LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –
Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –
Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso 8083/2017 proposto da:
R.A., domiciliato ex lege in ROMA, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall’avvocato MIRCO GIOVANNI RIZZOGLIO;
– ricorrente –
contro
A.A., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA ALFREDO CASELLA 38, presso lo studio dell’avvocato GIANCARLO SABBADINI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato MASSIMO FOSSATI;
– controricorrente –
e contro
AD.MA., RO. COSTRUZIONI DITTA, E.A., UNIPOL SAI SPA;
– intimati –
nonchè da:
RC RO. COSTRUZIONI DITTA INDIVIDUALE in persona del titolare, elettivamente domiciliata in ROMA, VICOLO ORBITELLI, 31, presso lo studio dell’avvocato MARIA ELENA RIBALDONE, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato VALERIO GIUSEPPE FERRARI;
– ricorrente incidentale –
contro
R.A.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 1648/2016 della CORTE D’APPELLO di TORINO, depositata il 22/09/2016;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 20/03/2019 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARDINO Alberto, che ha concluso per l’accoglimento dei motivi 2 e 3 del ricorso principale, accoglimento del ricorso incidentale Impresa Ro.;
udito l’Avvocato MIRCO GIOVANNI RIZZOGLIO;
udito l’Avvocato GIANCARLO SABBADINI anche per RO. COSTRUZIONI per delega.
FATTI DI CAUSA
Ad.Ma. conveniva in giudizio, dinanzi al Tribunale di Acqui Terme, Ro.Ro. e A.A., rispettivamente, titolare della Ditta appaltatrice e proprietario-committente, per ottenerne la condanna all’esecuzione dei lavori necessari a rimuovere ogni situazione di pericolo provocata nell’appartamento di sua proprietà dai lavori eseguiti dai convenuti, nella qualità indicata, nell’immobile sovrastante il proprio.
Nel giudizio interveniva, ex art. 105 c.p.c., R.A., conduttore dell’immobile danneggiato, che in esso svolgeva la propria attività professionale di commercialista, il quale chiedeva che Ro.Ro., titolare della ditta appaltatrice, e E.A., progettista e direttore dei lavori, fossero condannati al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a causa della ristrutturazione edilizia eseguita nell’immobile sovrastante quello da lui condotto, comprese le lesioni personali che si era procurato urtando accidentalmente contro uno dei puntelli in ferro collocati nello studio da pavimento a soffitto, onde evitare il cedimento della soletta sovrastante.
A.A. chiedeva in via riconvenzionale che fosse riconosciuta la responsabilità esclusiva dell’appaltatore e del direttore dei lavori.
L’appaltatore negava la propria responsabilità e, con autonomo giudizio, poi riunito a quello promosso da Ad.Ma., citava la Fondiaria Sai, ora Unipolsai, per essere dalla medesima manlevato.
Il Tribunale di Acqui Terme, con sentenza n. 31/12, condannava il direttore dei lavori e la ditta appaltatrice ad eseguire, secondo le istruzioni del CTU, i lavori di consolidamento nell’appartamento danneggiato. La ditta appaltatrice veniva condannava altresì a risarcire con la somma di Euro 1.000,00 il conduttore. La domanda riconvenzionale di A.A. veniva respinta e la Fondiaria Sai veniva condannata a manlevare l’appaltatore.
La Corte d’Appello di Torino, con sentenza n. 1648/2016, depositata il 22/09/2016, investita da gravame da Ad.Ma. e da R.A., accertava un concorso di responsabilità nella causazione dei danni così ripartito: il 10% a carico di Ad.Ma., il 67% a carico di E.M., il 22% a carico di Ro.Ro.. Condannava E.A. e Ro.Ro. ad eseguire i lavori di consolidamento della soletta e dell’intradosso in conformità con quanto previsto dalla sentenza di prime cure; poneva i relativi costi per 3/4 a carico di E.A. e per 1/4 a carico di Ro.Ro.; respingeva l’appello di R.A. e quelli incidentali di UnipolSai e di E.A.; regolava, secondo il principio della soccombenza, la liquidazione delle spese di lite e di CTU.
A.A. depositava istanza di correzione materiale della sentenza per non aver previsto, come invece era stato fatto per R.A., che Ad.Ma. fosse tenuta a rifondergli le spese processuali, pur essendo stato rigettato l’appello che egli aveva proposto nei suoi confronti.
La Ditta Ro. eccepiva l’inammissibilità della richiesta di correzione. Ad.Ma. impugnava l’istanza di correzione.
La Corte territoriale rilevava che la questione avrebbe richiesto un’attività di interpretazione del decisum non prevista in sede di correzione di errore materiale.
R.A., formulando nove motivi, illustrati da memoria, ricorre per la cassazione della sentenza n. 1648/2016, della Corte d’Appello di Torino. Resiste e propone ricorso incidentale la Ditta Ro. Costruzioni.
Propone controricorso anche A.A..
RAGIONI DELLA DECISIONE
Ricorso principale di R.A..
