Corte di Cassazione, sez. III Civile, Sentenza n.29495 del 14/11/2019

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 29183/2017 proposto da:

G.L., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA TINTORETTO, 88, presso lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MIANI, rappresentato e difeso dagli avvocati ORNELLA SIRTORI, RICCARDO CONTE;

– ricorrente –

contro

AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI MESSINA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 516/2017 della CORTE D’APPELLO di MESSINA, depositata il 09/05/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 03/07/2019 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. FRESA Mario, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. Con atto di citazione del 10 settembre 1999 G.L. conveniva davanti al Tribunale di Patti l’Asl ***** di Messina per ottenerne il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali che adduceva essergli derivati dalla morte della madre S.V., avvenuta il ***** a seguito di caduta durante la sottoposizione a un esame diagnostico nell’Ospedale di *****. La convenuta si costituiva, resistendo.

Con sentenza del 23 settembre 2010 il Tribunale condannava la convenuta a risarcire il danno patrimoniale nella misura di Euro 25.000 oltre interessi, e a rifondere le spese all’attore.

Avendo proposto appello principale il G. e appello incidentale controparte, divenuta nelle more Azienda Sanitaria Provinciale di Messina, la Corte d’appello di Messina, con sentenza del 9 maggio 2017, rigettava l’appello incidentale e accoglieva quello principale, quantificando il risarcimento del danno non patrimoniale in Euro 52.000 oltre interessi.

2. Ha presentato ricorso il G., sulla base di due motivi; l’intimata non si è difesa.

Il ricorrente ha depositato anche memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

3. Il ricorso è composto da un primo motivo che formalmente viene presentato in tesi e un secondo che formalmente viene presentato in subordine.

3.1 Il primo motivo denuncia nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, in riferimento all’art. 111 Cost., comma 6 e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, nonchè violazione di tali norme ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non avere la corte territoriale applicato le tabelle di Milano per danno parentale e per avere indicato in modo confuso e affastellato i criteri di liquidazione adottati.

La giurisprudenza di legittimità esclude una liquidazione equitativamente pura per il danno non patrimoniale, insegnando di seguire le tabelle del Tribunale di Milano, ai sensi dell’art. 3 Cost., quale parametro di conformità della valutazione equitativa ex artt. 1226 e 2056 c.c., salve le concrete circostanze che ne eventualmente giustifichino la non applicazione. La corte territoriale non avrebbe motivato la mancata applicazione delle tabelle milanesi; sembrerebbe invece aver avuto riguardo allo stretto grado di parentela e alle aspettative di vita della persona deceduta, senza peraltro spiegare come ne avrebbe (o non ne avrebbe) tenuto in conto: “sembrerebbe che la Corte ne abbia forse voluto tenere in conto”, ma non si comprenderebbe per quale motivo e in quale misura.

Il giudice di prime cure avrebbe considerato l’intensità del rapporto affettivo, pur tra persone che vivevano a distanza (come sarebbe emerso dalle testimonianze della moglie e della figlia del ricorrente in ordine alle frequenti telefonate tra lui e la madre e il suo trascorrere un mese d’estate con la madre stessa); ma il giudice d’appello parrebbe aver tenuto in conto la non convivenza e sottovalutato il dato di intensità del rapporto affettivo nonostante la distanza; e comunque si sarebbe espresso in modo non chiaro.

La motivazione, in conclusione, sarebbe da qualificarsi apparente, e quindi contrastante con l’art. 111 Cost., comma 6 e art. 132 c.p.c..

3.2 Il secondo motivo, in subordine, denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione degli artt. 2,3,29,30 Cost., artt. 2056,2059,2729 c.c., artt. 115 e 116 c.p.c., nonchè violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 5 e 4, per omessa motivazione.

Sarebbe stato omesso l’esame di un fatto decisivo: l’intensa modalità del rapporto parentale. Il giudice d’appello inoltre non avrebbe chiarito come avrebbe tenuto in conto l’ulteriore elemento di prova non acquisito, cioè il grado di gravità della pregressa malattia della S.. La corte territoriale, ancora, “sembrerebbe” ritenere che sussiste una relazione inversamente proporzionale alla vicinanza fisica, per cui la lontananza diminuirebbe l’affetto. Tale ragionamento non sarebbe supportato da alcun dato grave, preciso e concordante ai sensi dell’art. 2729 c.c.; e molte situazioni di lontananza deriverebbero peraltro da ragioni economiche. Sarebbe stata quindi una valutazione apodittica come indice di minore affetto quella della distanza effettuata dalla corte territoriale, con conseguente violazione dell’art. 2729 c.c., nonchè degli artt. 115 e 116 c.p.c., non avendo il giudice d’appello tenuto conto di un dato emergente dagli atti e valutato dal primo giudice, cioè che l’attuale ricorrente telefonava per due volte alla settimana alla madre e che le era assai legato. Dunque, non si sarebbe considerato un elemento determinante.

