Corte di Cassazione, sez. I Civile, Ordinanza n.4696 del 22/02/2021

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRISTIANO Magda – Presidente –

Dott. VANNUCCI Marco – Consigliere –

Dott. FERRO Massimo – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – rel. Consigliere –

Dott. PAZZI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 1716/2015 R.G. proposto da:

***** S.R.L., in persona del legale rappresentante p.t.

M.E., rappresentata e difesa dagli Avv. Innocenzo Salvini, e Pietro Chimisso, con domicilio eletto in Roma, via Nizza, n. 53, presso lo studio dello Avv. Riccardo Salvini;

– ricorrente –

contro

FALLIMENTO DELLA ***** S.R.L.;

– intimato –

e FALLIMENTO DELLA ***** S.R.L., in persona del curatore p.t. Avv. Z.M., rappresentato e difeso dagli Avv. Innocenzo Salvini e Pietro Chimisso, con domicilio eletto in Roma, via Nizza, n. 53, presso lo studio dell’Avv. Riccardo Salvini;

– interventore volontario –

avverso il decreto del Tribunale di Sulmona depositato il 3 dicembre 2014;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 4 novembre 2020 dal Consigliere Dott. Guido Mercolino.

FATTI DI CAUSA

1. Con decreto del 3 dicembre 2014, il Tribunale di Sulmona ha rigettato l’opposizione proposta dall'***** S.r.l. avverso lo stato passivo del fallimento dell'***** S.r.l., ed avente ad oggetto l’ammissione al passivo in via privilegiata di un credito di Euro 823.575,00, a titolo di rimborso delle spese straordinarie e delle spese sostenute per le opere richieste dalla legge o dalla Pubblica Amministrazione, previsto dal contratto di affitto del ramo di azienda relativo alla lavorazione degli pneumatici, stipulato tra l’opponente e la società fallita.

Premesso che il curatore si era avvalso della facoltà di recedere dal contratto di affitto, dandone comunicazione all’opponente il 6 dicembre 2011, il Tribunale ha ritenuto corretta l’esclusione del credito di Euro 705.806,19, derivante da opere eseguite nel biennio 2012-2013, dal momento che a quell’epoca il rapporto si era ormai sciolto per effetto del recesso, e l’opponente non aveva avanzato domanda d’indennizzo per ingiustificato arricchimento o di equo indennizzo. Ha escluso che i lavori potessero ritenersi effettuati nell’interesse della procedura, evidenziando la volontà contraria manifestata attraverso l’esercizio della facoltà di recesso, ed aggiungendo che le opere realizzate erano funzionali all’attività esercitata dall’opponente, mentre un ipotetico acquirente avrebbe potuto riconvertire l’azienda ad altra produzione. Quanto al credito di Euro 117.768,82, derivante da opere eseguite nell’anno 2011, ha rilevato che dalle fatture prodotte non emergeva se le stesse fossero opere di manutenzione straordinaria oppure opere richieste dalla legge o dalla Pubblica Amministrazione, osservando comunque che il credito risultava inferiore a quello pacificamente vantato dal curatore per l’occupazione senza titolo dell’opificio dalla data del recesso all’attualità, ed aggiungendo che per le spese relative allo smaltimento dei rifiuti tossici era stato dimostrato soltanto l’importo di Euro 20.328,09.

3. Avverso il predetto decreto l'***** ha proposto ricorso per cassazione, articolato in quattro motivi. Il curatore del fallimento non ha svolto attività difensiva.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, si rileva che, a seguito della dichiarazione di fallimento della ricorrente, pronunciata dal Tribunale di Sulmona con sentenza del 14 giugno 2016, si è costituito in giudizio il curatore, mediante il deposito di un atto denominato “ricorso per riassunzione ex art. 303 c.p.c.”, nel quale, dato atto dell’avvenuta interruzione del processo, ai sensi del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, art. 43 ha dichiarato di volerlo proseguire.

Nel giudizio di cassazione, l’istituto dell’interruzione non trova peraltro applicazione, neppure a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 41 che ha modificato della L.Fall., l’art. 43, aggiungendovi il comma 3, il quale attribuisce alla dichiarazione di fallimento un’efficacia interruttiva automatica: tale giudizio è infatti dominato dall’impulso d’ufficio, il quale esclude l’operatività della disciplina generale dettata dagli artt. 299 c.p.c. e ss., precludendo quindi anche la riassunzione del processo, ai sensi dell’art. 303 cit. (cfr. Cass., Sez. I, 15/11/2017, n. 27143; 23/03/2017, n. 7477; Cass., Sez. lav., 13/10/2010, n. 21153).

