Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.17402 del 28/06/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 8230-2015 proposto da:

FONDIARIA LASA SPA, in persona del Prof. Z.A., elettivamente domiciliato in ROMA, LARGO SARTI 4, presso lo studio dell’avvocato BRUNO CAPPONI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ELISABETTA TOLLIS giusta procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.A., S.R., G.A. nella qualità di Commissari Liquidatori delle Procedure di Amministrazione Straordinaria delle Imprese del Gruppo Ge., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA G. PISANELLI 2, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO POMPA, che li rappresenta e difende giusta procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 1829/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA, depositata il 18/03/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13/12/2018 dal Consigliere Dott. STEFANO GIAIME GUIZZI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SGROI CARMELO, che ha concluso per l’accoglimento;

udito l’Avvocato ANTONIETTA TARANTINO per delega;

udito l’Avvocato VINCENZO POMPA.

FATTI DI CAUSA

1. La società Fondiaria Lasa S.p.a. ricorre, sulla base di due motivi, per la cassazione della sentenza n. 1829/14, del 18 marzo 2014, della Corte di Appello di Roma che – rigettando il gravame da essa esperito contro la sentenza n. 2855/11 del Tribunale capitolino ha confermato il rigetto della domanda sia di restituzione dell’immobile sito in *****, proposta dall’odierna ricorrente “sub specie” di accertamento della violazione dell’art. 1804 c.c., che di risarcimento del danno.

2. Riferisce, in punto di fatto, la ricorrente di aver acquistato l’immobile suddetto a seguito di concordato con assunzione, omologato dal Tribunale di Roma con sentenza passata in giudicato, quale terzo assuntore del concordato, nonchè di aver stipulato, contestualmente alla omologazione, un contratto di comodato con il Commissario “pro tempore” delle società e imprese del Gruppo Ge., in amministrazione straordinaria. L’uso dell’immobile “de quo” consentito al comodatario era, peraltro, limitato alle necessità amministrative di gestione delle procedure di amministrazione straordinaria delle società ed imprese del predetto gruppo societario, di talchè C.A., G.A. e S.R., subentrati nella titolarità dell’organo commissariale, avrebbero violato le pattuizione contrattuali, facendo sì che, all’insaputa del comodante e senza il suo consenso, nell’immobile fosse installata la sede di numerose altre imprese sottoposte a procedure di amministrazione straordinaria (ad essi affidate, del pari, come commissari liquidatori), benchè le stesse fossero estranee al Gruppo Ge.. Ravvisando una violazione dell’art. 1804 c.c., essendo rimasta non soddisfatta in via stragiudiziale la propria richiesta di restituzione del bene, l’odierna ricorrente si rivolgeva al Tribunale romano perchè, accertata tale violazione, volesse condannare il predetto collegio commissariale alla restituzione dell’immobile e al risarcimento del danno.

La domanda proposta veniva rigettata dal primo giudice, sul presupposto che l’uso eccedente quello consentito o la cessione a terzi in godimento avrebbe potuto ravvisarsi solo “previa dimostrazione che l’ulteriore attività gestita impegna energie altrimenti utilizzabili per le liquidazioni del gruppo risultando a queste di intralcio”, e ciò perchè, solo in questo caso, risulterebbe impresso “all’immobile un vincolo di destinazione diverso da quello concordato con ricadute sulla durata della fruizione da parte del comodatario”.

Proposto gravame dell’odierna ricorrente innanzi alla Corte capitolina, lo stesso veniva rigettato, anche sull’assunto che la gestione di altre pratiche, diverse da quelle concernenti società o imprese del Gruppo Ge., risultasse finalizzata ad esigenze di concentrazione e di gestione unificata delle procedure, secondo la previsione di cui al D.M. 4 aprile 2007 del Ministero dello sviluppo economico, non ponendosi in termini di abuso della cosa, da restituire, dunque “solo nel momento (pacificamente non ancora intervenuto) in cui le procedure relative alla società del gruppo Ge. saranno chiuse”.