Sarebbero stati violati pure gli artt. 2056 e 2059 c.c.: il giudice d’appello avrebbe dovuto indicare i criteri della valutazione equitativa. Importante sarebbe poi l’applicazione delle tabelle milanesi per rispettare il principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., ma anche su di esse il giudice d’appello verrebbe a tacere. Osserva il ricorrente che le tabelle milanesi del 2011, in atti, pongono la liquidazione tra l’importo di Euro 154.000 e quello di Euro 308.700, in quelle del 2014 la forbice muovendosi invece da Euro 163.990 a Euro 327.990. La liquidazione operata dal giudice d’appello sarebbe dunque inferiore di due terzi rispetto all’importo minimo delle tabelle del 2014. Si sarebbe dinanzi, pertanto, ad una liquidazione immotivata e arbitraria, violante l’art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, con conseguente nullità della sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4.

“Sembrerebbe” poi che il giudice d’appello abbia anche tenuto in conto della patologia della S. per diminuire il quantum del risarcimento del danno, pur mancando agli atti elementi sull’incidente relativi alla possibilità di sopravvivenza e alle aspettative di vita della deceduta. Sarebbe stato violato l’art. 115 c.p.c., per applicazione della scienza privata da parte del giudice; e parimenti sarebbe stato violato l’art. 2729 c.c., nel caso in cui il giudice si fosse avvalso di presunzioni, per assenza di circostanze gravi, precise e concordanti anche in ordine a questo elemento di valutazione.

4.1 In primo luogo, deve rilevarsi che, nella sua effettiva sostanza, pure il secondo motivo verte sulle stesse questioni focalizzate dal motivo precedente, per cui non sussiste una reale subordinazione del secondo al primo, i due motivi esigendo un vaglio congiunto.

La questione principale che entrambi apportano è quella del discostamento che il giudice d’appello avrebbe effettuato rispetto alle pur richiamate tabelle di Milano, discostamento così elevato da non consentire neanche di comprendere se il giudice abbia inteso o meno applicarle.

4.2 L’origine del – per così dire – ruolo nazionale delle tabelle milanesi nella valutazione del quantum dei danni non patrimoniali risiede, come è noto, in Cass. sez. 3, 7 giugno 2011 n. 12408, che, dopo un’ampia elaborazione avente ad oggetto le regole che il giudice deve seguire nell’applicazione dell’istituto normativo dell’equità come strumento di quantificazione del danno – in presenza di un inevitabile ossimoro: da un lato l’esigenza del rispetto del caso concreto e dall’altro l’esigenza dell’uguaglianza risarcitoria – nonchè il necessario inserimento del ruolo nomofilattico di questa Suprema Corte soprattutto in una situazione di carenza normativa, è pervenuta ad affermare il principio per cui “poichè l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di previsioni normative (come l’art. 139 codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto”. Peraltro questo principio è stato affermato nel contesto del richiamato insegnamento di S.U. 11 novembre 2008 n. 27972, secondo il quale, come sintetizza la suddetta pronuncia del 2011, “costituisce componente del danno biologico “ogni sofferenza fisica o psichica per sua natura intrinseca”, per cui “determina dunque duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale inteso come turbamento dell’animo e dolore intimo”.

4.3 Tuttavia, non si può non rimarcare che, nella responsabilità civile, “la natura unitaria ed onnicomprensiva del danno non patrimoniale, come predicata dalle sezioni unite della S.C., deve essere interpretata, rispettivamente, nel senso di unitarietà rispetto a qualsiasi lesione di un interesse o valore costituzionalmente protetto non suscettibile di valutazione economica e come obbligo, per il giudice di merito, di tener conto, a fini risarcitori, di tutte le conseguenze derivanti dall’evento di danno, nessuna esclusa, con il concorrente limite di evitare duplicazioni risarcitorie, attribuendo nomi diversi a pregiudizi identici, e di non oltrepassare una soglia minima di apprezzabilità” (Cass. sez. 3, 17 gennaio 2018 n. 901; conforme Cass. sez. 3, ord. 28 settembre 2018 n. 23469). E la sofferenza interiore o “patema d’animo” non può non rientrare sostanzialmente in unitarietà con la lesione psico-fisica qualora ne sia afflitta la stessa persona e dalla lesione appunto derivi; diverso invece è il caso in cui la sofferenza è patita da una persona che non ha subito lesione psico-fisica, derivando da un altro evento dannoso, ovvero non consistendo in una lesione del diritto alla salute.