La costituzione in giudizio del curatore va dichiarata pertanto inammissibile, non potendosi ritenere consentita neppure ai sensi dell’art. 105 c.p.c., dal momento che in sede di legittimità non è ammesso l’intervento di soggetti che non abbiano partecipato alle precedenti fasi del giudizio, fatta eccezione soltanto per il successore a titolo universale, in assenza di una contraria disposizione di legge (cfr. Cass., Sez. VI, 15/05/2020, n. 8973; Cass., Sez. V, 17/07/2019, n. 19172), e per quello a titolo particolare, cui la predetta facoltà viene riconosciuta a tutela del suo diritto di difesa, ma solo a condizione che non vi sia stata precedentemente la costituzione del dante causa (cfr. Cass., Sez. III, 10/10/2019, n. 25423; Cass., Sez. VI, 7/08/2018, n. 20565).

2. Con il primo motivo d’impugnazione, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione del R.D. 16 marzo 1942, n. 267, artt. 35 e 79 nonchè l’omessa motivazione circa un punto decisivo della controversia, sostenendo che, nel ritenere non dovute le somme richieste, in virtù dell’intervenuto recesso del curatore dal contratto di affitto dell’azienda, il decreto impugnato non ha tenuto conto della nullità e dell’inefficacia del recesso, in quanto preceduto dalla sola autorizzazione del Giudice delegato, senza il consenso del comitato dei creditori. Aggiunge che il recesso era stato seguito da atti e comportamenti consapevoli dell’amministrazione fallimentare, da cui emergeva inequivocabilmente la rinuncia ad avvalersene: gli organi del fallimento non si erano infatti mai attivati per ottenere il rilascio dell’azienda, nè si erano opposti all’anticipazione ed alla rendicontazione delle spese da parte di essa affittuaria, avendo lasciato gl’immobili nella sua disponibilità ed avendo avallato gli esborsi da essa sostenuti per lo smaltimento dei rifiuti e per l’adeguamento delle strutture e degl’impianti, in quanto conformi all’interesse della massa dei creditori.

2.1. Il motivo è inammissibile.

Le censure proposte dalla ricorrente hanno infatti ad oggetto questioni non trattate nel decreto impugnato, che non possono quindi trovare ingresso in sede di legittimità, implicando accertamenti di fatto in ordine al mancato rilascio del consenso al recesso da parte del comitato dei creditori ed alla condotta tenuta dagli organi del fallimento in epoca successiva alla risoluzione del rapporto, e non essendo stato precisato in quale fase ed in quale atto del giudizio di merito le predette circostanze siano state fatte valere (cfr. Cass., Sez. VI, 13/12/2019, n. 32804; Cass., Sez. II, 24/01/2019, n. 2038; Cass., Sez. I, 25/10/2017, n. 25319).

3. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione o la falsa applicazione della L.Fall., art. 93, comma 3, nonchè la contraddittorietà della motivazione, osservando che, nel ritenere non provato il credito derivante dalle spese sostenute nel periodo anteriore al recesso, il decreto impugnato ha da un lato rilevato l’impossibilità di distinguere quelle relative ad interventi straordinari o richiesti dalla Pubblica Amministrazione da quelle ordinarie, e dall’altro ritenuto che le prime fossero inferiori all’importo richiesto. Aggiunge che, pur avendo dato per scontata l’opponibilità al fallimento delle spese sostenute fino all’esercizio della facoltà di recesso, il Tribunale ha rigettato l’istanza di ammissione della c.t.u. avanzata da essa ricorrente al fine di dissipare la predetta incertezza, e ciò in contrasto con l’efficacia ex nunc del recesso, comunicato dopo che il contratto aveva avuto un principio di esecuzione.

