Corte di Cassazione, sez. II Civile, Sentenza n.41126 del 21/12/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria – Presidente –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 6376-2016 proposto da:

SUBWORK ITALIA SRL IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE GIULIO CESARE 14 A-4, presso lo studio dell’avvocato GABRIELE PAFUNDI, che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati FRANCESCA BUSETTO, ALFREDO BIANCHINI, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

M. COSTRUZIONI SRL, elettivamente domiciliata in ROMA, V.LE DI VILLA MASSIMO 33, presso lo studio dell’avvocato GIORGIO SICARI, che la rappresenta e difende unitamente all’avvocato MAURIZIO BENINCASA, giusta procura in calce al controricorso;

D.S. COSTRUZIONI SPA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GIOVANNI NICOTERA 31, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO ASTONE, che la rappresenta e difende giusta procura a margine del controricorso;

– controricorrenti –

nonché contro FALLIMENTO ***** SCARL IN LIQUIDAZIONE, ATI ASSOCIAZIONE TEMPORANEA IMPRESE C.O. SPA, IMPRESA C.O.

SPA IN LIQUIDAZIONE E IN CONCORDATO PREVENTIVO;

– intimati –

avverso la sentenza n. 511/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO, depositata il 30/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 09/12/2021 dal Consigliere Dott. MAURO CRISCUOLO;

Lette le conclusioni del Pubblico Ministero, nella persona del Sostituto Procuratore Generale, Dott. MISTRI CORRADO, che ha chiesto la declaratoria di inammissibilità o in subordine il rigetto del ricorso;

Lette le memorie della ricorrente e della controricorrente D.S.

Costruzioni S.p.A..

RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. ***** S.c.a.r.l. proponeva opposizione avverso il decreto ingiuntivo emesso dal Tribunale di Milano in favore della Subwork S.r.l., per l’importo di Euro 13.300,40, quale corrispettivo per lavori eseguiti in subappalto dalla ricorrente, e costituiti da infissione ed estrazione di palancolata tipo Larsen, per i lavori di ammodernamento ed adeguamento dell’autostrada *****, affidati in appalto da Satp S.p.A. alla società opponente.

Deduceva che effettivamente era stato concluso il contratto di subappalto per un corrispettivo massimo ed a corpo di Euro 150.000,00 oltre IVA, ma che la subappaltatrice aveva immediatamente avanzato ingiustificate richieste di modifica del corrispettivo, pervenendo anche a sospendere l’esecuzione dei lavori. Non poteva ritenersi intervenuta alcuna modifica del prezzo, in quanto il documento a tal fine invocato dalla ricorrente era stato sottoscritto per la società opponente da una persona priva di validi poteri di rappresentanza.

Inoltre, non vi era prova del credito azionato in via monitoria, in quanto la Subwork, dopo la prima fattura, non ne aveva emesse altre, non avendo provveduto alla controfirma degli ulteriori SAL, come invece prescritto nel contratto di subappalto.

Rilevava che, atteso l’inadempimento della controparte, aveva dovuto risolvere di diritto il contratto ai sensi dell’art. 10, lett. d) del contratto, inviando apposita lettera raccomandata in data 4/10/2006.

Concludeva quindi per la revoca del decreto opposto, con la declaratoria di risoluzione del contratto per inadempimento della controparte, e con la condanna della stessa al risarcimento dei danni, in base alla previsione della clausola penale commisurata a 130 giorni di ritardo, nonché al ristoro dei maggiori oneri sopportati, anche per la necessità di dover stipulare un nuovo contratto di subappalto.

L’opposta si costituiva e deduceva che il proprio credito era fondato su certificati di pagamento emessi dalla controparte, aggiungendo che tra le parti era intervenuto anche un contratto di noleggio a freddo di palancole, per il quale aveva già conseguito quattro decreti ingiuntivi dal Tribunale di Milano. Inoltre, in relazione al rapporto di subappalto aveva ottenuto anche un altro decreto ingiuntivo per l’importo di Euro 84.949,05, e che il Tribunale di Bergamo, sempre con decreto ingiuntivo, aveva ordinato la restituzione delle palancole oggetto del noleggio.

Deduceva che l’interruzione del contratto di subappalto era conseguenza del grave inadempimento della controparte, che aveva omesso il pagamento di quanto dovuto, e che essa opposta aveva continuato a lavorare sino a quando aveva deciso di sospendere l’esecuzione ex art. 1460 c.c., a seguito della diffida rimasta senza risposta del 15/6/2006.