3. Avverso tale ultima decisione ha proposto ricorso per cassazione la società Fondiaria Lasa, sulla base di due motivi.

3.1. Il primo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3), 4) e 5) – deduce violazione e falsa applicazione delle norme generali sull’interpretazione dei contratti (artt. 1362 c.c. e ss.), nonchè degli artt. 1803 e 1804 c.c. oltre che dell’art. 1418 c.c., e infine “omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio”.

Si censura la sentenza impugnata sul rilievo che l’interpretazione degli accordi “inter partes”, operata dal primo giudice e acriticamente recepita da quello di appello, sarebbe palesemente erronea. Analogamente, l’individuazione della condotta delle parti anche successiva alla conclusione del contratto, proposta dalla Corte Capitolina quale indice del corretto adempimento del comodatario del dettato contrattuale, sarebbe frutto di un palese errore nella individuazione della “ratio” e, conseguentemente, nell’applicazione, dell’art. 1804 c.c.

In particolare, la sentenza – laddove afferma che la corretta interpretazione del testo contrattuale porta ad individuare nelle necessità amministrative di gestione delle procedure di amministrazione straordinaria le finalità sottese alla stipula del contratto – avrebbe “totalmente omesso di considerare che le procedure di amministrazione straordinaria per la cui gestione era stato stipulato il contratto di comodato” erano “esclusivamente quelle concernenti le imprese del Gruppo Ge., e non altre”.

Sarebbe, dunque, del tutto irrilevante la circostanza valorizzata dalle decisioni di merito che i commissari stiano espletando il compito in relazione al quale è stata ottenuta la detenzione dell’appartamento oggetto di causa. Infatti, qualora nel contratto sia dedotto lo specifico uso a cui la cosa è destinata, assurgendo detta previsione a elemento essenziale del contratto, quale scopo convenzionale tipizzato, deve ritenersi radicalmente escluso che il comodatario possa servirsi della stessa anche per un uso diverso, così come in favore di soggetti diversi da quelli per il cui interesse il contratto è stato stipulato. Sarebbe stata, inoltre, ignorata la causa concreta del contratto in esame, con conseguente violazione – peraltro, prospettata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – dell’art. 1418 c.c.

3.2. Il secondo motivo – proposto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5) – deduce violazione e falsa applicazione del principio dell’assenza di poteri autoritativi della P.A. nei rapporti tra privati e dell’art. 41 Cost., e, inoltre, omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, nonchè un ulteriore profilo di violazione e falsa applicazione della teoria della causa in concreto, di cui all’art. 1418 c.c.

La sentenza impugnata è censurata laddove afferma che “la gestione di altre pratiche appare finalizzata alle esigenze di concentrazione e di gestione unificata delle procedure, individuata dal Ministero dello sviluppo economico con decreto del 4 aprile 2007, e non si pone in termini di abuso della cosa, che dovrà essere restituita solo nel momento (pacificamente non ancora intervenuto) in cui le procedure relative alla società del gruppo Ge. saranno chiuse”.

Si assume che il citato provvedimento ministeriale non avrebbe potuto validamente autorizzare o giustificare l’uso dell’immobile dato in comodato, essendo la pubblica amministrazione del tutto priva di poteri autoritativi suscettibili di essere opposti al comodante nell’ambito di un rapporto meramente privatistico qual è, pacificamente, quello per cui è causa.

Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte territoriale sussisterebbe, dunque, un’ipotesi di abuso del diritto, ponendosi la condotta del comodatario come idonea a ledere finanche il diritto di iniziativa economica, riconosciuto dall’art. 41 della nostra Carta costituzionale.

Si ritiene, pertanto, che la condotta del collegio commissariale debba essere valutata esclusivamente alla luce del titolo del rapporto contrattuale, e ciò anche in ragione del fatto che le parti non potevano ragionevolmente supporre che la chiusura delle procedure relative alle società del Gruppo Ge., all’epoca ancora aperte, potesse astrattamente trascinarsi fino ai nostri giorni per effetto di modifiche legislative in materia, e particolarmente dell’introduzione della L. 12 dicembre 2002, n. 273, che ha disposto la messa in liquidazione delle società già in amministrazione straordinaria e ha implicato, nel 2003, la nomina del collegio commissariale deputato alla liquidazione delle società medesime.