Se, allora, nella prima ipotesi, i parametri medico-legali che vengono utilizzati per determinare il quantum del danno biologico – sia in riferimento alle conseguenze temporanee della lesione psico-fisica, sia in riferimento alle conseguenze permanenti – non possono non incidere anche sul quantum del danno “morale” nel senso di sofferenza direttamente correlata alla lesione psico-fisica della stessa persona, pur trattandosi formalmente, a ben guardare, di un pregiudizio ontologicamente diverso (cfr. da ultimo Cass. sez. 3, ord. 30 ottobre 2018 n. 27482, per cui nella fattispecie di danno non patrimoniale derivante dalla lesione del diritto alla salute “il danno biologico, rappresentato dall’incidenza negativa sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamico relazionali della vita del danneggiato, è pregiudizio ontologicamente diverso dal cd. danno morale soggettivo, inteso come sofferenza interiore patita dal soggetto in conseguenza della lesione del suo diritto alla salute”), tale prossimità non sussiste nella seconda ipotesi, ovvero laddove il danno “morale” è appunto patito per la lesione di un altro diritto, o comunque di un’altra valenza costituzionalmente protetta.

Invero, la natura non patrimoniale – definibile come genus del danno – non può infatti assorbire e far venir meno la pluralità delle species che deriva dalla pluralità delle posizioni costituzionalmente tutelate. Il risarcimento di danni non patrimoniali diversi non può d’altronde essere ricondotto ad una erronea duplicazione – rectius, artificiosa pluralizzazione – per appartenenza allo stesso genus, tale duplicazione, se sussiste, discendendo invece dalla identità della species.

4.4 Se, dunque, come è tradizionalmente categorizzato anche in forza delle sentenze di San Martino, il danno non patrimoniale è il genus cui rapportarsi, ciò non toglie che il risarcimento erroneamente effettuato con quantificazioni multiple in riferimento allo stesso danno non deriva dall’appartenenza allo stesso genus del danno non patrimoniale, bensì dall’unitarietà della lesione del diritto/interesse non patrimoniale da cui è sorto il danno. In effetti, allo scopo di evitare le duplicazioni non incide il riferimento alla conclusione della sequenza, ovvero il danno, diretto a valorizzarne la natura qualificandolo non patrimoniale (anche perchè il risarcimento sempre patrimoniale rimane, non essendo effettuato per equivalente), bensì occorre riferirsi alla fonte/origine della sequenza, consistente nel diritto che viene leso.

Il ragionamento di Cass. sez. 3, 7 giugno 2011 n. 12408, pur avendo – come si è visto richiamato il dettato delle sentenze di San Martino nel senso che “costituisce componente del danno biologico “ogni sofferenza fisica o psichica per sua natura intrinseca”, per cui “determina dunque duplicazione del risarcimento la congiunta attribuzione del danno biologico e del danno morale inteso come turbamento dell’animo e dolore intimo”, giunge al principio di diritto che afferma l’applicazione delle tabelle milanesi come concretizzazione paritaria dell’equità su tutto il territorio nazionale riferendosi al “danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica… in difetto di previsioni normative (come l’art. 139 codice delle assicurazioni private…)”. E dunque, a prescindere del danno da sofferenza causato dalla lesione biologica che è patito appunto dal soggetto biologicamente leso, tale principio non investe la determinazione del danno da lesione del rapporto parentale, danno che può (non essendo in re ipsa, ma dovendo esserne dimostrata l’esistenza, naturalmente anche per via presuntiva: v. da ultimo Cass. sez. 3, ord. 24 aprile 2019 n. 11212; e cfr. pure Cass. Sez. 3, 27 maggio 2019 n. 14392) subire il congiunto della persona che patisce la lesione al diritto alla salute o la perdita del diritto alla vita.

4.5 Nel caso in esame, il danno non patrimoniale di cui si discute sarebbe discendente appunto dal rapporto parentale, essendo stato chiesto il risarcimento dall’attuale ricorrente per il danno riportato per la morte della madre. Per quel che si è appena osservato, allora, non è configurabile di per sè nelle tabelle milanesi la concretizzazione dell’equità per risarcirlo.