1. Con il primo motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 345 c.p.c., la violazione dell’art. 100 c.p.c., art. 2909 c.p.c., la falsa applicazione degli artt. 1583 e 1585 c.c., la violazione dell’art. 1585 c.c., artt. 1168,1170,1171 e 1172 c.c. (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (p. 23).
La sua tesi è che il giudice d’Appello abbia erroneamente ritenuto nuova la domanda con cui egli, in appello, aveva chiesto che i lavori di consolidamento della soletta tramite l’estradosso avvenissero nell’appartamento di A.A., secondo le indicazioni emerse dalle consulenze di parte e dall’accertamento tecnico preventivo.
La novità per il giudice a quo sarebbe stata determinata dal fatto che, intervenendo nel giudizio di primo grado, egli si era limitato a chiedere il risarcimento per equivalente dei danni subiti.
La Corte territoriale era giunta a tale conclusione, ad avviso del ricorrente, senza fornire alcuna motivazione e senza indicare i fatti nuovi od estranei alla materia oggetto del contraddittorio tra le parti; per di più aveva omesso di considerare che: a) con la memoria autorizzata del 27/02/2006, egli aveva chiesto che il CTU nominato indicasse le opere occorrenti per il consolidamento e la messa in sicurezza della soletta divisoria tra l’appartamento di proprietà di A.A. e quello di Ad.Ma.:, i tempi di esecuzione ed i relativi costi; b) era intervenuto in giudizio con un proprio consulente di parte ed aveva chiesto la rinnovazione della CTU, senza andare incontro ad alcuna eccezione; c) la possibilità di interloquire con il CTU era sorta solo dopo le prime indagini peritali e, quindi, le proprie argomentazionii erano state formulate con la prima difesa utile; d) la richiesta di eseguire i lavori di consolidamento doveva considerarsi interdipendente e simbiotica con la richiesta di condanna risarcitoria, atteso che la realizzazione delle opere di consolidamento avrebbe reso più difficoltoso lo svolgimento della sua attività professionale, incidendo sui danni subiti; e) l’art. 345 c.p.c., ammesso che la domanda fosse nuova, ammette che in sede di appello si possa chiedere il risarcimento dei danni derivanti dalla sentenza di prime cure.
Quanto, invece, alla sua carenza di interesse ad agire, perchè conduttore e non proprietario del bene, rilevata dalla Corte territoriale, il ricorrente ritiene che, in ordine al suo interesse ad agire, si sia formato il giudicato, non essendo la carenza di interesse ad agire una eccezione in senso stretto e non avendo alcuna delle parti in giudizio eccepito la carenza del suo interesse ad agire.
Anche gli artt. 1583 e 1584 c.c., richiamati dalla sentenza impugnata, per sostenere che il conduttore avesse solo diritto ad una riduzione del canone di locazione, sarebbero non pertinenti, essendo, invece, applicabile l’art. 1585 c.c., il quale consente al conduttore di agire in giudizio in nome proprio contro terzi che arrechino molestie che diminuiscono l’uso e il godimento della cosa. Tale norma, nella interpretazione fatta propria dal ricorrente, consentirebbe al locatario non solo di agire contro il terzo per il risarcimento dei danni, ma anche di interloquire in ordine alle modalità con cui il responsabile delle molestie debba essere condannato al ripristino dello status quo ante.
In aggiunta, il suo interesse ad agire deriverebbe: dall’art. 1227 c.c., in ragione dell’esigenza di contenere l’ammontare dei danni; dagli artt. 1168 e 1170 c.c., posti a tutela del possesso, nonchè dagli artt. 1171 e 1172 c.c., funzionali a garantire il detentore.
Per finire, anche il fatto che la Corte d’Appello avesse disposto la rinnovazione della CTU, proprio come da sua richiesta, ponendo a suo carico il relativo costo, dimostrerebbe la piena ammiissibilità del suo atto di appello.
Nella sostanza, il motivo aggredisce, con una prospettazione piuttosto complessa e fondata su plurime argomentazioni, due autonome rationes decidendi: quella avente ad oggetto l’interesse ad agire e quella relativa all’inammissibilità della domanda perchè proposta per la prima volta in appello.
1.1. Contrariamente a quanto affermato dalla Corte d’appello, il ricorrente, ai sensi dell’art. 1585 c.c., era da ritenersi legittimato ad agire nei confronti del terzo autore del danno al godimento dell’immobile locato.
La Corte d’appello non ha fatto buon governo dei principi elaborati da questa Corte che, distinguendo le molestie di diritto da quelle di fatto, ha riconosciuto, relativamente a queste ultime, la legittimazione del conduttore ad agire direttamente nei confronti del terzo, il quale, col proprio comportamento illecito, arrechi pregiudizio al godimento materiale dell’immobile locato (Cass. 15/12/2015, n. 25219).
Ciò rende superfluo accertare se in merito al suo interesse ad agire si fosse o meno formato il giudicato e se la sua legittimazione trovasse fondamento nelle altre disposizioni invocate (alcune, quelle in materia di possesso, peraltro, evidentemente inconferenti).