Nè, d’altra parte, le parti del contratto potevano prevedere che un decreto ministeriale, riferito a procedure alle quali entrambe risultavano totalmente estranee, potesse rendere “giustificabile” che la “res commodata” venisse adibita a sede amministrativa/operativa di società/procedure che nulla hanno a che vedere con quelle originariamente richiamate in contratto.

D’altra parte, diversamente opinando, si dovrebbe allora concludere che le circostanze appena indicate, ove considerate rilevanti per l’economia nazionale, legittimino, comunque, il comodante a richiedere la restituzione dell’immobile, ai sensi dell’art. 1467 c.c.

4. Il C., il G. ed il S. hanno resistito, con controricorso, all’avversaria impugnazione, chiedendone la declaratoria di inammissibilità ovvero, in subordine, di infondatezza.

In particolare, i controricorrenti – non senza previamente rammentare come l’odierna ricorrente abbia incardinato già due diversi giudizi, entrambi definiti con sentenza passata in giudicato, per conseguire la restituzione del bene dato in comodato sottolineano come il ricorso sarebbe inammissibile, a norma dell’art. 348-ter c.p.c., u.c., laddove ha inteso denunciare l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio.

In ogni caso, si sottolinea l’infondatezza dell’impugnazione, avendo i due giudici di merito fatto corretta applicazione, per un verso, della L. n. 273 del 2002, art. 7, comma 3, e del già citato decreto del Ministro dello sviluppo economico del 4 aprile 2007.

Si evidenzia, inoltre, come lo svolgimento nell’immobile oggetto di comodato anche delle attività gestoria e/o liquidatoria di procedure diverse da quelle relative al gruppo Ge., giammai potrebbe considerarsi concessione, ovvero trasferimento, a terzi soggetti del godimento di quel bene, apparendo, piuttosto, applicazione del principio sancito dall’art. 1375 c.c., dell’esecuzione del contratto secondo buona fede.

5. La ricorrente ha presentato memoria, ex art. 378 c.p.c., insistendo nelle rispettive argomentazioni e replicando a quelle avversarie.

RAGIONI DELLA DECISIONE

6. “In limine”, vanno disattese le eccezioni preliminari formulate dai controricorrenti.

6.1. Innanzitutto, quella formulata nel corso della pubblica udienza innanzi a questa Corte, di intempestività del ricorso, basata sul rilievo che il ricorso risulta proposto sessanta giorni dopo la pronuncia della sentenza della Corte capitolina, adottata nelle forme di cui all’art. 281-sexies c.p.c.

L’assunto del controricorrente è che la lettura in udienza della motivazione della sentenza equivalga a notifica della stessa, ai fini ed agli effetti della decorrenza del termine “breve” di impugnazione, ex art. 325 c.p.c., comma 2.

In senso contrario, tuttavia, occorre qui dare continuità al principio secondo cui, in tema di impugnazioni, “nel caso in cui il giudice abbia ordinato, ai sensi dell’art. 281-sexies c.p.c., la discussione orale della causa ed abbia quindi pronunciato sentenza a conclusione della stessa, dando lettura del dispositivo e della concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, il termine “lungo” per proporre l’impugnazione, ex art. 327 c.p.c., decorre dalla data della pronuncia, che equivale, unitamente alla sottoscrizione del relativo verbale da parte del giudice, alla pubblicazione prescritta nei casi ordinari dall’art. 133 c.p.c., con esonero, quindi, della cancelleria dalla comunicazione della sentenza ex art. 176 c.p.c.” (Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, n. 17311, Rv. 636666-01).

6.2. Non fondata è, poi, l’eccezione di inammissibilità delle censure formulate dalla ricorrente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), eccezione basata sul disposto dell’art. 348-ter, u.c. medesimo codice, non essendo detta norma applicabile “ratione temporis” al presente giudizio.

