LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ARMANO Uliana – Presidente –
Dott. SESTINI Danilo – Consigliere –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –
Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 15195/2017 R.G. proposto da:
F.R.N.D., rappresentato e difeso dagli Avv.ti Maria Rosaria Cipriano e Armando Regina, con domicilio eletto in Roma, via Tortolini, n. 29, presso lo studio dell’Avv. Valeria Marsano;
– ricorrente –
contro
C.A., rappresentato e difeso dall’Avv. Giuseppe Rago, con domicilio eletto in Roma, viale Mazzini n. 19, presso lo studio dell’Avv. Massimo Candreva;
– controricorrente –
avverso la sentenza della Corte d’appello di Potenza, n. 69/2017 depositata il 10 febbraio 2017;
Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 14 febbraio 2019 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.
RILEVATO IN FATTO
1. Su ricorso di F.N. il Tribunale di Matera emetteva, nei confronti di C.A., decreto ingiuntivo per il pagamento della somma di Euro 45.000, oltre interessi, a titolo di residuo corrispettivo per la compravendita di un appartamento.
Secondo le allegazioni del ricorrente tra le parti era intercorso preliminare di vendita nel quale il prezzo era stato convenuto nell’importo di Euro 103.000, di cui Euro 10.000 da versarsi al momento del preliminare medesimo e la restante parte entro e non oltre la stipula del contratto definitivo, avvenuta in data 8/3/2004.
Nel ricorso per decreto ingiuntivo il F. aveva quindi evidenziato che “al momento della stipula” del definitivo il C. gli aveva consegnato:
a) un assegno di Euro 48.000, da mettere all’incasso il 22/3/2004;
b) la copia di una lettera di richiesta di bonifico bancario in suo favore, da eseguirsi nella stessa data del 22/3/2004, per l’importo di Euro 45.000: bonifico che però non era stato poi eseguito per carenza di provvista.
2. Nell’opporsi al detto decreto ingiuntivo il C., pur riconoscendo di avere stipulato con il F. il contratto preliminare di vendita, eccepiva, e documentava, che il contratto definitivo successivamente stipulato indicava quale prezzo convenuto tra le parti quello di Euro 48.000, del cui già avvenuto pagamento conteneva anche “ampia e finale quietanza”.
3. Il tribunale, pur dando atto della quietanza, valorizzava nondimeno il contenuto della richiesta di bonifico e, in base ad essa, riteneva sussistere la prova del dedotto parziale inadempimento, pervenendo pertanto al rigetto dell’opposizione, con la condanna del C. al pagamento anche della somma di Euro 3.300 a titolo di responsabilità processuale aggravata ex art. 96 c.p.c..
4. Con la sentenza in epigrafe, la Corte d’appello di Potenza, in accoglimento del gravame interposto dal soccombente, ha accolto l’opposizione a decreto ingiuntivo che ha conseguentemente revocato; ha compensato per metà le spese processuali, condannando il F. al pagamento della restante metà.
Ha in tal senso ritenuto fondata (poichè documentalmente provata) e dirimente – indipendentemente dagli argomenti posti a fondamento dell’appello (incentrati sulla contestata valenza probatoria della prodotta copia della richiesta di bonifico) – l’eccezione dell’opponente secondo cui con la conclusione del contratto definitivo venne ad essere pattuito il prezzo di Euro 48.000, con rilascio di quietanza liberatoria da parte del venditore.
Al riguardo ha soggiunto che “valutato l’insieme degli elementi acquisiti è… verosimile che vi sia stato un accordo simulatorio sul prezzo nel contratto definitivo (e) che la quietanza sia stata rilasciata dal venditore F. al momento della ricezione dall’acquirente C. della copia della richiesta di bonifico, da quest’ultimo firmata nella stessa data del contratto definitivo”, ma tuttavia “ciò non è sufficiente per l’accoglimento della domanda, perchè, se da un lato è probabile che tra le parti vi fu, nella stesura del contratto preliminare (recte: definitivo), un accordo simulatorio sul prezzo – più che dimezzato rispetto al preliminare, è anche vero che per ottenere il pagamento dell’intero corrispettivo effettivamente pattuito la parte attrice avrebbe dovuto agire per far valere l’esistenza di tale simulazione. E nel caso concreto, non solo l’azione di simulazione non è stata esperita, ma le caratteristiche dell’accordo simulatorio sono emerse soltanto dalle difese svolte dalla parte convenuta”.
5. Avverso tale decisione F.N. propone ricorso per cassazione, articolando quattro motivi, cui resiste C.A., depositando controricorso.
Il ricorrente deposita memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..
Il controricorrente deposita “memoria con istanza di liquidazione delle spese del procedimento ex art. 373 c.p.c.”.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c.,, comma 1, n. 3, violazione dell’art. 342 c.p.c. e, in subordine, anche dell’art. 345 c.p.c., per avere la Corte d’appello omesso di rilevare l’inammissibilità del gravame in quanto carente di motivi specifici.
Rileva che controparte, nell’atto d’appello, lungi dall’esporre motivi pertinenti alla motivazione della sentenza appellata, si era limitato a svolgere osservazioni volte a contestare l’esistenza dell’originale della richiesta di bonifico.
