Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.450 del 14/01/2020

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORICCHIO Antonio – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CASADONTE Annamaria – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – rel. Consigliere –

Dott. OLIVA Stefano – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 27197/2015 proposto M.M.M., M.P., M.T., in qualità di eredi di M.A. E N.A.F., STUDIO AVV. ANTONINO MINGIONE E ASSOCIATI DEGLI AVVOCATI MARCO MINGIONE E ROBERTO TORETTI, rappresentati e difesi dagli avvocati STEFANO LUIGI GRANATA, MARCO MINGIONE;

– ricorrenti –

contro

B.A., già titolare della Ditta Individuale B.

Consult di B.A., elettivamente domiciliato in ROMA, V.LE MAZZINI 142, presso lo studio dell’avvocato VINCENZO ALBERTO PENNISI, rappresentato e difeso dall’avvocato LAURA MASARONE;

– controricorrente –

e contro

T.R.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 3542/2014 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 08/10/2014;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 26/09/2019 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CAPASSO Lucio, che ha concluso per il rigetto dei primi tre motivi, l’accoglimento del quarto e del quinto, assorbito il sesto motivo del ricorso;

udito l’Avvocato Zosima Vecchio, con delega depositata in udienza dagli avvocati Marco Mingione e Stefano L. Granata, difensori dei ricorrenti, che si è riportato agli atti depositati;

udito l’Avvocato Laura Masarone, difensore del resistente, che si è

riportato agli atti depositati ed ha chiesto il rigetto del ricorso.

FATTI DI CAUSA

1. L’associazione Professionale Studio M. degli Avvocati A. e M.M. proponeva ricorso per decreto ingiuntivo innanzi al Tribunale di Milano per chiedere i compensi professionali per l’attività svolta in favore di B.A., in qualità titolare della ditta Individuale B. Consult, dal maggio 1990 al settembre 1996 e per un decreto ingiuntivo emesso nel luglio 1998.

1.1. Proponeva opposizione B.A. eccependo il pagamento delle prestazioni svolte.

1.2. Nel corso del giudizio di primo grado, l’Avv. M.M. dichiarava il decesso dell’Avv. M.A. e dichiarava altresì che lo studio si era trasformato in “Studio Associato A.M. e associati, degli avvocati M.M. e T.R.”.

1.2.1. Con ordinanza del 20.6.2001, il giudice dichiarava l’interruzione del giudizio, che veniva riassunto dal B. con ricorso depositato il 26.6.2001 all’Avv. M.M., in qualità quale rappresentante dello studio associato ed in qualità di erede legittimo di M.A. ed agli eredi del de cuius collettivamente ed impersonalmente nell’ultimo domicilio del defunto.

1.2.2. Si costituivano in giudizio gli eredi di M.A., e segnatamente M.P., M. e T., N.A.F., ed intervenivano M.M. e T.R. per l’associazione professionale.

1.3. All’udienza del 22.3.2003, il procuratore degli eredi M. dichiarava il decesso di N.A. ed il giudizio veniva nuovamente interrotto.

1.3.1. Il giudizio veniva riassunto dal B. e notificato esclusivamente all’Avv. M.M., quale erede di M.A. ed N.A. e legale rappresentante dello studio associato; l’atto di riassunzione non veniva però notificato agli altri eredi di M.A. ( M.T. e P.) nè agli eredi di N.A.F..

1.3.2. Lo studio M. eccepiva l’estinzione del giudizio ed il giudice, con ordinanza del 17.11.2004 disponeva l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi di M.A. e N.A.F..

1.3.3. Si costituivano gli eredi di M.A. e di N.A.F. eccependo l’estinzione del giudizio.

2. Il Tribunale di Milano, con sentenza dell’1.8.2010, accoglieva l’opposizione e, per l’effetto revocava il decreto ingiuntivo, condannando l’associazione Professionale Studio M. degli Avvocati A. e M.M. ed i terzi chiamati, nella duplice qualità di eredi di M.M. e N.A.F. alla restituzione delle somme corrisposte in esecuzione del decreto ingiuntivo oltre alle spese processuali ed al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c..

2.1. Proponevano appello lo studio dell’Avv. M.A. e T.R., gia associazione professionale Studio M. e gli eredi di M.A. e di N.F., cui resisteva B.A., in qualità titolare della ditta Individuale B. Consult.