Riunita alla prima opposizione anche la seconda proposta avverso l’altro decreto ingiuntivo emesso per il corrispettivo del contratto di subappalto, il Tribunale adito, disposta la chiamata in causa delle società facenti parte del raggruppamento temporaneo di imprese, cui erano stati dati in appalto i lavori dalla originaria committente, con la sentenza n. 6533 del 16 maggio 2011, dichiarava risolto il contratto di subappalto per inadempimento dell’opposta e condannava quest’ultima anche al risarcimento dei danni quantificati in Euro 164.856,00.

Avverso tale sentenza proponeva appello principale la Subwork Italia cui resistevano le controparti, con la proposizione di appello incidentale ad opera della *****.

La Corte d’Appello di Milano con la sentenza n. 511 del 30 gennaio 2015, in parziale riforma, ha confermato la risoluzione per inadempimento dell’appellante principale, rideterminando però il risarcimento del danno dalla medesima dovuto nella somma di Euro 146.856,00; ha rigettato l’appello incidentale ed ha compensato per un quarto le spese del doppio grado, ponendo la residua parte a carico della appellante principale.

La Corte d’Appello rilevava che correttamente il Tribunale aveva respinto la domanda di pagamento avanzata dalla subappaltatrice, riscontrando che era intervenuto un abusivo frazionamento del credito, in contrasto con il principio della buona fede.

Nella specie, emergeva che tra le parti erano intervenuti due contratti, di cui uno avente ad oggetto il noleggio a freddo di palancole di ferro, e l’altro relativo al subappalto per l’infissione ed estrazione delle medesime palancole, il tutto in relazione ai lavori di ammodernamento ed adeguamento dell’autostrada *****, dei quali la ***** era affidataria.

Sussisteva un evidente collegamento tra i due contratti sicché si palesava contrario a buona fede il comportamento della subappaltatrice che aveva richiesto plurimi decreti ingiuntivi, pur a fronte di un rapporto unitario.

Non poteva accogliersi la doglianza secondo cui il Tribunale non si sarebbe pronunziato sulle domande di accertamento del debito della subcommittente, in quanto la risposta implicita a tale domanda scaturiva dal riscontro del frazionamento abusivo del credito, che determinava l’improponibilità di tutte le domande, essendosi altresì rilevato che non era intervenuto alcun accordo modificativo del corrispettivo iniziale.

La tesi dell’appellante principale, secondo cui era possibile modificare anche tale elemento, era però contraddetta dalla lettura del contratto, posto che all’art. 3 il corrispettivo era fissato in misura invariabile, senza possibilità di richiedere ulteriori compensi per ogni eventualità sopravvenuta, anche se imprevista o eccezionale, con una previsione quindi che precludeva la diversa applicabilità dell’art. 23 dello stesso contratto, in ordine alle sue modifiche successive.

Ne derivava che era illegittimo il rifiuto della subappaltatrice di proseguire nei lavori affidatile, e ciò anche in considerazione del fatto che la diffida era stata inoltrata alla subcommittente, ma senza che fosse stata fornita la prova dell’avvenuta esecuzione del subappalto, secondo le modalità concordate.

Infatti, l’art. 9 imponeva che ogni pagamento fosse subordinato alla redazione in contraddittorio tra le parti dei Sal mensili, e che solo in seguito, con la redazione del corrispondente certificato di pagamento, sarebbe stato possibile emettere la fattura concernente i lavori eseguiti.

L’inosservanza di tale procedura impediva di ritenere provata l’esecuzione dei lavori di cui si chiedeva il compenso.

Passando poi alla censura che investiva la quantificazione del danno, la Corte d’Appello riteneva che la stessa fosse fondata solo per quanto concerneva l’esatta individuazione dei giorni di ritardo, che erano inferiori rispetto a quelli indicati dal tribunale.

Quindi, ritenuta infondata la critica dell’appellante principale quanto all’omessa decisione su alcune delle domande proposte, essendo la relativa risposta contenuta implicitamente nell’accoglimento della domanda risarcitoria, disattendeva anche l’appello incidentale della *****, ritenendo che potessero essere richiesti, a seguito dell’applicazione della penale, solo i danni ulteriori e diversi rispetto a quelli che la stessa penale mirava a ristorare, laddove quelli pretesi dalla appellante incidentale avevano in ogni caso la loro genesi nel ritardo della subappaltatrice.

Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la Subwork Italia S.r.l. sulla base di cinque motivi.

La D.S. Costruzioni S.p.A. e la M. Costruzioni S.r.l. resistono con separati controricorsi.

Gli altri intimati non hanno svolto difese in questa fase.