1.2. Va disattesa tuttavia la censura che ha investito l’altra ratio decidendi della sentenza impugnata.
Costituisce ius receptum che, mentre è possibile proporre in appello la domanda volta ad ottenere il risarcimento quando in primo grado sia richiesta la reintegrazione, trattandosi di riduzione della domanda originaria (“costituendo il risarcimento per equivalente un “minus” rispetto al risarcimento in forma specifica (…) con la conseguenza che non incorre nella violazione dell’art. 112 c.p.c., il giudice che pronunci d’ufficio una condanna al risarcimento per equivalente”: Cass. 14/02/2019, n. 4304) non è ammissibile l’inverso, ossia la richiesta in appello della reintegrazione successivamente alla domanda del risarcimento per equivalente avanzata in primo grado (Cass. 21/06/2004, n. 9709).
Nè sarebbe consentito al giudice, senza violare l’art. 112 c.p.c., ove sia stato richiesto il risarcimento per equivalente, disporre la reintegrazione in forma specifica, non compresa in quella domanda così proposta.
2. Con il secondo motivo il ricorrente deduce la violazione degli artt. 1655,2049 e 2051 c.c. (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) (p. 38).
La denuncia riguarda l’esclusione di ogni responsabilità di A.A., proprietario/committente.
Secondo il ricorrente, non solo non sarebbe stata dimostrata la stipulazione di un valido contratto di appalto con la Ditta Ro., dato che, dal tenore della clausola n. 3, non si evincerebbe neppure il suo oggetto, ma neppure sarebbero emerse la autonomia e la discrezionalità della ditta appaltatrice che, al contrario, doveva ritenersi “ragguagliata, indirizzata e guidata” passo dopo passo dal committente, sia personalmente sia per il tramite del progettista e direttore dei lavori, che egli stesso aveva scelto e di cui aveva approvato uno dei progetti, quello che comportava il ribassamento della soletta per acquisire spazio a fini abitativi. Tale condotta ingerente nell’esecuzione dell’appalto avrebbe annichilito o almeno ridotto la responsabilità dell’appaltatore.
Per di più, A.A. sarebbe responsabile anche per culpa in eligendo, avendo affidato i lavori, della cui complessità era edotto, ad una ditta priva delle necessarie capacità tecniche (esperta di lavori di muratura), ed essendosi avvalso per la progettazione delle opere di un soggetto sfornito della necessaria competenza e preparazione (un architetto anzichè un ingegnere): come risulterebbe dal tipo di vizi riscontrati non dipendenti da imperizia e negligenza, ma dal fatto di aver eseguito lavori peggiorativi dello stato preesistente.
La responsabilità del committente avrebbe dovuto affermarsi anche sulla scorta dell’art. 2051 c.c., essendo emerso che, di persona o per tramite del direttore dei lavori suo incaricato, era pressochè quotidianamente presente sul cantiere, confermando che continuava ad avere la custodia del bene.
2.1. Il motivo è infondato.
Anche in questo caso sorreggono la decisione più rationes decidendi: a) la responsabilità del committente non ha natura oggettiva, ma postula una condotta colposa; tale condotta colposa è ravvisabile quando il committente si sia ingerito nell’esecuzione dell’opera appaltata impartendo vincolanti direttive dalle quali sia scaturito il danno e che abbiano ridotto l’appaltatore a nudus minister ovvero quando il committente abbia scelto un progettista, un direttore dei lavori o una ditta appaltatrice inidonei ad eseguire l’incarico loro affidato; b) la responsabilità del proprietario/committente fondata sull’art. 2051 c.c., è esclusa quando l’esecuzione dei lavori commissionati a terzi presenti caratteri di eccezionalità, imprevedibilità ed autonoma incidenza causale rispetto all’evento dannoso tali da integrare il caso fortuito.
Nel caso di specie, la Corte territoriale non ha ravvisato un comportamento colposo ascrivibile ad a.a., perchè la ditta appaltatrice godeva di una certa discrezionalità ed autonomia nell’esecuzione dei lavori, emergente dalla clausola n. 3 del contratto; tale autonomia non era limitata dal fatto che il direttore dei lavori impartisse direttive nè dalla assidua frequentazione del cantiere da parte del proprietario, non essendo stato provato che egli imponesse all’appaltatore direttive sulle modalità costruttive; tantomeno poteva dirsi rilevante il fatto che il committente, di fronte ai due progetti alternativi sottopostogli dal progettista, avesse scelto quello che gli consentiva di realizzare la ristrutturazione coniugandola con l’esigenza di disporre di maggiore spazio abitativo, non essendogli stata rappresentata, come era emerso dalla dichiarazione confessoria di E.A. e dai testimoni escussi, la ricorrenza di problemi tecnici per la sua esecuzione.
Il giudice a quo ha fatto corretta applicazione dei principi della giurisprudenza di legittimità.