3.1. Il motivo è infondato.

Nel rigettare la domanda di rimborso delle spese sostenute dalla ricorrente nell’anno 2011, il Tribunale ha fatto ricorso a due distinti ordini di considerazioni, autonomamente idonei a sorreggere la decisione adottata, e costituiti rispettivamente dalla mancata dimostrazione dell’avvenuta effettuazione delle predette spese per le opere previste dall’art. 9 del contratto di affitto, che limitava l’obbligo del rimborso a quelle straordinarie ed a quelle relative ad opere richieste dalla legge o dalla Pubblica Amministrazione, e dall’inferiorità dell’importo richiesto rispetto a quello dovuto al fallimento per l’occupazione sine titulo dell’opificio aziendale nel periodo successivo alla comunicazione del recesso. Le due affermazioni risultano tutto altro che inconciliabili, se si considera che la seconda si riferisce all’importo complessivamente indicato dall’attrice, il quale, comprendendo non solo le spese previste dalla richiamata clausola contrattuale, ma anche quelle ordinarie, per le quali era escluso il diritto al rimborso, era certamente superiore a quello effettivamente dovuto, ritenuto dal Tribunale inferiore a quello dovuto dall’attrice per l’occupazione dell’opificio, sulla base di una valutazione avente come ipotetico parametro di riferimento il canone pattuito tra le parti per la durata dell’affitto. Può quindi escludersi la nullità del decreto per difetto del requisito di cui all’art. 132 c.p.c., comma 2, n., configurabile (al di fuori delle ipotesi di inesistenza assoluta o mera apparenza della motivazione, neppure prospettate nel caso in esame) soltanto quando dal confronto tra le argomentazioni svolte a sostegno di un medesimo capo della decisione emerga un contrasto insanabile, tale da impedire la ricostruzione del percorso logico sotteso alla statuizione impugnata (cfr. Cass., Sez. I, 14/08/2020, n. 17182; Cass., Sez. III, 18/04/2019, n. 10815), ovvero quando l’esame delle argomentazioni relative alla medesima questione evidenzi una motivazione complessivamente perplessa, sintomatica dell’incapacità del giudicante di prendere precisamente posizione in ordine ai fatti accertati (cfr. Cass., Sez. Un., 31/03/1971, n. 936; Cass., Sez. II, 4/02/2003, n. 1610).

Il rigetto dell’istanza di ammissione della c.t.u. proposta dall’attrice risulta a sua volta adeguatamente giustificato dalle finalità esplorative dell’iniziativa, volta a sopperire all’insufficienza delle indicazioni emergenti dalle fatture prodotte in giudizio, ed alla conseguente impossibilità di stabilire se le opere alle quali si riferivano gli esborsi dalle stesse documentati fossero o meno riconducibili alle categorie per le quali l’art. 9 del contratto di affitto prevedeva il rimborso della relativa spesa: com’è noto, infatti, la c.t.u. non costituisce un mezzo di prova, ma uno strumento a disposizione del giudicante, che, in quanto avente la finalità di coadiuvarlo nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che richiedono il possesso di particolari competenze tecniche, non può essere utilizzato per esonerare le parti dalla prova dei fatti allegati a sostegno delle rispettive domande o eccezioni, e può quindi essere quindi legittimamente negato qualora, attraverso la relativa istanza, la parte intenda supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o deduzioni probatorie, ovvero sollecitare la ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (cfr. Cass., Sez. VI, 12/04/2019, n. 10373; 15/12/2017, n. 30218; 8/02/2011, n. 3130).

4. Con il quarto motivo, il cui esame risulta logicamente e giuridicamente prioritario rispetto a quello del terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione della L.Fall., artt. 93, 94 e 95, degli artt. 61,115,116 e 191 c.p.c. e dell’art. 24 Cost., osservando che, nel rilevare l’impossibilità di distinguere le spese straordinarie da quelle ordinarie, il decreto impugnato non ha considerato che l’unico criterio d’individuazione di quelle suscettibili di rimborso era costituito dalla riferibilità delle stesse agli investimenti effettuati per la realizzazione delle opere richieste dalla legge o dalla Pubblica Amministrazione. Premesso inoltre che la completezza della domanda, dotata di tutti i requisiti prescritti dalla L.Fall., art. 93, poneva a carico del curatore l’onere di contestare l’importo non dovuto, in quanto non attinente a spese straordinarie o non opponibile al fallimento, sostiene che il credito doveva considerarsi non contestato: nel progetto di stato passivo, il curatore non aveva infatti rilevato alcun impedimento, ma si era limitato a sospendere l’ammissione al passivo, in attesa di una verifica affidata ad un c.t.u. nominato dal Giudice delegato, per poi depositare tardivamente una relazione, senza che ad essa ricorrente fosse consentito di difendersi.