La ricorrente e la d.S. Costruzioni S.p.A. hanno depositato memorie in prossimità dell’adunanza camerale.

Con ordinanza interlocutoria n. 12244 del 10 maggio 2021 la causa è stata rimessa alla pubblica udienza, attesa la necessità di dover verificare le ricadute sulla controversia dell’arresto delle Sezioni Unite n. 4090/2017, intervenuto in data successiva alla pubblicazione della sentenza impugnata.

La ricorrente principale e la D.S. Costruzioni hanno nuovamente depositato memorie in prossimità dell’udienza.

Il ricorso è stato quindi esaminato in camera di consiglio senza l’intervento del Procuratore generale e dei difensori delle parti, secondo la disciplina dettata dal D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di conversione 18 dicembre 2020, n. 176 e D.L. 23 luglio 2021, n. 105, art. 7 convertito, con modificazioni, dalla L. 16 settembre 2021, n. 126, non essendo stata formulata da nessuno degli interessati richiesta di discussione orale.

2. Il primo motivo di ricorso denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 88 c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c., con omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’inadempimento del subappaltante rispetto all’obbligo contrattuale di pagare al subappaltatore il corrispettivo per i lavori eseguiti.

Si denuncia che la sentenza impugnata ha ravvisato un non consentito frazionamento del diritto di credito della ricorrente, con la conseguente improponibilità delle domande di accertamento del credito, ma ha affermato tale principio senza verificare se in concreto ricorressero le condizioni per la sua applicazione.

In realtà la società ha richiesto solo due decreti ingiuntivi, ed a distanza di quattro mesi l’uno dall’altro, il che esclude che ricorra un caso di abusivo frazionamento.

Inoltre, i due decreti hanno a sostegno un impianto probatorio differente (il primo si fonda su atti di riconoscimento del debito, mentre il secondo su alcune fatture emesse dalla ricorrente).

Inoltre, erra la sentenza nella parte in cui ravvisa un collegamento tra il contratto di subappalto e quello di noleggio delle palancole, posto che risulterebbe sempre ferma l’autonomia giuridica dei due contratti.

Il secondo motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c. e dell’art. 88 c.p.c., con la violazione e falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’inadempimento del subappaltante rispetto all’obbligo contrattuale di pagare al subappaltatore il corrispettivo per i lavori eseguiti.

Si evidenzia che la sentenza ha ritenuto che dall’abusivo frazionamento del diritto di credito derivi l’improponibilità delle domande di pagamento, dovendo invece darsi seguito alla diversa opinione secondo cui la sanzione per la condotta abusiva deve essere individuata nel regime delle spese di lite, a seguito della riunione delle domande separatamente proposte.

I due motivi, che per la loro connessione possono essere congiuntamente esaminati, sono infondati.

In primo luogo, si rileva che in tema di ricorso per cassazione, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall’art. 116 c.p.c. (Cass. S.U. n. 20867/2020, secondo cui in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione).

Nella fattispecie, la denuncia degli artt. 115 e 116 c.p.c., pur enunciata in rubrica, risulta però priva di una concreta illustrazione quanto al concreto modus operandi del giudice di appello che abbia implicato la violazione delle dette norme nei limiti consentiti dal precedente richiamato.

Del pari priva di riscontro nell’illustrazione del motivo risulta la denuncia della violazione dell’art. 112 c.p.c., e ciò soprattutto a fronte di una critica che si appunta verso il rigetto della domanda di pagamento, e quindi nei confronti di un’esplicita statuizione negativa del giudice di appello.

Del pari risulta solo enunciato il vizio di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, mancando però la specifica individuazione del fatto non esaminato, risolvendosi la censura nella complessiva sollecitazione della ricorrente ad operare una rivalutazione dei fatti di causa.

Quanto, poi, in specifico riferimento alla denuncia di violazione dei principi in tema di abusivo frazionamento del credito, risulta priva di rilevanza la considerazione secondo cui il contratto di subappalto e quello di noleggio delle palancole, ritenuti oggetto di collegamento negoziale da parte della sentenza impugnata, e idonei a dar vita ad un unitario rapporto obbligatorio, resterebbero muniti di autonomia.

Va sul punto ricordato che (cfr. Cass. n. 20726/2014) effettivamente il collegamento negoziale non dà luogo ad un nuovo ed autonomo contratto, ma è un meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico unitario e complesso, che viene realizzato, non per mezzo di un singolo accordo, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, che conservano una loro causa autonoma anche se ciascuno è finalizzato ad un unitario regolamento dei reciproci interessi, sicché, pur determinandosi, tra loro, un vincolo di reciproca dipendenza, in virtù del quale le vicende relative all’invalidità, all’inefficacia ed alla risoluzione dell’uno possono ripercuotersi sugli altri, ciascuno di essi mantiene una propria individualità giuridica (conf. Cass. n. 13888/2015).