Perchè l’appaltatore sia degradato a nudus minister del committente (o del progettista/direttore dei lavori) è necessario che il committente, da lui reso edotto di eventuali carenze ed errori di progettazione, gli richieda di dare egualmente esecuzione al progetto (Cass. 15/06/2018, n. 15732). Sull’appaltatore incombe, infatti, l’obbligo di osservare i criteri generali della tecnica relativi al particolare lavoro affidatogli, quello di controllare, nei limiti delle sue cognizioni, la bontà del progetto o delle istruzioni impartite dal committente e, ove queste siano palesemente errate, può andare esente da responsabilità soltanto se dimostri di avere manifestato il proprio dissenso e di essere stato indotto ad eseguirle, quale nudus minister, per le insistenze del committente ed a rischio di quest’ultimo (Cass. 09/10/2017, n. 23594).
Il direttore dei lavori, per le sue peculiari capacità tecniche, assume nei confronti del committente precisi doveri dii vigilanza, correlati alla particolare diligenza richiestagli e grava su di lui l’obbligazione di accertare la conformità sia della progressiva realizzazione dell’opera appaltata al progetto sia delle modalità dell’esecuzione di essa al capitolato e/o alle regole della tecnica.
Perchè si ravvisino gli estremi del cosiddetto appalto “a regia”, l’attività di controllo del committente deve esulare dai normali poteri di verifica ed essere così penetrante da privare l’appaltatore di ogni margine di autonomia, riducendolo a strumento passivo della sua iniziativa: Cass. 11/02/2005, n. 2752.
Mancando la prova che il proprietario avesse impartito direttive vincolanti all’appaltatore o che il direttore dei lavori, nel caso di specie anche progettista degli stessi, e/o l’appaltatore avessero riferito al committente che l’esecuzione dell’opera non rispettava le regole della tecnica o che non era conforme al progetto era da escludersi una responsabilità del committente.
La responsabilità ex art. 2051 c.c., ad avviso della Corte, doveva escludersi in ragione del fatto che l’esecuzione dei lavori aveva integrato gli estremi del caso fortuito perchè non era prevedibile che le opere commissionate sarebbero state progettate ed eseguite in modo incongruo alla luce della serietà dei professionisti e delle rassicurazioni ricevute dal progettista e direttore dei lavori.
Ciò stando, si rammenta che la responsabilità ex art. 2051 c.c., presuppone la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa; oltre a non risultare che il ricorrente abbia provato la ricorrenza di tale rapporto in capo al ricorrente, non potendo esso dedursi dal mero fatto che con assiduità il committente fosse presente sul cantiere, l’effetto esimente del fatto del terzo o dello stesso danneggiato, integrante il fortuito sul piano processuale non rappresenta un’eccezione in senso proprio, ma integra una semplice difesa, che deve essere esaminata anche d’ufficio dal giudice, attraverso le opportune indagini sull’eventuale sussistenza dell’incidenza causale del fatto del terzo o del comportamento colposo del danneggiato, indipendentemente dalle argomentazioni e richieste della parte, purchè risultino prospettati gli elementi di fatto su cui si fonda l’allegazione del fortuito (cfr.: Cass. 22/03/2011, n. 6529; Cass. 10/11/2009, n. 23734).
Nel caso di specie, la decisione impugnata – muovendo dalla premessa che le risultante della CTU indicavano nei lavori edili eseguiti nel pavimento dell’appartamento del committente la causa principale del disfacimento dell’intonaco nell’appartamento di proprietà di Ad.Ma. – ha, per un verso, ritenuto che il tenore delle allegazioni difensive di Al.Al. consentisse il rilievo del caso fortuito, quale fatto interruttivo del nesso causale e, per altro verso, ha, senz’altro, equiparato al fortuito il fatto del terzo, così come dedotto e accertato – cioè i lavori mal realizzati dall’appaltatore e mal diretti e progettati dal direttore dei lavori, i quali, pur essendo seri professionisti avevano eseguito, il primo, e, progettato, il secondo, in modo incongruo le opere di ristrutturazione, avevano avuto autonoma incidenza causale al verificarsi dell’evento (p. 29 della sentenza) -.
Per di più, sia l’accertamento in ordine alla sussistenza della responsabilità oggettiva che quello in ordine all’intervento del caso fortuito che la esclude involgono valutazioni riservate al giudice del merito, il cui apprezzamento è, di regola, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 29/05/2013, n. 13514).
3. Con il terzo motivo il ricorrente censura la sentenza impugnata per violazione dell’art. 100 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avergli negato l’interesse ad impugnare la sentenza di prime cure nella parte in cui aveva ripartito la responsabilità tra la ditta appaltatrice e il direttore dei lavori senza espressa condanna solidale (p. 55). Per il ricorrente, che ribadisce di avere chiesto, in via principale, in via incidentale nonchè in via istruttoria, la condanna solidale al risarcimento dei danni del committente, dell’appaltatore e del direttore dei lavori, la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto che, indipendentemente dall’entità del risarcimento, doveva considerarsi più vantaggioso avere più soggetti obbligati solidalmente che uno solo, nel caso di specie l’appaltatore, ritenuto erroneamente il solo responsabile dei danni da lui patiti, perchè tali danni sono stati considerati derivanti dai lavori incongrui e non dalla presenza dei puntelli posizionati nell’immobile locato per impedire il crollo dell’intonaco.