3. La Corte d’Appello di Milano, con sentenza dell’8.10.2014, in parziale riforma della sentenza di primo grado, accoglieva parzialmente l’appello dell’associazione professionale e condannava gli eredi alla restituzione delle somme nei limiti della quota ereditaria.

3.1. La corte di merito, per quanto ancora rileva nel presente giudizio:

– affermava la legittimazione attiva dello studio professionale associato, in presenza di un accordo tra gli associati, nella specie previsto dall’art. 6 del patto associativo;

– confermava il rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio rilevando che, in relazione al secondo evento interruttivo, rappresentato dal decesso della N., rilevante in sede legittimità, il ricorso risultava tempestivamente depositato nei sei mesi dalla data di interruzione del giudizio e non rilevava l’omessa notifica a tutti gli eredi;

– accertava che tutti i versamenti effettuati dal B. furono incassati dall’associazione professionale, così come era stato provato l’emissione di un assegno da parte del B. pari all’importo del decreto ingiuntivo; una volta effettuata l’imputazione del pagamento al credito, gravava sull’associazione dimostrare una diversa imputatazione per contestare l’estinzione del debito e, tale onere non era stato assolto sia in relazione al versamento degli assegni, sia in relazione al pagamento della somma di Euro 3000,00;

– riteneva che, in relazione alle somme da restituire non dovessero essere detratte le spese corrisposte per le azioni esecutive poste in essere per l’esecuzione del provvedimento monitorio, nè la ritenuta d’acconto versata dal B. come sostituto di imposta che l’associazione poteva dedurre dall’imposta dovuta;

– escludeva la condanna dello Studio Associato e degli eredi M. per responsabilità aggravata ex art. 96 c.p.c.;

– regolava le spese di lite, condannando l’associazione alle spese di lite del giudizio di primo grado e compensando le spese del giudizio d’appello.

4. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso lo studio M.A. ed Associati degli Avvocati M.M. e T.R. e gli eredi di M.A. e di N.F., già erede di M.A., nelle persone di M.T., P. e M.M. sulla base di sei motivi;

5. Ha resistito con controricorso B.A., già titolare della ditta Individuale B. Consult.

6. Il Pubblico Ministero nella persona del Dott. Lucio Capasso ha chiesto l’accoglimento del quarto e quinto motivo, il rigetto dei primi tre e l’assorbimento del quinto.

7. In prossimità dell’udienza, i ricorrenti hanno depositato memorie illustrative.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, deducendo la violazione e falsa applicazione degli artt. 393,305 e 307 c.p.c. e art. 154 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti si dolgono del rigetto dell’eccezione di estinzione del giudizio dai medesimi sollevata per omessa notifica dell’atto di riassunzione ad alcuni eredi di N.A.F., litisconsorti necessari. La corte di merito avrebbe erroneamente disposto l’integrazione del contraddittorio, con ordinanza del 17.11.2004, ben oltre sei mesi dalla data di interruzione del giudizio avvenuta il 22.10.2003.

1.1. Il motivo non è fondato.

1.2. E’ principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte che, in caso di interruzione del giudizio, il termine per la riassunzione è rispettato se, entro sei mesi viene depositato il ricorso (Cassazione civile sez. un., 28/12/2007, n. 27183). Una volta eseguito tempestivamente tale adempimento, quel termine non gioca più alcun ruolo, atteso che la fissazione successiva, ad opera del medesimo giudice, di un ulteriore termine, destinato a garantire il corretto ripristino del contraddittorio interrotto nei confronti della controparte, pur presupponendo che il precedente termine sia stato rispettato, ormai ne prescinde, rispondendo unicamente alla necessità di assicurare il rispetto delle regole proprie della “vocatio in ius”. Ne consegue che il vizio da cui sia colpita la notifica dell’atto di riassunzione e del decreto di fissazione dell’udienza non si comunica alla riassunzione (oramai perfezionatasi), ma impone al giudice di ordinare, anche qualora sia già decorso il (diverso) termine di cui all’art. 305 c.p.c., la rinnovazione della notifica medesima, in applicazione analogica dell’art. 291 c.p.c., entro un ulteriore termine necessariamente perentorio; solo il mancato rispetto del termine concesso dal giudice determinerà estinzione del giudizio, per il combinato disposto dello stesso art. 291, comma 3 e del successivo art. 307 c.p.c., comma 3 (Cassazione civile sez. III, 20/04/2018, n. 9819; Cassazione civile sez. I, 09/04/2015, n. 7131; Cassazione civile sez. I, 11/03/2019, n. 6921).