Infatti, essendo stato il gravame, esperito dall’odierna ricorrente, proposto con ricorso depositato in data 8 marzo 2012, e dunque anteriormente all’11 settembre 2012, siffatta circostanza esclude come detto, “ratione temporis” – l’operatività dell’art. 348-ter c.p.c., u.c. (cfr. Cass. Sez. 5, sent. 18 settembre 2014, n. 26860, Rv. 633817-01; in senso conforme, Cass. Sez. 6-Lav., ord. 9 dicembre 2015, n. 24909, Rv. 638185-01, nonchè Cass. Sez. 6-5, ord. 11 maggio 2018, n. 11439, Rv. 648075-01).

7. Ciò premesso, il ricorso va accolto.

7.1. Il primo motivo è fondato, sebbene nei termini di seguito precisati, ovvero esclusivamente laddove prospetta la violazione dell’art. 1804 c.c., tra le varie censure in cui si articola, peraltro in modo ammissibile, giacchè “il fatto che un singolo motivo sia articolato in più profili di doglianza, ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, non costituisce, di per sè, ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, dovendosi ritenere sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la sua formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati” (così Cass. Sez. Un., sent. 6 maggio 2015, n. 9100, Rv. 635452-01; in senso sostanzialmente analogo, sebbene “a contrario”, si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 17 marzo 2017, n. 7009, Rv. 643681-01).

7.1.1. Non fondata è, infatti, la censura di “omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, giacchè tale vizio non può addebitarsi alla Corte capitolina, la quale ha certamente considerato la circostanza che le si imputa di aver trascurato, ovvero che “le procedure di amministrazione straordinaria per la cui gestione era stato stipulato il contratto di comodato” fossero “esclusivamente quelle concernenti le imprese del Gruppo Ge., e non altre”.

La sentenza impugnata, infatti, ha escluso che siffatta evenienza potesse integrare quella situazione di abuso (o di concessione del bene in godimento a terzi) idonea a giustificare la richiesta di restituzione ex art. 1804 c.c., norma della quale – non caso – si lamenta la violazione (censura su cui si tornerà più avanti, proprio per illustrare le ragioni, come anticipato, della sua fondatezza).

7.1.2. Inammissibili, invece, risultano le censure di violazione degli artt. 1362 c.c. e ss., dell’art. 1418 c.c. (peraltro, nell’ambito del primo motivo, dedotta – con scelta, invero, singolare ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, norma che, notoriamente, dà rilievo agli “errores in procedendo”, e dunque a vizi di natura processuale), nonchè del principio dell’assenza di poteri autoritativi della P.A. nei rapporti tra privati e (di conseguenza) dell’art. 41 Cost.

Quanto, invero, a quest’ultima censura, se ne deve rilevare la novità, donde l’applicazione del principio secondo cui nel “giudizio di cassazione non si possono prospettare nuove questioni di diritto ovvero nuovi temi di contestazione che implichino indagini ed accertamenti di fatto non effettuati dal giudice di merito, nemmeno se si tratti di questioni rilevabili d’ufficio” (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 25 ottobre 2017, n. 25319, Rv. 645791-01).

In relazione, invece, all’asserita violazione delle norme sull’interpretazione del contratto, dirimente è il rilievo secondo cui la parte che denunci “un errore di diritto o un vizio di ragionamento nell’interpretazione di una clausola contrattuale”, come avvenuto nella specie “non può limitarsi a richiamare genericamente le regole di cui agli artt. 1362 c.c. e ss., avendo l’onere di specificare i canoni che in concreto assuma violati ed il punto ed il modo in cui il giudice del merito si sia dagli stessi” (Cass. Sez. Lav., sent. 15 novembre 2013, n. 25728, Rv. 628585-01), fermo, in ogni caso, restando che le censure di violazione degli artt. 1362 c.p.c. e ss. non possono mai “risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni, sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra” (così, da ultimo, Cass. Sez. 3, sent. 28 novembre 2017, n. 28319, Rv. 646649-01; in senso conforme anche Cass. sez. 3, ord. 10 maggio 2018, n. 11254, Rv. 648602-01).