3.1. Il motivo è inammissibile per le ragioni di seguito esplicitate:
a)in primo grado il ricorrente aveva chiesto la condanna al risarcimento del danno per equivalente;
b) la domanda di reintegrazione in forma specifica proposta per la prima volta in appello è stata correttamente reputata inammissibile, perchè nuova;
c)il ricorrente aveva ottenuto in primo grado la condanna della sola ditta appaltatrice al risarcimento dei danni;
d) la condanna della ditta appaltatrice e del direttore dei lavori, in ordine alla quale non era prevista la solidarietà, era relativa alla reintegrazione in forma specifica dei danni;
e) quindi, correttamente, la Corte d’Appello ha rigettato la richiesta del ricorrente di ottenere la condanna in solido di Ro.Ro. e di E.A..
4.Con il quarto motivo il ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo (p. 59), ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nonchè la falsa applicazione dell’art. 2058 c.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La tesi del ricorrente è che il giudice a quo abbia travisato le risultanze della CTU a firma L. svolta in sede di appello, ritenendo che la soluzione tecnica suggerita fosse sovrapponibile a quella emersa dalla CTU O. svolta nel giudizio di prime cure.
Il CTU L., invece, avrebbe ritenuto impraticabile la soluzione tecnica suggerita dal CTU O. e avrebbe concluso nel senso della fattibilità della soluzione contenuta nel progetto *****, idonea a garantire sia l’altezza abitabile dell’immobile di proprietà di A.A. sia la sicurezza dell’appartamento sottostante, con il minore aggravio per gli occupanti di quest’ultimo, perchè il consolidamento della soletta sarebbe stato realizzato all’interno della proprietà di A.A., agendo sull’intradosso del solaio.
L’altra censura mossa alla sentenza gravata è quella di essersi discosta dalla CTU disposta in secondo grado, aderendo a quella già esperita in primo grado, senza alcuna motivazione.
La violazione dell’art. 2058 c.c., comma 2 – ulteriore censura prospettata – consisterebbe nell’aver ritenuto che, essendo i lavori di ristrutturazione eseguiti da A.A., oggetto di concessione da parte del Comune, egli non fosse obbligato, a seguito della richiesta di risarcimento in forma specifica, a demolire i lavori già realizzati, perchè la richiesta di demolizione sarebbe risultata eccessivamente onerosa e non giustificata dall’esigenza di garantire un diritto reale, essendo orientata alla tutela di un diritto patrimoniale costituito dal costo delle opere necessarie per eliminare i danni. Contrariamente a quanto ritenuto dal giudice a quo – il quale, peraltro, apoditticamente, avrebbe ritenuto che l’abbassamento del soffitto dell’appartamento di proprietà di Ad.Ma. non avrebbe rappresentato un deprezzamento del bene, ma riducendone il consumo energetico ne avrebbe accresciuto la commerciabilità – il mancato ripristino dello status quo ante avrebbe rappresentato una lesione del diritto proprietà, del possesso e della detenzione.
Le plurime contestazioni sono tutte relative alle modalità di tutela risarcitoria in forma specifica dei danni cagionati all’immobile locato. Avendo ritenuto nuova e dunque inammissibile la domanda relativa alla reintegrazione in forma specifica, il motivo è da considerarsi assorbito.
Non avrebbe, del resto, meritato accoglimento per più ragioni.
Va data continuità all’orientamento secondo il quale la denuncia di travisamento del fatto – che costituisce motivo di revocazione ai sensi dell’art. 395 c.p.c. e non di ricorso per cassazione, perchè implica la valutazione di un complesso di circostanze che comportano il rischio di una rivalutazione del fatto non consentita al giudice di legittimità – diverge dall’ipotesi del travisamento della prova che implica non una valutazione dei fatti, ma una constatazione o un accertamento che l’informazione probatoria, utilizzata in sentenza, risulti contraddetta da uno specifico atto processuale.
Il sindacato di legittimità richiesto in tale ultima ipotesi consiste nell’esaminare l’atto specificamente indicato, onde accertare se l’informazione probatoria riportata ed utilizzata dal giudice per fondare la decisione sia diversa ed inconciliabile con quella contenuta nell’atto e rappresentata nel ricorso o addirittura non esista nell’atto e se l’informazione risultante dalla prova asseritamente travisata si palesi come decisiva, perchè capace di provocare una decisione di contenuto diverso rispetto a quella impugnata.
Naturalmente è a carico del ricorrente l’onere di mettere la Corte di legittimità nella condizione di verificare l’esistenza del dato così rilevante e, quindi, è necessario che venga allegato al ricorso l’atto in cui la prova è stata acquisita al processo.
Della relazione del CTU L. che sarebbe stata travisata dal giudice a quo, il ricorrente riproduce ampi stralci, dai quali, tuttavia, non si evincono i termini del denunciato travisamento.
Non risulta, infatti, che tale relazione riporti dati e informazioni di cui la Corte territoriale avrebbe equivocato la portata inducendola ad assumere una decisione viziata.
La Corte d’appello ha messo a confronto la relazione del CTU O. e quella del CTU L. ed ha tratto il convincimento che le soluzioni tecniche indicate, “seppure leggermente diverse”, fossero sovrapponibili (p. 23 della sentenza) e che il relativo giudizio tecnico fosse sostanzialmente analogo (p. 21 della sentenza).