1.3. Nella specie l’interruzione era stata dichiarata il 22.10.2003 ed il ricorso per riassunzione era stato tempestivamente depositato in data 8.3.2004, a nulla rilevando che, nel termine assegnato dal giudice, la notifica fosse stata effettuata solo nei confronti di alcuni eredi; correttamente, quindi, il giudice, all’udienza del 17.11.2014 ha ordinato l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli eredi pretermessi, regolarmente effettuata in data 24-26.1.2005.

2. Con il secondo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e art. 113 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c,, comma 1, n. 3; i ricorrenti, articolando un motivo di oscura ed a tratti incomprensibile lettura, lamentano che il giudice d’appello, una volta riconosciuta la legittimazione attiva dell’associazione professionale, avrebbe dovuto prendere atto che con l’atto introduttivo del giudizio di opposizione, il B. avrebbe ammesso un debito residuo dell’importo di Lire 3.114.421, risultante dalla documentazione versata in atti.

3. Con il terzo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., artt. 1193,1195,2712 e 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in quanto la corte territoriale avrebbe erroneamente ritenuto che il versamento degli assegni fossero da imputare al credito azionato in via monitoria mentre, invece, si riferirebbero ad altri crediti, tanto più che sarebbero stati tratti sul conto personale del B..

4. I motivi, che vanno trattati congiuntamente per la loro connessione, sono infondati.

4.1. La Corte d’appello, riformando la sentenza di primo grado, che aveva negato la legittimazione attiva dell’associazione professionale, si è pronunciata sulla domanda proposta con il ricorso per decreto ingiuntivo e sull’eccezione di pagamento, ritenendo, all’esito dell’istruttoria, che il B. avesse dimostrato l’estinzione del debito attraverso il versamento di assegni mensili e di una somma in contanti (pag. 12- 13 della sentenza impugnata).

4.2. Le conclusioni della corte distrettuale applicano correttamente l’art. 1193 c.c., in tema di imputazione di pagamento, in forza del quale, una volta avvenuta l’imputazione di pagamento da parte del debitore, è onere del creditore, che pretende di imputare il pagamento ad estinzione di altro credito, dimostrare sia l’esistenza di più debiti del convenuto scaduti, sia la sussistenza dei presupposti per l’applicazione di uno dei criteri sussidiari di imputazione stabiliti dall’art. 1193 c.c. (Cass. civ. Sez. II, 27/07/2006, n. 17102; Cass. civ. Sez. III Sent., 23/06/2009, n. 14620).

4.3. Con accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, il giudice d’appello ha ritenuto che la prova da parte del creditore di una diversa imputazione di pagamento non fosse stata fornita, sicchè i motivi di ricorso si risolvono in una inammissibile ricostruzione alternativa del rapporti tra l’associazione professionale ed il B. non consentita in sede di legittimità.

4.4. Del tutto priva di fondamento è la dedotta violazione dell’art. 112 c.p.c., che ricorre nell’ipotesi in cui il giudice abbia pronunciato oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, ovvero su questioni non formanti oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato, di guisa che non ne ricorre la violazione se il giudice abbia dato una diversa qualificazione giuridica ai fatti e ai rapporti dedotti in lite, nonchè all’azione esercitata in causa, rientrando, nei poteri del giudice ricercare le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame e porre a fondamento della sua decisione principi di diritto diversi da quelli richiamati dalle parti (Cassazione civile, sez. I, 20/06/2017, n. 15190).

4.5. Nella specie, il ricorrente si duole dell’omesso pagamento di parte del debito sulla base di una diversa valutazione della documentazione probatoria e dell’interpretazione del contenuto dell’atto di opposizione (Cassazione civile, sez. I, 20/06/2017, n. 15190).

5. Con il quarto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la corte di merito disposto la restituzione delle somme pagate dal B., in esecuzione del decreto ingiuntivo, agli eredi dell’Avv. M.A. e di N.A.F., nonostante il divieto previsto dallo statuto dell’associazione professionale.