Scarsamente comprensibile, per concludere sul punto, si rivela, invece, la censura proposta ex art. 1418 c.c., per violazione “della teoria della causa in concreto”, considerato che la norma in questione, con riferimento a tale istituto, trova applicazione o in mancanza di causa, ovvero in presenza di causa illecita o, al limite, non meritevole di tutela (da ultimo, Cass. Sez. 1, sent. 27 ottobre 2017, n. 25630, Rv. 647222-01). In ogni caso, poi, la censura non si correla in alcun modo a quanto statuito dalla sentenza impugnata, dovendo, pertanto, farsi applicazione – sul punto – del principio secondo cui “il motivo d’impugnazione è costituito dall’enunciazione delle ragioni per le quali la decisione è erronea e si traduce in una critica della decisione impugnata, non potendosi, a tal fine, prescindere dalle motivazioni poste a base del provvedimento stesso, la mancata considerazione delle quali comporta la nullità del motivo per inidoneità al raggiungimento dello scopo, che, nel giudizio di cassazione, risolvendosi in un “non motivo”, è sanzionata con l’inammissibilità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., n. 4) ” (Cass. Sez. 3, sent. 31 agosto 2015, 17330, Rv. 636872-01).

7.1.3. Fondata è, invece, la censura di violazione dell’art. 1804 c.c.

7.1.3.1. Al riguardo va premesso che – come chiarito da questa Corte – nel caso di comodato con termine di durata (tale può considerarsi l’ipotesi in esame, essendo la cessazione del contratto subordinata all’esaurirsi delle procedure liquidatorie delle società del Gruppo Ge., e quindi ad un “termine implicito”, cfr. Cass. Sez. 3, sent. 8 marzo 1995, n. 2719, Rv. 490997-01), il comodante può “sciogliersi dal contratto ma soltanto nelle ipotesi descritte dall’art. 1804 c.c., comma 3, artt. 1809 e 1811 c.c. e non liberamente come avviene nel comodato precario”, giacchè con “l’inserimento di un elemento accidentale quale l’individuazione di una precisa durata (…) il comodante sceglie liberamente, d’accordo con il comodatario, di inserire nel contratto un elemento accidentale – il termine appunto che limita la sua possibilità di recuperare quando lo ritiene opportuno la disponibilità materiale dell’immobile e al contempo rafforza la posizione del comodatario, garantendogli il godimento di quell’immobile per tutto il tempo individuato con la fissazione del termine, e sottraendolo al rischio di subire il recesso “ad nutum”” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 18 marzo 2014, n. 6203, Rv. 629891-01). Su tale presupposto si è ulteriormente precisato che lo strumento restitutorio ex art. 1804 c.c. è “utilizzabile come rimedio per l’inadempimento del comodatario esclusivamente in caso di violazione degli obblighi espressamente richiamati dalla norma, che integrano altrettante ipotesi di abuso della cosa oggetto del comodato e di violazione della fiducia riposta dal comodante nel comodatario (le ipotesi previste dalla norma sono infatti il mancato rispetto dell’obbligo di custodire e conservare la cosa, di fare l’uso della cosa previsto dal contratto o derivante dalla natura del bene, e la concessione del godimento di essa a terzi senza il consenso del comodante)” (così, nuovamente, Cass. Sez. 3, sent. n. 6203 del 2014, cit.).

7.1.3.2. Orbene, nell’affermare la persistente efficacia del comodato corrente tra le parti del presente giudizio, la sentenza impugnata si è richiamata alla circostanza che il suo termine di durata (la cessazione delle procedure liquidatorie relative alle società e imprese del Gruppo Ge.) non fosse venuto a scadenza, mentre ad escludere che ricorresse quella situazione di “abuso”, ovvero di “violazione della fiducia riposta dal comodante nel comodatario”, idonea a giustificare l’accoglimento della domanda restitutoria, ha fatto riferimento al sopravvenuto quadro legislativo e regolamentare.