Ha dato atto che le soluzioni proposte dai CTP, pur valide, non erano, secondo le relazioni peritali, in concreto realizzabili, perchè avrebbero comportato una riduzione delle altezze nella proprietà di A.A. di cm 15-20 ed avrebbero richiesto delle saldature elettriche di difficile esecuzione con conseguenze difficilmente prevedibili per l’assetto delle travi.
Ha convenuto con il CTU L. che la soluzione tecnicamente più adeguata (in termini di costi, di tempi di realizzazione e di soddisfacimento dell’esigenza di non ridurre l’altezza dell’appartamento di Al.Al.) fosse quella di intervenire sull’intradosso del solaio all’interno della proprietà di Ad.Ma., tramite il consolidamento dei profilati esistenti e la realizzazione di tramezzi in cartongesso.
Non c’è traccia nella sentenza impugnata” nè ne ha fornita alcuna il mezzo di impugnazione, che il giudice a quo abbia deciso in contrasto con la relazione peritale da lui stesso disposta, sì da essere gravato dell’obbligo di motivare le ragioni per cui si era determinato a disattendere le risultanze della seconda CTU.
Lo stesso ricorrente riconosce che la soluzione adottata dal giudice a quo era stata indicata dal CTU L.. E’ solo un’opinione del ricorrente che essa fosse recessiva rispetto a quella di intervenire sull’estradosso, cioè nell’appartamento di A.A.; ed è sempre frutto di una valutazione soggettiva di R.A. l’idea che sarebbe paradossale che il giudice, rispetto all’esigenza di evitare un ulteriore vulnus a chi già incolpevolmente danneggiato, scegliesse la soluzione più vantaggiosa per gli interessi di chi con il proprio comportamento aveva creato la situazione di rischio.
La verità è che il CTU aveva indicato due proposte per il consolidamento del solaio e che più soluzioni tecniche erano emerse già nel giudizio di prime cure (il progetto ***** e quello *****), che la proprietaria dell’appartamento danneggiato, Ad.Ma., e il conduttore, l’attuale resistente, avevano sempre insistito perchè venisse dato seguito al progetto ***** – nonostante lo stesso fosse stato considerato tecnicamente inadeguato da ben due relazioni tecniche e risultasse fondato su una lettura della normativa non corretta (p. 18) – in ragione del fatto che esso non prendeva in considerazione l’eventualità di interventi al piano sottostante (cfr. p. 19 della sentenza).
Non è fondata la censura relativa al fatto che il CTU L. non fosse stato incaricato di prospettare una soluzione circa il rifacimento della soletta: il che, oltre a denotare un comportamento processuale contraddittorio da parte del ricorrente (se il CTU L. avesse, come da lui asserito, ritenuto eseguibile il progetto volto a realizzare i lavori nell’appartamento di Al.Al. non avrebbe avuto ragione di lamentare che il quesito sottopostogli non riguardasse l’individuazione di soluzioni tecniche alternative) è contraddetto dalla specificità dei quesiti sottoposti al consulente.
Nè il ricorrente può lamentare la violazione dell’art. 2058 c.c., comma 2, essendo rimesso alla valutazione discrezionale del giudice del merito attribuire al danneggiato il risarcimento per equivalente, anzichè in forma specifica, sulla base di valutazione che si risolve in giudizio di fatto, ai sensi dell’art. 2058 c.c., comma 2, insindacabile per cassazione (Cass. 25/06/2013, n. 15875).
5. Con il quinto motivo il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 112 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (p. 74).
La Corte d’Appello, rigettando il motivo di gravame con cui aveva denunciato il fatto che il giudice di prime cure si fosse pronunciato sul quantum debeatur, nonostante egli avesse chiesto una condanna generica sarebbe incorsa in errore, perchè una verifica ex actis avrebbe dimostrato che non era mai stata avanzata alcuna richiesta di quantificazione del danno neppure in via equitativa.
5.1. Il motivo è infondato: da p. 3 della sentenza impugnata si desume che R.A. aveva chiesto, in via subordinata al giudice, di liquidare in via equitativa e/o nella misura che la Corte d’Appello avesse ritenuto di giustizia e, comunque, in misura superiore a quanto ritenuto nella sentenza impugnata.
Tali rilievi e, in aggiunta, la descrizione in modo puntuale dei pregiudizi di cui chiedeva il ristoro, senza limitarsi all’uso di formule generiche, come la richiesta di risarcimento dei danni subiti e subendi (Cass. 13/10/2017, n. 24091), impedivano alla Corte d’Appello di emanare una sentenza di condanna generica al risarcimento del danno, rimettendone la liquidazione ad un separato giudizio, ma, in ossequio al principio di corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato (artt. 112 e 278 c.p.c.), le imponevano di liquidare il danno in base agli elementi acquisiti al processo oppure di rigettare la domanda per difetto di prova.
6. Con il sesto motivo il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 2043,2727,2729 c.c. (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) nonchè l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti (ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) (p. 77).