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 348-bis c.p.c., per avere la Corte d’appello – dopo aver invitato le parti, con l’ordinanza che rigettava l’istanza di inibitoria, a interloquire sulla possibilità di definire il giudizio ai sensi della citata norma – immotivatamente negato una tale definizione del gravame, fissando udienza di precisazione delle conclusioni.
3. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, violazione dell’art. 112 c.p.c., “giudicato interno” e “nullità della sentenza gravata” (così testualmente in rubrica), per aver la Corte di Appello giudicato al di là dei motivi di gravame prospettati dall’appellante, dando rilievo alla dichiarazione di quietanza e non al mancato disconoscimento sul quale l’appellante aveva fondato ogni censura.
Rimarca che controparte non aveva devoluto alla Corte d’Appello la prevalenza della quietanza notarile, nè alcuna delle due parti aveva mai introdotto il tema della simulazione, vertendosi unicamente sul rilievo attribuibile alla richiesta di bonifico in relazione alla quale da un lato si affermava l’inesistenza dell’originale di quel documento, dall’altro si faceva valere il suo mancato disconoscimento.
Rileva che la sentenza di primo grado aveva ritenuto acquisito l’effetto giuridico della richiesta di bonifico, conseguente al mancato disconoscimento e alla mancata contestazione da parte del C. del contratto preliminare; su tale contenuto non vi era stata impugnazione da parte del C. e pertanto sul punto – assume – doveva considerarsi formato il giudicato interno.
In tale contesto – argomenta ancora il ricorrente – erroneamente e contraddittoriamente la Corte ha ritenuto di dare rilievo al rapporto sottostante, laddove egli aveva giudizialmente agito sulla scorta della richiesta di bonifico, con i vantaggi probatori propri della promessa di pagamento ex art. 1988 c.c..
4. Con il quarto motivo infine il ricorrente denuncia “violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in correlazione all’art. 2719 c.c. e art. 215 c.p.c. – nonchè degli artt. 1175 e 1375 c.c.” (così la rubrica).
Lamenta l’omesso esame da parte della Corte di merito della richiesta di bonifico dell’8/3/2004, consegnata contestualmente alla redazione dell’atto pubblico di vendita e prima della sottoscrizione dello stesso.
Rileva che il mancato disconoscimento di tale documento costituiva fatto decisivo per il giudizio.
Deduce infine la necessità di valutare i fatti anche alla luce del principio di correttezza e buona fede contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.).
5. Il primo motivo di ricorso è inammissibile, in quanto aspecifico e non autosufficiente, in violazione degli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., n. 6.
Non essendo riportati i motivi d’appello non è possibile apprezzare le ragioni per le quali essi, diversamente da quanto ritenuto dal giudice a quo, dovrebbero ritenersi in realtà, come afferma apoditticamente il ricorrente, irrispettosi dei requisiti dettati dall’art. 342 c.p.c..
Occorre al riguardo rammentare che, come costantemente affermato nella giurisprudenza di questa Corte, anche in ipotesi di denuncia di un error in procedendo, l’esercizio del potere di diretto esame degli atti del giudizio di merito, riconosciuto al giudice di legittimità, presuppone, comunque, l’ammissibilità del motivo di censura, cosicchè il ricorrente è tenuto – in ossequio al principio di specificità ed autosufficienza del ricorso, che deve consentire al giudice di legittimità di effettuare, senza compiere generali verifiche degli atti, il controllo demandatogli del corretto svolgersi dell’iter processuale – non solo ad enunciare le norme processuali violate, ma anche a specificare le ragioni della violazione, in coerenza a quanto prescritto dal dettato normativo, secondo l’interpretazione da lui prospettata (cfr. ex plurimis Cass. Sez. U. 03/11/2011, n. 22726; Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; Cass. n. 5148 del 2003; n. 20405 del 2006; n. 21621 del 2007).
6. Il secondo motivo è inammissibile oltre che infondato.
E’ infondato poichè, come lo stesso ricorrente evidenzia, la Corte d’appello ha vagliato, previo invito al contraddittorio sul punto, la possibilità di una declaratoria di inammissibilità del giudizio d’appello ex art. 348-bis c.p.c., ma ha poi fissato l’udienza per la precisazione delle conclusioni e la decisione nel merito, in tal modo implicitamente escludendo i presupposti della definizione in limine.
Così operando ha assolto l’onere processuale imposto dalla norma, essendo appena il caso di rilevare che una espressa motivazione (“succinta”) della valutazione prognostica nella quale esso si risolve è richiesta solo nel caso in cui questa abbia esito positivo circa la sussistenza dei presupposti di una pronuncia di inammissibilità, non anche nel caso opposto.
Ancor prima, comunque, la doglianza è inammissibile, per difetto di interesse. Il diniego di una definizione in limine ex art. 348-bis c.p.c. (trattandosi evidentemente di istituto avente scopi acceleratori e deflattivi) non lede infatti alcun interesse della parte, nè tanto meno il suo diritto di difesa: implica bensì una valutazione prognostica positiva circa la sussistenza di una “ragionevole probabilità” di accoglimento dell’appello, la quale però non ha alcun effetto decisorio nè tanto meno vincola in alcun modo il successivo giudizio sul merito dell’appello medesimo, con riferimento al quale pertanto la parte avrà ampio modo (e l’onere) di svolgere le proprie eventuali critiche.
