero, mancanza di prospetto Consob, applicazione legge straniera, destinazione ad operatori professionali, negoziazione fuori mercato).
Nè è possibile che l’ordito motivazione reso sul punto dalla Corte di merito integri gli estremi di una motivazione apparente ovvero irrimediabilmente contraddittoria.
Sul punto giova ricordare che la riformulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, disposta dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (cfr. sempre Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, cit. supra; Sez. 6 – 3, Sentenza n. 23828 del 20/11/2015;Sez. 3, Sentenza n. 23940 del 12/1 0/2017; Sez. 6 3, Ordinanza n. 22598 del 25/09/2018).
Ciò posto, la motivazione impugnata obbedisce alle regole dettate dalla giurisprudenza di questa Corte in punto di sufficiente articolazione del tessuto logico argomentativo di sostegno alla ratio decidendi, di talchè ogni ulteriore chiosa sul punto rischia di far scivolare le valutazioni di questa Corte sull’inaccessibile terreno del giudizio di merito.
Ne consegue l’inammissibilità della relativa doglianza.
3. Il terzo motivo è infondato.
In effetti occorre premettere che, nell’articolazione dell’onere della prova derivante dal D.Lgs. n. 58 del 1998, art. 23,resta in capo al cliente, in primis, l’onere di allegare la condotta inadempiente della banca, mentre solo una volta assolto tale onere può presumersi che quest’ultima abbia violato le regole della diligenza professionale.
In tal modo, occorre ricordare il principio, già affermato da questa Corte (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 810 del 19/01/2016), secondo cui nelle azioni di responsabilità per danni subiti dall’investitore – nelle quali occorre accertare se l’intermediario abbia diligentemente adempiuto alle obbligazioni scaturenti dal contratto di negoziazione, dal D.Lgs. n. 24 febbraio 1998, n. 58, e dalla normativa secondaria, il riparto dell’onere della prova si atteggia nel senso che, dapprima, l’investitore ha l’onere di allegare l’inadempimento delle citate obbligazioni da parte dell’intermediario, nonchè fornire la prova del danno e del nesso di causalità fra questo e l’inadempimento, anche sulla base di presunzioni; l’intermediario, a sua volta, avrà l’onere di provare l’avvenuto adempimento delle specifiche obbligazioni poste a suo carico, allegate come inadempiute dalla controparte e, sotto il profilo soggettivo, di aver agito “con la specifica diligenza richiesta” (Cass. 17 febbraio 2009, n. 3793, al riguardo confermata da Cass. 29 ottobre 2010, n. 22147). E’ proprio applicando il principio sull’onere della prova nella materia contrattuale enunciato dalle Sezioni unite (Cass., sez. un., 30 ottobre 2001, n. 13533) che l’investitore dovrà allegare l’inadempimento di quelle obbligazioni disciplinate dal t.u.f. e dalla normativa regolamentare, e dovrà fornire la prova del danno e del nesso di causalità tra questo e l’inadempimento.
In sostanza, nessuna norma esonera il cliente dall’onere di allegazione delle obbligazioni che lamenti essere rimaste inadempiute: il t.u.f. stabilisce che nei giudizi di risarcimento del danno l’intermediario deve fornire la prova di aver agito con la specifica diligenza richiestagli, ma l’inversione dell’onere della prova non attiene alla sussistenza del danno e al nesso di causalità, restando la dimostrazione di tali elementi onere dell’investitore.
Ciò detto, la doglianza proposta dalla parte ricorrente non merita accoglimento atteso che la motivazione impugnata non ha posto in alcun modo a carico della banca la dimostrazione dell’insussistenza del nesso causale tra la violazione degli obblighi informativi ed il danno, con ciò determinando – come denunciato dal ricorrente – la violazione dell’art. 2697 c.c..
Va aggiunto che, anche su quest’ultimo punto oggetto di discussione, il giudice di appello ha svolto una valutazione in fatto il cui contenuto non è sindacabile in questo giudizio di legittimità, stante i limiti di cognizione della Corte di Cassazione in ordine alla valutazione degli atti istruttori che è rimessa al giudizio esclusivo dei giudici di merito.
4. Il quarto motivo di doglianza, declinato invero come violazione dell’art. 2729 c.c., in punto di valutazione probatoria indiziaria, non è ammissibile posto che è volto, anche in tal caso, ad una rivalutazione del giudizio di merito, in ordine alla sussistenza del nesso causale tra violazione degli obblighi informativi e danno, giudizio articolato dalla corte di merito sulla base del corretto scrutinio degli atti istruttori e sulla base di una motivazione adeguata e dunque non censurabile in questa sede. Ed invero, la corte ha ritenuto che il rendimento non eclatante del titolo obbligazionario negoziato non poteva rendere edotto l’investitore della rischiosità dell’investimento che, qualora conosciuta da quest’ultimo, avrebbe indirizzato l’investitore verso tipologie di investimento diverse e meno rischiose.
5.6 Il quinto e sesto motivo (che possono essere esaminato congiuntamente in ragione della identità di questioni trattate in punto di valutazione giudiziale del profilo di adeguatezza dell’investimento) sono anch’essi inammissibili perchè diretti a sollecitare, di nuovo, la Corte di legittimità ad una rivalutazione del merito della decisione, come tale rimessa insindacabilmente ai giudici del merito.
Ne discende il complessivo rigetto del ricorso.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 5.000 per compensi, oltre alle spese generali forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi nella misura di Euro 200 e agli altri accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, il 11 aprile 2019.
Depositato in Cancelleria il 22 maggio 2019
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