La censura riguarda le motivazioni addotte dalla Corte d’Appello per rigettare la sua richiesta risarcitoria: la mancata prova che i lavori si protraessero oltre i tempi preventivati; l’assenza di scadenze fiscali durante il mese di agosto che imponessero in qualunque momento la disponibilità della documentazione cartacea e delle apparecchiature informatiche; la possibilità di spostare i computer ed i server in altre stanze; l’assenza della necessità di traslocare, verificata la possibilità che i lavori venissero eseguiti in più tranche; la mancata prova del danno all’immagine e all’avviamento, non essendo a ciò sufficiente la testimonianza di T.S. che aveva solo dimostrato la curiosità della clientela e la caduta sporadica di calcinacci; la mancata prova della ricorrenza di un danno da stress, non essendo idonee le relazione mediche prodotte, poichè da esse non si evincevano le cause della sintomatologia ansioso-depressiva lamentata; la mancata prova di lesioni fisiche derivanti dall’urto contro i puntelli metallici.
Fatta eccezione per la dedotta violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., su cui cfr. infra, il ricorrente pretende un inammissibile riesame del corredo probatorio di cui la Corte d’Appello si è avvalsa per ritenere che la ricorrenza dei danni lamentati dal ricorrente non fosse provata. Quello di legittimità, però, non è un terzo giudizio di merito che può surrettiziamente essere introdotto attraverso la generica denuncia di una violazione di legge (riguardo alla violazione dell’art. 2043 c.c., il ricorrente afferma apoditticamente che non è stato correttamente)U applicato ed interpretato (p. 83, p. 86, p. 89)).
Nè la censura può essere accolta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, militano in tal senso le seguenti considerazioni: il vizio di motivazione deducibile con il ricorso ex art. 360 c.p.c., n. 5 non può consistere nella difformità dell’apprezzamento dei fatti e delle prove compiuto dal giudice del merito rispetto a quello preteso dalla parte. Proprio in una critica dell’esito della valutazione delle prove si risolve la pur copiosa esposizione argomentativa del ricorrente.
Anche la valutazione delle risultanze della prova testimoniale, verso cui si indirizza buona parte delle argomentazioni di R.A., involge esclusivamente apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della decisione una fonte di prova o nell’escluderla, non incontra alcun limite se non quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento prospettato dalle parti od a confutare ogni deduzione difensiva. Ciò vale, ad esempio, tanto per la deposizione resa da P.C., che aveva solo confermato la incontestata presenza dei puntelli e la sporadica caduta di calcinacci, quanto per la corrispondenza con un’agenzia immobiliare, da cui non poteva certo evincersi la ricorrenza di un danno per il trasloco temporaneo dello studio professionale che, come lo stesso ricorrente riconosce, non c’è mai stato (ne deriva, oltre tutto la totale carenza decisività di tali prove: decisività che sarebbe stato onere del ricorrente dimostrare, al fine di integrare gli oneri di allegazione che incombono su chi si avvale del vizio impugnatorio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il giudice a quo ha motivato il mancato riconoscimento della voce di danno richiesta per difetto di prova; ciononostante, in maniera del tutto eccentrica rispetto alla motivazione della sentenza, la quale, peraltro, ha ritenuto che non fosse necessario il trasloco neppure temporaneo dello studio professionale del ricorrente, R.A. insiste nel lamentare la liquidazione del relativo danno basandosi sul dato “innegabile che, anche ove l’esercizio professionale venisse chiuso – vuoi per ferie, vuoi per l’irreperibilità di una sistemazione interinale alternativa – dovrebbero sostenersi i costi per lo sgombero dei locali dal mobilio ivi presente, dalla diversa attrezzatura e, soprattutto, da tutta la documentazione (…)”.
Il giudice a quo ha fatto ricorso al fatto notorio – che durante il mese di agosto non vi sia alcuna scadenza relativa agli obblighi di presentazione delle scadenze fiscali, nè è prevista alcuna altra incombenza e che nel caso di notifica di sanzioni è prevista la sospensione dei termini processuali per l’impugnativa – per contestare che i lavori di rifacimento della soletta potessero eseguirsi durante il periodo di ferie.
Pur trattandosi dell’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito, esso è sindacabile, in sede di legittimità, nel caso in cui la decisione della controversia si basi su un’inesatta ovvero su una non chiarita nozione del notorio da intendersi quale fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo. La Corte ritiene, tuttavia, che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività che durante il mese di agosto non vi siano di norma scadenze fiscali e che secondo la conoscenza comune durante il mese di agosto uno studio professionale resti chiuso per un periodo di ferie.
Non solo: la decisione della Corte territoriale si è basata sulla circostanza, peraltro emergente anche dalla relazione peritale, secondo cui, date le modalità tecniche indicate come quelle più adeguate per eseguire il rifacimento della soletta – in specie, la ripartizione in più tranche, anche in considerazione della suddivisone dello studio professionale in sei stanze – non fosse necessario traslocare, ma limitarsi ad organizzare diversamente gli spazi disponibili.