7. E’ altresì infondato il terzo motivo.
I motivi d’appello, nel contestare l’effettiva sussistenza della lettera di richiesta di bonifico, sull’assunto che la stessa non potesse ritenersi efficacemente provata, implicavano con ciò stesso, ovviamente, la contestazione della dedotta (e ritenuta dal primo giudice) pattuizione di un maggior prezzo d’acquisto.
Conseguentemente esse investivano in radice il ragionamento che aveva condotto il tribunale al rigetto dell’opposizione, di guisa che, per converso, tale tema doveva ritenersi per intero devoluto al giudice d’appello, dovendosi pertanto escludere il denunciato vizio di ultrapetizione.
E’ noto infatti che, secondo indirizzo incontrastato nella giurisprudenza di questa Corte, non incorre nel vizio di ultrapetizione il giudice che esamini una questione non espressamente formulata, tuttavia da ritenersi tacitamente proposta per essere in rapporto di necessaria connessione con quelle espressamente formulate, delle quali costituisca l’antecedente logico e giuridico (Cass. 12/03/2004, n. 5134; 05/02/2007, n. 2372).
Rimane di conseguenza del tutto irrilevante il riferimento -costituente peraltro questione nuova, non trattata nel giudizio di merito – “ai vantaggi probatori propri della promessa di pagamento” (in tesi rappresentata dalla richiesta di bonifico e che sarebbero stati erroneamente obliterati dal giudice di merito), volta che la Corte d’appello ha motivato sul diverso piano del rapporto sostanziale in termini perfettamente compatibili anche con quella prospettazione, la quale, come noto, comporta solo un’astrazione processuale (non sostanziale) dal rapporto sottostante, dispensando il promissario dall’onere di provare il rapporto fondamentale, ma certo non precludendo al promittente di fornire la prova contraria e al giudice di valutarne la sussistenza sulla base degli atti.
8. Il quarto motivo è, al pari del secondo, inammissibile oltre che infondato.
Inammissibile perchè non coglie la ratio decidendi la quale ha attribuito rilievo dirimente alla quietanza apposta sul contratto definitivo (nella ritenuta impossibilità di rilevarne il carattere simulato in assenza della relativa domanda), considerando conseguentemente superfluo l’esame dei motivi di gravame incentrati sulla (contestazione della) valenza probatoria della copia della richiesta di bonifico.
Infondata perchè proprio per questo la circostanza non può dirsi non esaminata dal giudice d’appello, avendola questo, ben diversamente, valutata irrilevante.
Non è poi in alcun modo illustrato, nè è comunque dato ravvisare il rilievo, nella detta prospettiva censoria, del riferimento al principio di correttezza e buona fede contrattuale (artt. 1175 e 1375 c.c.).
9. Il ricorso deve essere pertanto rigettato, conseguendone la condanna del ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese processuali, liquidate come da dispositivo.
10. Non può prendersi in esame la richiesta di liquidazione delle spese sostenute dal C. innanzi alla Corte d’appello per resistere vittoriosamente all’istanza di sospensione, ex art. 373 c.p.c., dell’efficacia esecutiva della sentenza in questa sede impugnata.
Secondo la giurisprudenza di questa Corte, la richiesta di pronuncia, in sede di legittimità, sull’istanza di rimborso delle spese processuali affrontate dalla parte per resistere vittoriosamente all’istanza di sospensione dell’efficacia esecutiva della sentenza di merito impugnata, può essere esaminata alla condizione che l’istanza, e i relativi documenti da produrre, siano stati notificati alla controparte, ovvero che il contraddittorio con la medesima sia stato comunque rispettato in ragione della sua presenza all’udienza, così da permetterle di interloquire sul punto (Cass. 20/10/2015, n. 21198).
Nella specie la richiesta risulta irritualmente proposta con memoria ex art. 380-bis.1 c.p.c..
Solo l’elenco degli atti e dei documenti depositati in cancelleria risulta notificato a mezzo p.e.c. al ricorrente, non anche l’istanza.
Essendo il procedimento soggetto a rito camerale, per il quale come noto è prevista la decisione in camera di consiglio senza l’intervento del pubblico ministero e delle parti (art. 380-bis. 1 c.p.c.), è da escludere che della memoria (e della richiesta in essa contenuta) controparte abbia potuto prendere visione.
Non può pertanto considerarsi ritualmente instaurato il contraddittorio, ciò che rende in definitiva inammissibile l’istanza (v. Cass. 04/10/2018, n. 24201).
11. Ricorrono le condizioni di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, per l’applicazione del raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Dichiara inammissibile la richiesta di liquidazione delle spese relative al procedimento ex art. 373 c.p.c., svoltosi avanti la Corte d’appello di Potenza. Condanna il ricorrente al pagamento, in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.
Così deciso in Roma, il 14 febbraio 2019.
Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2019
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