7.1.3.3. Così argomentando, tuttavia, la sentenza impugnata è incorsa in un vizio di sussunzione, giacchè non ha tenuto in debito conto nè la natura temporanea del comodato, nè il rapporto di fiducia che tale relazione negoziale implica.

Questa Corte, infatti, già da risalente tempo, ha sottolineato come il comodato trovi “la sua giustificazione causale nella volontà di sopperire ad una “contingente” necessita altrui, con il godimento gratuito, personale e transeunte di una cosa” (Cass. Sez. 3, sent. 29 ottobre 1963, n. 2856, Rv. 264430-01), dando vita, così, ad una relazione negoziale che “trae la sua ragion d’essere da rapporti di condiscendenza e di fiducia” (Cass. Sez. 3, sent. 11 novembre 1974, n. 3695, Rv. 372225-01). Nel caso in esame, peraltro, tale relazione fiduciaria risultava, vieppiù, intensificata dal fatto che la realizzazione del termine di durata del comodato (la definizione delle procedure di amministrazione straordinaria delle società ed imprese del predetto Gruppo Ge.) risulta rimessa, di fatto, al comportamento dello stesso comodatario. La decisione, pertanto, di destinare la “res commodata” a sede di numerose altre imprese, estranee a tale gruppo societario, ma sottoposte anch’esse a procedure di amministrazione straordinaria, rappresenta – anche in relazione a tale aspetto – una violazione dell’obbligo di fare l’uso della cosa previsto dal contratto, nel senso, già descritto, di un abuso di quella relazione fiduciaria sottostante ad un rapporto contrattuale di tale natura.

Del resto, nella medesima prospettiva, non sembra inutile rammentare che la stessa Relazione al codice civile, del Ministro Gaurdasigilli (cfr. p. 734), oltre a distinguere il comodato dal cd. “precario” proprio in ragione del fatto che, nel primo, “la cosa deve essere goduta dal comodatario per un tempo e per un uso determinato”, sottolinei come, per effetto della “larga formulazione” del divieto – sancito dall’art. 1804 c.c., comma 2, – di concedere a terzi il godimento della cosa, “rimangano proibiti tanto il subcomodato, in conformità di altre moderne legislazioni, quanto qualsiasi cessione di godimento”, e ciò sul rilievo che sarebbe “in antitesi col concetto stesso del contratto e sulla fiducia su cui si basa”, non solo “che il comodante trasferisse a sua volta la cosa ad altri”, ma, “peggio ancora, che la cosa fosse oggetto di speculazione”. Risulta, pertanto, anche per tale ragione confermata la necessità di concepire l’azione restitutoria – contemplata come novità dal codice del 1942, e ciò sul presupposto che quella risarcitoria prevista dal codice previgente, costituisse “sanzione (…) insufficiente” a colpire il comportamento abusivo del comodatario (in tal senso, nuovamente, la già citata Relazione al Re) – in termini nient’affatto limitativi, in conformità, del resto, con la sua natura, non di strumento per la risoluzione del contratto (come tale assoggetto al requisito della “non scarsa importanza” dell’inadempimento, ex art. 1455 c.c.), bensì quale forma di caducazione assimilabile alla decadenza del debitore dal termine (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 10 maggio 1982, n. 2887, non massimata sul punto).

7.2. Il secondo motivo resta assorbito dall’accoglimento del primo, cui segue la cassazione della sentenza impugnata e il rinvio della causa alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, affinchè decida nel merito delle domande proposte (atteso che a quella restitutoria si cumula altra di natura risarcitoria), attenendosi ai principi enunciati al paragrafo che precede.

P.Q.M.

La Corte accoglie il primo motivo ricorso, dichiarando assorbito il secondo e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata, rinviando alla Corte di Appello di Roma in diversa composizione per la decisione nel merito, oltre che per la liquidazione delle spese anche del presente giudizio.

Così deciso in Roma, all’esito di pubblica udienza della Sezione Terza Civile della Corte di Cassazione, il 13 dicembre 2018.

Depositato in Cancelleria il 28 giugno 2019

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