Il nesso di interdipendenza che le parti hanno inteso porre tra i due diversi contratti avvinti causalmente dal nesso del collegamento, ferma restando la loro autonomia sul piano strutturale e degli obblighi autonomamente scaturenti, denota tuttavia come le sorti degli stessi siano intimamente connesse e che quindi ove, come nella specie, un diritto di credito, di natura pecuniaria, sorga per effetto degli obblighi reciprocamente assunti a favore di una sola delle parti del contratto, il legame causale voluto dalle parti rende corretta l’individuazione di un unitario rapporto obbligatorio, per il quale si imponga l’obbligo di evitare il frazionamento, privo di giustificazione, delle domande di pagamento.

Peraltro, il riferimento, contenuto anche in Cass. S.U. n. 4090/2017, alla dipendenza dei crediti di cui si denunci l’abusivo frazionamento, da un medesimo rapporto di durata, consente di prescindere dall’unicità della fonte contrattuale, ed è suscettibile di estendersi anche al caso in cui, seppur per effetto di autonomi titoli contrattuali, nella specie avvinti dal nesso del collegamento negoziale, insorga un rapporto destinato a protrarsi nel tempo, e nella specie per tutta la durata di esecuzione del contratto di appalto, nel corso del quale possano sorgere dei diritti di credito a favore della parte, già maturati al momento della domanda abusivamente frazionata (sul punto si veda Cass. n. 337/2020, secondo cui le domande concernenti diversi e distinti diritti di credito relativi a un medesimo rapporto di durata tra le parti che siano anche, in proiezione, inscrivibili nel medesimo ambito di un possibile giudicato o, comunque, fondate sullo stesso fatto costitutivo, possono essere proposte in separati processi solo ove l’attore risulti assistito da un oggettivo interesse alla tutela processuale frazionata; Cass. n. 20714/2018, che ha applicato il medesimo principio per le domande aventi ad oggetto diversi e distinti diritti di credito relativi a un medesimo rapporto di durata tra le parti, nella specie scaturenti dalla custodia, in vari momenti, di numerosi veicoli affidati ad una carrozzeria dalle autorità di pubblica sicurezza).

Tuttavia, rileva il Collegio che le considerazioni, svolte dal giudice di appello circa la unitaria natura del rapporto derivante dal collegamento insorto tra il subappalto ed il noleggio, siano state sviluppate al fine di evidenziare come la condotta abusiva si correlava, oltre che alla vicenda interessante i due ricorsi monitori oggetto del presente procedimento, ad altri ricorsi monitori separatamente proposti dalla ricorrente per il pagamento del corrispettivo del noleggio.

Nella fattispecie, però, come si ricava dalla narrazione del giudice di appello, entrambi i ricorsi riuniti, e per i quali è stata ravvisata la condotta abusiva della subappaltatrice, afferiscono a crediti derivanti unicamente dal rapporto di subappalto, sicché si rivela sterile la contestazione circa la pretesa autonomia giuridica dei contratti collegati.

Quanto, invece, alla denunciata violazione dei principi in materia di abusivo frazionamento del credito, la sentenza è immune dalle critiche della ricorrente.

E’ stato, infatti, ribadito il principio, già affermato da Cass. S.U. n. 23726/2007, secondo cui non è consentito al creditore di una determinata somma di denaro, dovuta in forza di un unico rapporto obbligatorio, di frazionare il credito in plurime richieste giudiziali di adempimento, contestuali o scaglionate nel tempo, in quanto tale scissione del contenuto della obbligazione, operata dal creditore per sua esclusiva utilità con unilaterale modificazione aggravativa della posizione del debitore, si pone in contrasto sia con il principio di correttezza e buona fede, che deve improntare il rapporto tra le parti non solo durante l’esecuzione del contratto ma anche nell’eventuale fase dell’azione giudiziale per ottenere l’adempimento, sia con il principio costituzionale del giusto processo, traducendosi la parcellizzazione della domanda giudiziale diretta alla soddisfazione della pretesa creditoria in un abuso degli strumenti processuali che l’ordinamento offre alla parte, nei limiti di una corretta tutela del suo interesse sostanziale, e ciò anche avuto riguardo alla sua specificazione ad opera di Cass. S.U. n. 4090/2017, secondo cui resta possibile la formulazione delle domande in autonomi giudizi solo se risulti in capo al creditore un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata (sul punto si veda anche Cass. n. 26089/2019).