5.1. A fondamento della censura, i ricorrenti richiamano una norma dello statuto dell’associazione professionale, che escluderebbe il diritto degli eredi di percepire alcuna liquidazione di cui è titolare l’associazione professionale ma non ne trascrive, nemmeno sinteticamente il contenuto, sicchè il motivo è del tutto privo di specificità.

5.2. Va, in ogni caso osservato che la questione relativa alla legittimazione dell’associazione professionale non ha rilievo ai fini della responsabilità dell’erede in relazione ai debiti contratti dal de cuius, per i quali trova applicazione l’art. 754 c.c., secondo la quale gli eredi rispondono dei debiti del de cuius, in relazione al valore della quota nella quale sono stati chiamati a succedere; detta norma deve essere interpretata nel senso che il coerede convenuto per il pagamento di un debito ereditario ha l’onere di indicare al creditore la sua condizione di coobbligato passivo entro il limite della propria quota. Tale dichiarazione integra gli estremi dell’istituto processuale della eccezione propria, sicchè la sua mancata proposizione – ove si tratti di debito di lavoro, nella memoria difensiva di cui all’art. 416 c.p.c, con indicazione dei coeredi non raggiunti dall’azione giudiziaria intrapresa dal creditore, – consente al creditore di chiedere, legittimamente, il pagamento per l’intero (Cassazione civile sez. lav., 24/10/2008, n. 25764; Cass. 12 luglio 2007 n. 15592; Cass. 28 febbraio 2006 n. 4461).

6. Con il quinto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 2033 c.c., art. 189 c.p.c., dell’art. 95 c.p.c. e del D.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3; la ricorrente deduce l’inammissibilità della domanda di restituzione delle somme pagate dal B. in esecuzione del decreto ingiuntivo, perchè proposta per la prima volta in sede di precisazione delle conclusioni e contesta la condanna alla restituzione delle spese di esecuzione del decreto ingiuntivo e della ritenuta d’acconto versata.

6.1. Il motivo non è fondato.

6.2. La richiesta di restituzione delle somme corrisposte in virtù della provvisoria esecuzione concessa ad un decreto ingiuntivo opposto ovvero in esecuzione della sentenza di primo grado fatta oggetto di appello (e provvisoriamente esecutiva “ex lege”), essendo conseguente alla richiesta di modifica della decisione impugnata, oltre che conforme al principio di economia dei giudizi, non altera i termini della controversia e, perciò, è ammissibile anche in appello, non costituendo domanda nuova (Cassazione civile sez. II 24/05/2010, n. 12622; Cass. 30 aprile 2009 n. 10124).

6.3. Conseguentemente, non era tardiva la richiesta di restituzione delle somme corrisposte dal B. in esecuzione del decreto ingiuntivo, successivamente revocato dal Tribunale, in accoglimento della opposizione dal medesimo proposta.

6.4. Quanto, invece al rimborso della somma corrisposta a titolo di ritenuta d’acconto dal B. in favore dell’associazione, la decisione è conforme a diritto, in quanto la B. Consult ha agito in veste di sostituto di imposta, e, avendo pagato l’Iva sulla prestazione dovuta, ha portato in detrazione la ritenuta d’imposta versata dal cliente.

7. Con il sesto motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere disposto la condanna alle spese del giudizio di primo grado sull’erroneo presupposto che non vi fosse stata impugnazione su tale capo, mentre invece, gli appellanti avrebbero chiesto la condanna della B. al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio.

7.1. Il motivo non è fondato.

7.2. Com’è noto, in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d’appello, allorchè riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d’ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell’esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all’art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese (Cassazione civile sez. I, 27/07/2017, n. 18637; Cass. civ. Sez. VI – 3 Ordinanza, 24-012017, n. 1775; conf. Cass., Sez. Un., 10615/2003).

7.3. Conformemente a tale principio, la corte territoriale ha correttamente applicato il principio della soccombenza in relazione al giudizio di primo grado, ed ha applicato la liquidazione effettuata dal primo giudice, sicchè la censura avrebbe dovuto riguardare la violazione dei criteri per la determinazione del quantum della liquidazione, ovvero il superamento dei massimi tariffari.

8. Il ricorso va pertanto rigettato 9. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in dispositivo.

10. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

PQM

rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte di Cassazione, il 26 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 gennaio 2020

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