7. Con il settimo motivo il ricorrente deduce la violazione dell’art. 2043 c.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 (p. 91).
Il ricorrente torna ad affermare di avere chiesto solo l’accertamento dell’an debeatur e non del quantum e censura la motivazione – la presenza dei puntelli si è protratta per otto anni perchè la proprietaria, Ad.Ma. e il conduttore, R.A., avevano respinto tutte le proposte transattive formulate dalle altre parti rendendo impossibile l’esecuzione dei lavori – con cui la Corte d’Appello ha confermato la statuizione del giudice di prime cure relativa alla quantificazione del danno.
7.1. Il motivo è assorbito.
8. Con l’ottavo motivo il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., nonchè la violazione dell’art. 3 Cost., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (p. 94).
La censura ha ad oggetto la condanna – sia nell’an che nel quantum – alla rifusione delle spese di lite sopportate dal committente, nei cui confronti l’appello era stato rigettato, senza tener conto che egli era intervenuto in un giudizio già pendente e si era limitato ad avanzare le proprie richieste nei confronti del proprietario dell’immobile in cui erano stati eseguiti i lavori causa dei danni e peraltro senza condannare alla rifusione delle spese processuali Ad.Ma. che aveva citato in giudizio A.A..
8.1. Il motivo è infondato.
La Corte territoriale ha applicato il principio di soccombenza, il quale rappresenta il pendant del principio di causalità, in base al quale non è esente da onere delle spese la parte che, con il suo comportamento, abbia provocato la necessità del processo, a prescindere dalle ragioni – di merito o processuali – che abbiano determinato la soccombenza stessa. Perciò non hanno pregio le argomentazioni del ricorrente volte a dimostrare la ragione per cui aveva agito – era stato costretto, egli sostiene – nei confronti del proprietario/committente. Va, in aggiunta, ricordato che il suo interesse ad agire nei confronti di A.A. era fondato sull’art. 1585 c.c., comma 2; tale linea processuale non era, tuttavia, obbligata, atteso che egli avrebbe potuto agire in alternativa nei confronti della locatrice Ad.Ma..
9. Con l’ultimo motivo, il nono, il ricorrente deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.
La censura riguarda la motivazione della compensazione delle spese di lite nei confronti della ditta appaltatrice. Per il ricorrente le spese avrebbero dovuto essere poste interamente a carico di Ro.Ro..
9.1. Il motivo è infondato.
Con una motivazione logicamente ineccepibile e scevra da errori giuridici è stata disposta la compensazione delle spese di lite nel rapporto processuale tra il ricorrente e la Ditta appaltatrice in considerazione della reciproca soccombenza, atteso che il ricorrente non era risultato vittorioso sull’intera domanda proposta del giudizio (aveva chiesto il riconoscimento di ben cinque voci di danno), ma solo su una parte di essa.
Ricorso incidentale di Ro.Ro..
10. La censura, che non è stata ricondotta ad alcuno dei vizi di cui all’art. 360 c.p.c., riguarda la mancata condanna risarcitoria del committente nonostante egli: a) avesse optato, per trarne un beneficio personale, per l’esecuzione del progetto più rischioso, comportante l’abbassamento della soletta; b) conoscesse i prevedibili rischi di stabilità provocati dall’esecuzione di quella tipologia di lavori in una costruzione ottocentesca.
In aggiunta, il controricorrente deduce che la confessione del progettista dei lavori non poteva coinvolgere altri all’infuori del dichiarante e che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere un evento eccezionale, interruttivo del nesso causale, l’esecuzione della soletta a regola d’arte.
10.1. Il motivo è inammissibile, perchè non è evincibile il vizio impugnatorio denunciato.
La cognizione della Corte ha un perimetro che, nel rispetto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e dell’art. 369 c.p.c., deve essere individuato da chi, sia pure senza l’adozione di formule sacramentali, ad essa si rivolga.
Nel caso d specie non fa difetto l’individuazione formale degli assunti errori commessi dalla sentenza impugnata – difetto superabile con il principio iura novit curia, al fine di individuare la causa petendi della domanda processuale di impugnazione, posta alla base della richiesta caducatoria della decisione (petitum) -; manca proprio la possibilità di ascrivere la volontà dell’impugnante ad un vizio di legittimità sostanzialmente, ma inequivocabilmente riconducibile ad una delle ipotesi tassative di cui all’art. 360 c.p.c..
Viene esposta, infatti, una congerie di censure che per il modo con cui è presentata si traduce in una richiesta di rifacimento del giudizio di merito circa la responsabilità del proprietario/committente certamente sottratto allo scrutinio di legittimità.
11. Ne consegue il rigetto del ricorso principale.
12. Il ricorso incidentale va dichiarato inammissibile.
13. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
14. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti per porre a carico del ricorrente principale e di quello incidentale l’obbligo di pagare il doppio del contributo unificato.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso principale e dichiara inammissibile quello incidentale. Condanna R.A. al pagamento delle spese in favore di A.A. liquidandole in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Compensa le spese tra il ricorrente principale e quello incidentale.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 20 marzo 2019.
Depositato in Cancelleria il 26 giugno 2019
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