In tal senso, si veda altresì quanto di recente ribadito da questa Corte, secondo cui, in tema di frazionamento del credito, il principio in base al quale i diritti di credito che, oltre a fare capo ad un medesimo rapporto di durata tra le stesse parti, sono anche in proiezione inscrivibili nel medesimo ambito oggettivo di un possibile giudicato o comunque fondati sul medesimo fatto costitutivo, non possono essere azionati in separati giudizi, a meno che il creditore non risulti titolare di un interesse oggettivamente valutabile alla tutela processuale frazionata, deve essere inteso con la duplice specificazione per cui: a) l’espressione “medesimo rapporto di durata” va letta in senso storico/fenomenologico, con conseguente attribuzione ad essa del significato di relazione di fatto realizzatasi tra le parti nella concreta vicenda da cui deriva la controversia; b) nell’espressione “medesimo fatto costitutivo”, l’aggettivo “medesimo” va inteso come sinonimo di “analogo” e non di “identico” (Cass. n. 14143/2021, che ha altresì chiarito che la violazione del divieto processuale di frazionamento è sanzionata con l’improponibilità della domanda, ferma restando la possibilità di riproporre in giudizio la domanda medesima, in cumulo oggettivo, ex art. 104 c.p.c., con tutte le altre domande relative agli analoghi crediti sorti nell’ambito della menzionata relazione unitaria).

La sentenza impugnata, con accertamento in fatto, non censurabile in sede di legittimità, stante la derivazione dei crediti azionati dal medesimo rapporto di subappalto (inscritto a sua volta in un più ampio rapporto unitario generato dal collegamento con il contratto di noleggio), ha rilevato l’assenza di una valida giustificazione per la richiesta frazionata della ricorrente.

Quanto poi alla deduzione di uno specifico interesse che possa giustificare tale condotta processuale, solo in ricorso si deduce la diversità delle fonti di prova a sostegno delle due domande monitorie separatamente avanzate, senza però allegare una diversa giustificazione, ritenendo però il Collegio che quella addotta sia inidonea a legittimare il frazionamento.

Effettivamente nella giurisprudenza di questa Corte è stato affermato che (Cass. n. 10177/2015) l’attore che, a tutela di un unico credito dovuto in forza di un unico rapporto obbligatorio, agisca con ricorso monitorio per la somma provata documentalmente e con il procedimento sommario di cognizione per la parte residua, non incorre in un abuso dello strumento processuale per il frazionamento del credito in quanto tale comportamento non si pone in contrasto né con il principio di correttezza e buona fede, né con il principio del giusto processo, dovendosi riconoscere il diritto del creditore a una tutela accelerata mediante decreto ingiuntivo per i crediti provati con documentazione sottoscritta dal debitore, e che (Cass. n. 22574/2016) del pari non incorre in abuso del diritto l’attore che, a tutela di un credito nascente da un unico rapporto obbligatorio (nella specie, per il pagamento di compensi professionali), agisce, dapprima, con ricorso monitorio, per la somma già documentalmente provata, e, poi, in via ordinaria, per il residuo, stante il diritto del creditore a ricorrere ad una tutela accelerata, mediante decreto ingiuntivo, per la parte di credito assistita dai requisiti per la relativa emanazione.

Trattasi però di affermazioni che attengono alla diversa ipotesi in cui, anche in ragione del differente supporto probatorio delle varie voci di credito vantate, sia possibile solo per alcune di esse il ricorso ad una forma di tutela semplificata o accelerata, quale quella offerta dal ricorso per decreto ingiuntivo, ravvisandosi in tale situazione quel concreto interesse che appunto legittima la proposizione separata delle domande.

Ma nella fattispecie, pur a fronte di diverse prove di carattere documentale addotte a sostegno delle domande di pagamento avanzate dalla subappaltatrice, la richiesta è stata per entrambi i decreti opposti veicolata nelle forme del procedimento monitorio, sicché la sola diversità delle prove documentali, entrambe però reputate idonee a sorreggere una domanda di ingiunzione, non può costituire elemento dal quale ricavare l’assenza dell’abuso del diritto, invece riscontrato dal giudice di merito.

E’, infine, destituita di fondamento la deduzione secondo cui il rimedio all’abusivo frazionamento della pretesa creditoria scaturente da un medesimo rapporto giuridico, andrebbe individuato nella riunione e nella penalizzazione del creditore quanto al regime di liquidazione delle spese di lite.