Tuttavia, rimane valido quanto, in generale, a proposito della equità quale strumento risarcitorio affidato al giudice ma per nulla fungibile con l’arbitrio è stato illustrato da Cass. sez. 3, 7 giugno 2011 n. 12408; ed è indiscutibile che equitativo debba essere il risarcimento della specie di danno rappresentata dal danno da perdita parentale. E la corte territoriale ha evidentemente scelto di fruire anche in questa fattispecie delle tabelle milanesi, le quali, com’è noto, offrono, a forbice tra un minimo e un massimo, pure una quantificazione del danno subito dai congiunti per lesione o perdita del rapporto parentale, tenendo conto altresì del tipo di legame familiare su cui il rapporto si fonda.

Infatti, nella motivazione della sentenza impugnata, viene dedicato uno spazio relativamente esteso proprio al sistema tabellare milanese (motivazione, pagine 6-7), il che è corroborato dalla citazione di due arresti di merito, l’uno della Corte d’appello di Milano e l’altro del Tribunale di Milano. Subito dopo, però, la corte territoriale opera la quantificazione di quello che definisce “danno non patrimoniale diverso da biologico in caso di morte del proprio congiunto” nel modo seguente: “Va tenuto in conto nella quantificazione del danno lo stretto grado di parentela tra parte appellante e vittima, le aspettative di vita della vittima, pur non sottacendo della patologia della quale era affetta (grave forma di anemia, calo ponderale, anoressia, astenia), la mancata convivenza tra madre e figlio, e anzi la residenza degli stessi in località notevolmente distanti, tali da consentire solo colloqui telefonici ed una frequentazione solo un mese l’anno. Sulla base di tali elementi e in riforma della valutazione operata dal giudice di primo grado appare equo liquidare il danno da morte della madre nella misura di Euro 52.000,00 oltre interessi” (motivazione, pagine 7-8).

4.6 In tal modo il giudice d’appello, dopo avere identificato nelle tabelle milanesi il parametro equitativo (in cui, naturalmente, sussiste lo spazio per effettuare, se necessaria, una personalizzazione), ha deviato radicalmente dalle basi del suo ragionamento, giungendo – e senza spiegarne i motivi – ad una quantificazione corrispondente a circa un terzo dell’importo minimo delle tabelle milanesi del 2011 (Euro 52.000 a fronte di Euro 154.000). Non solo, allora, una così forte decurtazione può ritenersi inclusa nell’elasticità della personalizzazione che il sistema tabellare comunque garantisce; ma altresì non si può non rilevare che la decurtazione difetta di un reale supporto motivazionale.

Degli elementi indicati, “lo stretto grado di parentela” non avrebbe certo comportato un abbassamento dell’importo, trattandosi del rapporto filiale, ovvero del più stretto grado di parentela configurabile; “le aspettative di vita della vittima” non sono state in alcun modo identificate, non essendosi lasciato intendere quale effetto su di esse avrebbero potuto avere le indicate patologie, nessuna delle quali, d’altronde, è notorio che attribuisse alla vittima alla qualifica di malata terminale così da giustificare la drastica decurtazione; la mancata convivenza per abitazione in “località notevolmente distanti” è comunque uno degli elementi che nel sistema tabellare milanese creano la divergenza tra il minimo e il massimo, e sono pertanto inclusi nel paradigma quantitativo proposto; d’altronde, infatti, la convivenza non costituisce il presupposto della risarcibilità del danno da perdita parentale, giacchè il rapporto parentale riconducibile all’art. 29 Cost., non attiene alla c.d. famiglia nucleare, ben potendo il danneggiato non convivente “provare in concreto l’esistenza di rapporti costanti di reciproco affetto e solidarietà con il familiare defunto” (così Cass. sez. 3, 20 ottobre 2016 n. 21230; conforme Cass. sez. 3, 7 dicembre 2017 n. 29332; e cfr. pure Cass. pen. sez. 3, 4 giugno 2013 n. 29735).

5. Risulta, pertanto, meritevole di accoglimento la fondamentale censura che il ricorrente ha veicolato nei due motivi: la corte territoriale non ha errato nell’avvalersi delle tabelle milanesi reputandolo nel caso concreto l’equo parametro anche nel danno da perdita parentale, ma, per così dire, ha contraddetto se stessa effettuando una decurtazione del minimo della forbice di tale elevatezza da oltrepassare i confini della personalizzazione e, quindi, la riconducibilità della determinazione equitativa alle tabelle scelte; il tutto tramite una motivazione sostanzialmente assertiva, che nulla realmente dispiega e sorregge.

La sentenza, quindi, accogliendosi il ricorso, deve essere cassata con rinvio, anche per le spese del grado, alla stessa corte territoriale in diversa composizione.

P.Q.M.

Accogliendo il ricorso, cassa la sentenza impugnata con rinvio, anche per le spese, alla Corte d’appello di Messina.

Così deciso in Roma, il 3 luglio 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 novembre 2019

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