4.1. Il motivo è infondato.

Nel contestare l’affermazione secondo cui il diritto al rimborso non si estendeva alle spese ordinarie, la ricorrente censura infatti l’interpretazione del contratto di affitto risultante dal decreto impugnato, la quale, traducendosi nella ricostruzione della comune intenzione delle parti, si risolve in una indagine di fatto, riservata al giudice di merito, il cui risultato è sindacabile in sede di legittimità esclusivamente per inosservanza delle regole legali di ermeneutica contrattuale, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ovvero per incoerenza o illogicità della motivazione, nei limiti in cui tale vizio è ancora deducibile con il ricorso per cassazione, a seguito della modificazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 da parte del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni dalla L. 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. III, 14/07/2016, n. 14355; 26/05/2016, n. 10891; 10/02/2015, n. 2465). Tali vizi nella specie non risultano in alcun modo dedotti, essendosi la ricorrente limitata ad insistere sulla propria lettura dell’art. 9 del contratto di affitto, contrastante con quella fornita dal Tribunale, riportandone parzialmente il testo nel ricorso, senza però indicare i criteri ermeneutici violati o le lacune argomentative o le incongruenze del ragionamento seguito per giungere alla decisione, e dimostrando quindi di voler sollecitare una nuova valutazione dei fatti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica e la coerenza logico-formale delle argomentazioni svolte nel provvedimento impugnato (cfr. Cass., Sez. VI, 7/12/2017, n. 29404; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547; 16/12/2011, n. 27197).

Conseguentemente, non merita censura il decreto impugnato, nella parte in cui, sulla base della predetta interpretazione della disciplina contrattuale, ha escluso il diritto del ricorrente al rimborso delle spese sostenute, in considerazione dell’impossibilità di distinguere, tra le fatture prodotte in giudizio, quelle relative ad interventi ordinari da quelle relative ad interventi di manutenzione straordinaria o ad opere richieste dalla legge o dalla Pubblica Amministrazione. Nessun rilievo può assumere, in proposito, il richiamo della ricorrente al principio di non contestazione, il quale si riferisce esclusivamente ai fatti storici allegati a sostegno delle domande e delle eccezioni, e non può quindi riguardare le conclusioni ricostruttive desumibili dalla valutazione di documenti (cfr. Cass., Sez. III, 5/03/2020, n. 6172; 21/06/2016, n. 12748; Cass., Sez. VI, 21/12/2017, n. 307449).

5. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la nullità del decreto impugnato per violazione dell’art. 112 c.p.c., nonchè la violazione o la falsa applicazione degli artt. 1223,1241,1242,1243 e 2056 c.c., affermando che, nel dare atto dell’inferiorità del credito derivante dalle spese sostenute nel periodo anteriore al recesso rispetto a quello vantato dal fallimento per l’occupazione senza titolo dell’opificio, il decreto impugnato non ha tenuto conto della disomogeneità dei due crediti, aventi natura rispettivamente contrattuale ed extracontrattuale, e dei vantaggi arrecati al fallimento dagli investimenti di recupero e risanamento effettuati da essa ricorrente sui beni aziendali, nonchè dalla conservazione e dal potenziamento dell’avviamento. Aggiunge che, nell’evidenziare il credito del fallimento, il Tribunale non ha considerato che il possesso dell’impianto era stato esercitato sotto il controllo e con il consenso degli organi fallimentari, osservando comunque che la compensazione tra i due crediti non poteva essere dichiarata, non essendosi il curatore costituito in giudizio, e non avendo quindi proposto la relativa eccezione nè una domanda riconvenzionale.

5.1. Il motivo è inammissibile.

Il rigetto delle censure riguardanti la mancata dimostrazione dell’avvenuta effettuazione delle spese per le opere previste dall’art. 9 del contratto di affitto, comportando il definitivo accertamento dell’insussistenza del credito fatto valere con l’istanza di insinuazione al passivo, consente di escludere l’interesse della ricorrente all’esame di quelle concernenti l’ammissibilità della compensazione con il controcredito del fallimento derivante dall’occupazione illegittima dell’opificio aziendale. Qualora infatti, come nella specie, la motivazione del provvedimento impugnato sia fondata su una pluralità di ragioni distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una di esse rende superfluo l’esame di quelle relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, il cui accoglimento non potrebbe in alcun caso condurre alla cassazione del provvedimento impugnato, avuto riguardo all’intervenuta definitività delle prime (cfr. Cass., Sez. lav., 20/02/2017, n. 3633; Cass., Sez. V, 11/05/ 2018, n. 11493; Cass., Sez. III, 14/02/2012, n. 2108).

6. Il ricorso va pertanto rigettato, senza che occorra procedere al regolamento delle spese processuali, avuto riguardo alla mancata costituzione dell’intimato.

PQM

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso dallo dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 22 febbraio 2021

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