Non ignora il Collegio, come appunto ricordato dalla difesa della ricorrente, che tale soluzione si sia affacciata in alcuni precedenti di questa Corte (Cass. n. 5491/2015), ma si osserva che la stessa, come puntualmente sottolineato dalla difesa della controricorrente D.S. Costruzioni, oltre ad essere stata limitata ai casi di abusivo frazionamento di crediti derivanti da distinti rapporti contrattuali, è però contrastata e superata dalla prevalente giurisprudenza che, ponendosi nel solco dell’intervento delle Sezioni Unite del 2007, ha ritenuto che la sanzione sia quella della improponibilità delle domande separatamente avanzate, in violazione del divieto di abusivo frazionamento del credito (cfr. in tal senso Cass. n. 19898/2018; Cass. n. 17019/2018; Cass. n. 28286/2011; Cass. n. 15476/2008, nonché in motivazione Cass. S.U. n. 4315/2020, che ha ritenuto inammissibile ex art. 360 bis c.p.c., n. 1, il motivo di ricorso con il quale si contestava, per un’ipotesi di abusivo frazionamento del credito, la soluzione del giudice di merito di improponibilità delle domande separatamente avanzate).

3. Il terzo motivo di ricorso denuncia la violazione e falsa applicazione degli art. 112,113 e 115 c.p.c., nonché la violazione e/o falsa applicazione degli art. 1175,1375 e 1366 c.c. e la violazione dell’art. 1326 c.c., con omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’inadempimento del subappaltante rispetto all’obbligo contrattuale di pagare al subappaltatore il corrispettivo per i lavori da quest’ultimo eseguiti.

Si deduce che la Corte d’Appello ha omesso di decidere sulla domanda di pagamento del corrispettivo del subappalto di cui ai due decreti ingiuntivi oggetto delle opposizioni poi riunite, trascurando poi di considerare la valenza vincolante dell’accordo aggiuntivo del 24/1/2006, con il quale era stato rideterminato il prezzo.

Il motivo va disatteso.

Anche per tale mezzo non risulta validamente sviluppata la denuncia di violazione degli art. 115 e 116 c.p.c., come del pari è omessa la puntuale individuazione del fatto decisivo di cui sarebbe stata omessa la disamina.

Quanto, invece, alla violazione dell’art. 112 c.p.c., la censura non si confronta con il tenore della sentenza impugnata.

I giudici di appello, lungi dall’omettere di decidere sulla domanda di pagamento, avanzata in via monitoria dalla ricorrente, l’hanno invece esplicitamente respinta, in ragione della sanzione che colpiva la condotta della stessa ricorrente, che aveva dato vita ad un abusivo frazionamento della propria pretesa.

La conseguenza dell’improponibilità delle domande separatamente, ed abusivamente, proposte, ha quindi determinato il rigetto della domanda di pagamento e ciò costituisce una ratio decidendi di per sé sola idonea a sorreggere la correttezza della sentenza gravata.

Peraltro, la medesima sentenza ha riscontrato anche l’infondatezza della pretesa basata sulla portata vincolante dell’accordo integrativo del 24/1/2006, cui si fa riferimento nel motivo in esame, avendo rilevato con un’interpretazione del contratto, che non è censurata in maniera specifica dalla società subappaltatrice (mancando la puntuale indicazione della norma di ermeneutica contrattuale che risulterebbe violata), che la lettura sistematica delle clausole contrattali deponeva per l’immodificabilità del corrispettivo, come originariamente pattuito, non potendosi estendere la diversa previsione concernente le modifiche successive del contratto (art. 23) a quella specificamente rivolta alla fissazione del corrispettivo del subappaltatore (art. 3), ritenendo quindi superfluo indagare se, come pur prospettato nell’atto di opposizione, colui che aveva sottoscritto tale accordo per conto della società subcommittente fosse dotato di validi poteri rappresentativi.

4. Il quarto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 112,115 e 116 c.p.c. nonché degli artt. 1460 e 2697 c.c., con violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1175,1375 e 1366 c.c., ed omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, consistente nell’inadempimento del subappaltante rispetto all’obbligo contrattuale di pagare al subappaltatore il corrispettivo per i lavori eseguiti.

Si denuncia l’erroneità della sentenza gravata che ha ritenuto illegittimo il rifiuto della Subwork di proseguire l’esecuzione del subappalto, ritenendo la diffida ad adempiere dalla medesima inviata pretestuosa e strumentale, escludendo altresì che fosse stata offerta la prova dell’esecuzione delle proprie prestazioni.

Aggiunge che la sospensione era stata disposta a seguito dell’inadempimento della controparte, che aveva omesso di corrispondere il prezzo del subappalto, trascurando che tale prova emergeva dai certificati di pagamento emessi dalla *****.

4.1 Anche tale motivo sconta, analogamente a quelli già esaminati, la mancata illustrazione sia delle ragioni che legittimerebbero la denuncia della violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., sia dell’individuazione del fatto decisivo di cui sarebbe stata omessa la disamina (sollecitando piuttosto una complessiva rivalutazione delle emergenze probatorie, cosa non consentita in sede di legittimità), così come del pari non risulta fondata la deduzione circa la violazione dell’art. 112 c.p.c., atteso il rigetto della domanda avanzata dalla ricorrente.

Quanto, invece all’apprezzamento della condotta dei contraenti, in relazione alle reciproche domande di risoluzione del contratto per inadempimento, deve ribadirsi il principio secondo cui (Cass. n. 13627/2017) nei contratti con prestazioni corrispettive, in caso di denuncia di inadempienze reciproche, è necessario comparare il comportamento di ambo le parti per stabilire quale di esse, con riferimento ai rispettivi interessi ed alla oggettiva entità degli inadempimenti, si sia resa responsabile delle trasgressioni maggiormente rilevanti ed abbia causato il comportamento della controparte, nonché della conseguente alterazione del sinallagma. Tale accertamento, fondato sulla valutazione dei fatti e delle prove, rientra nei poteri del giudice di merito ed è insindacabile in sede di legittimità se congruamente motivato (conf. Cass. n. 13827/2019).

Rileva la Corte che tale valutazione comparativa è stata effettivamente condotta dalla Corte d’Appello, che ha, appunto, rilevato che la ricorrente aveva indebitamente sospeso l’esecuzione dei lavori, adducendo a giustificazione il mancato versamento del corrispettivo che però, in base alle specifiche previsioni contrattuali, non le era dovuto, non avendo partecipato al procedimento contrattuale di cui all’art. 9 del contratto, all’esito del quale solamente poteva essere preteso il pagamento di saldi correlati allo stato di avanzamento dei lavori.

La sentenza ha, poi, tratto dalla mancata partecipazione della subappaltatrice alla procedura convenzionalmente stabilita, anche la conclusione della mancata dimostrazione dell’effettiva esecuzione dei lavori asseritamente compiuti, posto che solo a seguito di tale verifica in contraddittorio sarebbero stati emessi i SAL mensili con la redazione di un correlato certificato di pagamento.

Si ricava, quindi, che la sentenza gravata, oltre ad avere riscontrato il prevalente ed assorbente inadempimento della ricorrente, che si è sottratta agli obblighi contrattuali, adducendo una reazione all’altrui inadempimento, in realtà non sussistente, ha offerto una ricostruzione anche in punto di prova delle reciproche ragioni che, lungi dal costituire un’inversione dell’onere della prova, denota un riscontro in fatto della inadempienza della subappaltatrice, che si limita a contrapporre apoditticamente in ricorso che in realtà avrebbe offerto la prova delle prestazioni eseguite.

Va, infatti, ribadito che (cfr. Cass. n. 25584/2018) in tema di prova dell’inadempimento di un’obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l’adempimento, deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell’onere della dimostrazione del fatto estintivo dell’altrui pretesa, costituito dall’avvenuto adempimento, o dall’eccezione d’inadempimento del creditore ex art. 1460 c.c. (conf. Cass. n. 3373/2010).

In applicazione di tali principi, è stato quindi affermato che (cfr. da ultimo Cass. n. 98/2019) in tema di inadempimento del contratto di appalto, spetta all’appaltatore, che agisca in giudizio per ottenere il pagamento del corrispettivo, di provare l’esatto adempimento della propria obbligazione, ove il committente ne eccepisca l’inadempimento (conf. Cass. n. 936/2010).

Nella specie, la società subcommittente ha allegato la mancata esecuzione dei lavori nel rispetto dei tempi previsti nel contratto ed, a fronte di tale deduzione, la subappaltatrice ha allegato di aver sospeso il proprio adempimento come forma di reazione all’inadempimento altrui, e precisamente al mancato pagamento del prezzo.

Tuttavia, come visto, i giudici di merito hanno escluso che ricorresse l’inadempimento della subcommittente, non essendo maturate le condizioni che, in base alla disciplina convenzionale, avrebbero determinato la maturazione del diritto al pagamento degli acconti in corso d’opera, sicché una volta esclusa la causa giustificatrice dell’applicazione dell’art. 1460 c.c. invocata dalla ricorrente, la risoluzione è stata accertata per colpa di quest’ultima, sulla scorta del riscontro dell’effettivo inadempimento delle prestazioni dalla medesima dovute, e senza quindi nemmeno dover fare applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.

5. Il quinto motivo denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1363,1366 c.c. con omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistente nell’inadempimento della subappaltante rispetto all’obbligo contrattuale di pagare alla subappaltatrice il corrispettivo dei lavori da quest’ultimo eseguiti.

Si deduce che la sentenza gravata è viziata quanto all’individuazione dei giorni di ritardo per i quali applicare la penale.

Si assume, in primo luogo che, una volta dichiarata la risoluzione del contratto per inadempimento della ricorrente, non poteva riconoscersi alla controparte anche la penale prevista per il ritardo.

Inoltre, è erroneo il calcolo della penale per 108 giorni, in quanto non si sarebbe considerato che la ricorrente, dopo avere in un primo momento sospeso l’esecuzione dei lavori, li aveva ripresi, salvo poi interromperli definitivamente il 31 agosto 2006, così che i giorni da prendere in esame sono appena 34 (dal 1 settembre 2006 al 4 ottobre 2006, data di risoluzione del contratto).

Il motivo va rigettato.

In primo luogo, rileva la Corte che la determinazione del danno secondo quanto previsto dalla penale per il ritardo, nonostante la risoluzione del contratto, risulta operata dal giudice di merito in conformità della giurisprudenza di questa Corte che ha anche di recente ribadito che (Cass. n. 27994/2018) l’art. 1383 c.c. vieta il cumulo tra la domanda della prestazione principale e quella diretta ad ottenere la penale per l’inadempimento, ma non esclude che si possa chiedere tale prestazione insieme con la penale per il ritardo e, nell’ipotesi di risoluzione del contratto, il risarcimento del danno da inadempimento e la penale per la mancata esecuzione dell’obbligazione nel termine stabilito ovvero, cumulativamente, la penale per il ritardo e quella per l’inadempimento, salva, nel caso di cumulo di penale per il ritardo e prestazione risarcitoria per l’inadempimento, la necessità di tenere conto, nella liquidazione di quest’ultima, della entità del danno ascrivibile al ritardo che sia stato già autonomamente considerato nella determinazione della penale, al fine di evitare un ingiusto sacrificio del debitore (conf. Cass. n. 12349/2002).

A pag. 10 della sentenza di appello, è stato rigettato l’appello incidentale della subcommittente, finalizzato a conseguire ulteriori danni rispetto a quelli già riconosciuti e liquidati con la penale per il ritardo, rilevando, in conformità della giurisprudenza di questa Corte, che poiché i danni ulteriori lamentati erano da ritenersi ricompresi in quelli derivanti dallo stesso ritardo, non si poteva quindi riconoscere alcuna somma aggiuntiva.

La mancata liquidazione di danni derivanti dalla risoluzione, diversi da quelli già ristorati per effetto della penale, esclude quindi che la sentenza sia incorsa nella violazione dedotta dalla ricorrente.

Quanto invece al diverso profilo attinente alla quantificazione dei giorni di ritardo, in disparte la considerazione secondo cui si tratta di contestazione involgente evidentemente accertamenti di fatto, riservati al giudice di merito, e peraltro fondata su di un’apodittica affermazione circa la ripresa dei lavori, di cui non si fornisce adeguata giustificazione in chiave probatoria, rileva il Collegio che la penale è commisurata al ritardo nell’esecuzione dei lavori.

In tal senso, i giudici di appello hanno ritenuto che il giorno della diffida ad adempiere segnasse già il momento a partire dal quale la subappaltatrice era in ritardo nell’esecuzione dei lavori.

Ad impedire l’applicazione della penale dovuta per il ritardo non appare però sufficiente la mera ripresa dei lavori, ma si imponeva la conclusione degli stessi, poiché solo tale evento avrebbe impedito di considerare la ricorrente in ritardo rispetto ai tempi previsti per l’esecuzione del contratto.

6. Il ricorso deve quindi essere rigettato, dovendosi regolare le spese in base al principio della soccombenza.

Nulla a disporre quanto alle spese per le parti intimate che non hanno svolto attività difensiva in questa fase.

7. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto il comma 1-quater del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

PQM

Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al rimborso in favore delle controricorrenti delle spese del presente giudizio che liquida per la D.S. Costruzioni in complessivi Euro 10.400,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15% sui compensi ed accessori di legge, se dovuti, e per la M. Costruzioni S.r.l. in complessivi Euro 8.000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali pari al 15 % sui compensi ed accessori di legge, se dovuti;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente del contributo unificato per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 9 dicembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 21 dicembre 2021

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